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Associazione a Resistere (Piemonte)

# LE MALETESTE #

27 lug 2022

Movimento No-Tav e Aska47 Csa Murazzi

Notavinfo Notav

26 luglio, ore 12.38

ASSOCIAZIONE A DELINQUERE? NO, ASSOCIAZIONE A RESISTERE!

Da anni ormai viviamo le assurdità di procura e questura torinesi. Il movimento No Tav è l’ultimo pensiero prima di andare a dormire e il primo al risveglio di digos, pm e politicanti vari che non riescono a darsi pace del fatto che questa nostra lotta continua a resistere nonostante tutto quello che hanno messo e che continuano a mettere in campo da decenni. Da mesi ci stiamo confrontando con l’ennesima bislaccheria a firma del tribunale di Torino : prima hanno provato a sostenere il teorema di associazione sovversiva poi, risultando questa decisamente troppo assurda anche per loro, hanno deciso di virare sull’associazione a delinquere nei confronti di alcune persone appartenenti al Movimento No Tav e al centro sociale Aska47 - Csa Murazzi. Anni di intercettazioni a carico di centinaia di persone, che sono poi state spiattellate su tutti i giornali cercando di creare un’immagine assolutamente distorta e falsificata della realtà. Di nuovo. Già, perché non è una novità quella della modellazione dell’immagine del movimento come il nemico pubblico numero uno, e non sarà certo un capo di imputazione dal sapore così gargantuesco a farci abbassare la testa. Noi siamo dalla parte giusta della Storia, e vogliamo dire che l’unica associazione a cui sentiamo di far parte e l’associazione a resistere. I veri delinquenti in questa storia non siamo noi, ma coloro che stanno portando il pianeta al collasso, che stanno continuando a fomentare guerre nel mondo per riempire le proprie tasche, che distruggono territori per due spiccioli e una poltrona, che portano avanti sistemi produttivi devastanti per la terra e le persone. invitiamo quindi tutte e tutti ad essere parte di questa grande associazione a resistere. Sui sentieri, nelle piazze, sul posto di lavoro, nella propria quotidianità contro ogni ingiustizia che si paleserà sul nostro cammino, da parte nostra, continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto, a testa alta. Al Festival Alta Felicità saranno disponibili le tessere per diventare socio dell'Associazione a Resistere e le magliette della campagna. #associazionearesistere#avantinotav


Notavinfo Notav

28 luglio, ore 16.30 ca.

"Immagina: un mondo di pandemie, guerre e crisi climatica e sociale. E poi non immaginare più, inizia a lottare." Anteprima di #associazionearesistere sabato 30 luglio durante i concerti serali al Festival Alta Felicità , da domenica online su tutti i canali!







COSTRUIRE IL NEMICO: ASKATASUNA, I NO TAV, IL CONFLITTO SOCIALE 13-07-2022 di: Claudio Novaro 1. In questo “cattivo presente”, con una guerra che imperversa nel cuore dell’Europa, può sembrare residuale continuare a ragionare sulla repressione giudiziaria del conflitto sociale (https://volerelaluna.it/talpe/2019/08/13/repressione-giudiziaria-e-movimenti/). Eppure l’ennesimo procedimento aperto a Torino, questa volta contro gli esponenti del centro sociale Askatasuna, merita una riflessione, perché evidenza esemplarmente un cambio di passo dei dispositivi repressivi Askatasuna costituisce, al pari di tutti i centri sociali diffusi sul territorio nazionale, una realtà complessa, frequentata da centinaia di persone, impegnata su terreni disparati, sia in senso lato culturali (autoproduzioni musicali, laboratori fotografici e artistici, dibattiti e concerti, palestra popolare ecc.) che, soprattutto, di iniziativa politica legata alle lotte sociali. È collegata all’esperienza di Askatasuna lo Spazio popolare Neruda, una casa occupata in cui vive un centinaio di famiglie, dove si organizzano corsi di italiano per cittadini stranieri, un doposcuola e varie attività ludiche e culturali per i bambini, un mini ambulatorio sanitario, una palestra popolare e così via. Dovrebbe essere evidente a tutti che ridurre la pluralità di esperienze, di progetti, di punti vista ideali, di pratiche politiche diverse a un sodalizio unico e rigidamente centralizzato costituisca una mistificazione grottesca. È invece quello che ha fatto la Polizia, con un indagine che ha prodotto centinaia di annotazioni di servizio, decine di migliaia di ore di intercettazioni ambientali e telefoniche. Ciò che preoccupa è che la Procura torinese, di fronte all’evidente tentativo di criminalizzare un’esperienza molto più complessa da decifrare di quanto appaia dalle semplificate e ostili ricostruzione della Polizia, ha deciso di condividerle integralmente, richiedendo 16 misure della custodia cautelare in carcere, quattro arresti domiciliari e un divieto di dimora contro altrettanti presunti militanti del centro sociale, contestando il reato di associazione sovversiva, più altri 112 reati vari, che vanno dalla resistenza a pubblico ufficiale all’estorsione e al sequestro di persona. Tutto ciò nell’ambito di un procedimento che vedeva originariamente 91 indagati, da poco ridotti a 22, in sede di conclusione delle indagini preliminari, con lo stralcio degli altri 69. Un primo stop a tale impianto accusatorio è venuto dal giudice delle indagini preliminari incaricato di vagliare le richieste della Procura, che ha escluso la sussistenza di gravi indizi di reato per i reati più gravi, tra cui quello di associazione sovversiva, il collante che tiene in piedi l’intera operazione, applicando nei confronti degli indagati due misure della custodia cautelare in carcere e due arresti domiciliari, più alcune misure dell’obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria. Inaspettatamente peraltro, con un’ordinanza depositata l’11 luglio e notificata ai difensori il giorno successivo, il Tribunale del riesame ha parzialmente accolto l’appello presentato dai pubblici ministeri, ritenendo sussistenti per sei indagati (nei cui confronti vengono applicate le misure della custodia in carcere e degli arresti domiciliari, che restano però sospese in attesa della definitiva pronuncia della Cassazione) i gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato associativo, qualificato in semplice associazione per delinquere e non più in associazione sovversiva. Il Tribunale non si limita solo a negare il carattere sovversivo dell’associazione ma, forse consapevole dell’inconsistenza del teorema accusatorio, introduce una differenziazione specifica (in contrasto peraltro con le migliaia di pagine riversate in atti dalla Digos e fatte proprie dalla Procura), secondo cui a costituire un’associazione per delinquere non è il centro sociale ma «un gruppo criminale dedito a compiere una serie indeterminata di delitti principalmente in Val di Susa» che si sarebbe formato all’interno di Askatasuna. Una prospettiva interpretativa, questa, che appare in contrasto con le ipotesi investigative degli inquirenti, che cerca di salvare l’insalvabile ma ne condivide il pressapochismo, la scarsa aderenza alla realtà dei fatti e, soprattutto, la scarsa conoscenza delle pratiche, dei linguaggi, perfino delle idee che caratterizzano il variegato mondo dell’antagonismo italiano.



2. Vista l’enorme mole degli atti e dei documenti prodotti da Procura e Digos, un’autentica alluvione di carta che tenta di compensare sul piano quantitativo la scarsa qualità indiziaria, risulta impossibile proporre anche solo un riassunto dell’impianto complessivo dell’inchiesta. Si può provare a evidenziarne le principali criticità e gli assunti di fondo. Anzitutto, occorre segnalare come Torino, da sempre laboratorio di pratiche e innovazioni repressive, sia l’unica città italiana a vantare, secondo la Polizia, la presenza contemporanea fino a pochi mesi fa di ben due associazioni sovversive: la prima è quella legata ad Askatasuna, la seconda è quella dell’ex Asilo occupato di via Alessandria (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/03/04/lo-sgombero-dellasilo-occupato-e-le-confessioni-di-una-cittadina-perbene/), sgomberato (e mai più rioccupato) proprio grazie a tale contestazione giuridica, poi fatta a pezzi dal Tribunale del riesame, prima, e dalla Cassazione, poi. L’operazione che la Polizia aveva in mente con Askatasuna era probabilmente la stessa: richiesta di misure cautelari per associazione sovversiva, sgombero del centro sociale e magari anche delle altre strutture ad esso collegate (come lo Spazio polare Neruda), operazione sicuramente più complessa, visto l’insediamento territoriale di Askatasuna e i suoi legami con la città. Occorre intendersi. Qui la questione non riguarda gli spazi occupati e dunque la volontà di assecondare le pulsioni legalitarie, sempre presenti in molte forze politiche che seggono in consiglio comunale, che ne richiedono lo sgombero. Se con l’ex Asilo si trattava di radere al suolo una soggettività antagonista impegnata soprattutto sui fronti della lotta ai Cie/Cpr, agli sfratti e alle politiche di gentrificazione del quartiere Aurora, per Askatasuna la posta in gioco è ancora più alta. Anzitutto la conflittualità metropolitana, quella legata alla manifestazioni di piazza, a quelle degli studenti, alle politiche abitative cittadine. In secondo luogo, e sullo sfondo, il bersaglio più grosso: la resistenza in Val di Susa contro il Tav, resistenza che ha visto il centro sociale, per gli stretti contatti con i comitati popolari della Valle, tra i protagonisti storici di tutte le manifestazioni e le proteste. Non è un caso che 106 reati sui 112 contestati originariamente, ora ridotti a 66 su 72, riguardino episodi commessi in Valle nell’ambito della lotta No Tav. Per raggiungere un traguardo così ambizioso le annotazioni di Polizia raccontano di un centro sociale che decide di costituirsi in associazione criminosa, unicamente votato alla commissione di reati, rigidamente centralizzato, lontana mille miglia dalla fluidità di tutti gli altri centri sociali sparsi per la penisola. La ricostruzione proposta, in cui assumono grande rilievo e centralità le intercettazioni realizzate, è una storia del conflitto sociale a Torino e in Val di Susa vista dal buco della serratura, costruita secondo uno schema cognitivo per cui le vicende umane non sono il frutto di complesse dinamiche sociali ma una sequenza di complotti, di ordini e di relative esecuzioni e il conflitto sociale non è il risultato delle scelte politiche di donne e uomini o di attori sociali collettivi, ma solo un programma delinquenziale, in questo caso sovra determinato da una struttura verticistica. Centrali sul piano investigativo diventano gli scampoli di poche conversazioni intercettate qua e là a casa o nelle macchine di alcuni esponenti del centro sociale (una addirittura in una carrozza ferroviaria, mentre una esponente del centro sociale insieme a una nota e carismatica militante del movimento No Tav si stava recando a Bologna per un dibattito). Si tratta di conversazioni malamente e approssimativamente lette e decifrate sulla base di un’interpretazione esclusivamente letterale anche quando ci si trova di fronte a battute, risate, frasi scherzose, senza alcuna attenzione allo scambio relazionale che si instaura tra gli interlocutori, agli aspetti di condivisione affettiva, che non possono che influenzare la comprensione dei dialoghi. Al di là delle caricature più o meno folcloristiche contenute nell’annotazione finale della Digos, un monumento alla faziosità di quasi 2.000 pagine: quel che conta è che manca nell’impianto d’accusa la capacità di delineare la sussistenza dei presupposti di un’associazione criminosa.



3. Gli inquirenti affrontano tale complesso nodo ricostruttivo, con uno scarto di lato, a partire dal minuzioso elenco di reati commessi, soprattutto, come detto, in Val di Susa negli ultimi anni, nell’ambito della resistenza che il movimento No Tav pone in essere da decenni contro la grande opera. Si tratta di episodi in cui compaiono anche soggetti (rubricati sotto il nome di “ala oltranzista” del movimento) che nemmeno la Digos riconduce ad Askatasuna. Il che dimostra già di per sé la debolezza di un’ipotesi associativa a geometria variabile, che vede i consociati unirsi a soggetti esterni per commettere i reati ricompresi nel proprio programma criminoso. Chiunque abbia un po’ di confidenza con le categorie giuridiche contenute nel nostro codice penale sa, infatti, che l’esistenza di un’associazione deve essere dimostrata attraverso la prova di un accordo tra i consociati, di un programma criminoso aperto e permanente e di un’organizzazione specifica, non certo attraverso i cosiddetti reati scopo, cioè i reati che costituirebbero l’esplicazione delle sue capacità operative. Per tentare di dare concretezza al proprio teorema, Digos e Procura sono costrette a trasformare in «basi e supporti materiali», la sede del centro sociale, in corso Regina Margherita 47, «l’immobile denominato dei Mulini» e il presidio di San Didero, in Val di Susa, lo Spazio popolare Neruda, il centro sociale Murazzi. Il festival dell’Alta felicità o le periodiche iniziative musicali organizzate dal centro sociale divengono, in quest’ottica, «un articolato sistema di finanziamento della vita dell’associazione» sovversiva. La ricchezza sociale e politica di spazi di movimento aperti alla città o costruiti nell’ambito della resistenza No Tav vengono così derubricati a strutture criminali, buone al più a creare profitti economici per garantire le basi materiali del sodalizio. Sul punto sembra parzialmente dissentire il Tribunale che però, per dare concretezza alla sua proposta interpretativa (un’associazione criminale nascosta dentro Askatasuna), trasforma la cassa di resistenza No Tav in uno dei pilastri della «struttura operativa del sodalizio», senza peritarsi di spiegare come il denaro raccolto da un movimento di massa, finisca poi per foraggiare le attività di un micro-gruppo delinquenziale incistato nel corpo sano di un centro sociale. Quanto, invece, all’accordo e al programma criminosi, per colmare il vuoto sulla loro sussistenza, gli inquirenti e lo stesso Tribunale si sono risolti a utilizzare parole o frasi estrapolate dalle diverse intercettazioni. L’esempio più rilevante sarebbe costituito dalla ricorrenza in più intercettazioni o in documenti riferibili al centro sociale della parola “rivoluzione”, il che si commenta da solo. Parallelamente, per descrivere il carattere sovversivo del sodalizio si fa ricorso, negli atti depositati dalla Procura e acriticamente letti dal Tribunale, a due interviste, peraltro pubbliche, rilasciate nel 2001 e nel 2011 da due dei suoi presunti dirigenti (che contengono espressioni tipiche del dibattito della sinistra non istituzionale dagli anni Sessanta del secolo scorso in poi), oltre, inopinatamente, alla ripubblicazione nella sezione storica del sito di Infoaut (alla voce “Storia di classe”, che racconta la storia dei movimenti e del conflitto sociale nel nostro paese) di un articolo uscito sulla rivista Rosso, dell’autonomia milanese, nel 1976. Qui l’approssimativa padronanza del lessico delle aree antagoniste del nostro paese si coniuga con la scarsa conoscenza della storia dei movimenti sociali. Sul piano giudiziario, comunque, inferire dal dibattito politico elementi sull’esistenza di un’associazione sovversiva è operazione che rischia di confondere e travolgere i confini che devono sussistere tra teoria e prassi, tra l’idea sovversiva (tutelata, come insegna la giurisprudenza di legittimità, dall’assetto democratico e pluralista del nostro ordinamento) e le condotte di rilevo penale. Questo sembra l’errore di fondo più madornale dell’inchiesta: scambiare la progettualità criminosa della presunta associazione con il suo apparato ideologico significa muoversi in una prospettiva di criminalizzazione di qualsiasi collettivo che si prefigga di mutare lo stato di cose presenti. Esemplari da questo punto di vista e rivelatrici di una caduta ancor più culturale che giuridica sono le osservazioni contenute nell’atto d’appello della Procura, dove vengono proposte delle argomentazioni che dovrebbero chiarire in concreto come l’associazione in questione abbia un carattere sovversivo. Lo strabiliante sillogismo proposto, a proposito della partecipazione del centro sociale alle lotte valsusine è il seguente. Secondo la giurisprudenza della Cassazione va considerata eversiva qualsiasi condotta orientata al «sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente» ovvero che «tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione nella disarticolazione delle strutture dello Stato o, ancora, nella deviazione dai principi fondamentali che lo governano». A giudizio dei pubblici ministeri, tra tali principi rientra il metodo democratico, con la conseguenza che ogni azione violenta che si contrapponga alla decisioni della maggioranza parlamentare o del governo democraticamente eletti va considerata automaticamente sovversiva sul piano giuridico. Nel nostro caso, in particolare, la realizzazione del treno ad alta velocità, secondo la Procura, «è stata decisa dal Parlamento […] in esecuzione di Trattati Internazionali e di obblighi comunitari», le condotte violente realizzate in val di Susa contrastano con «l’esercizio da parte di chi ne è titolare del metodo democratico», vale a dire con «la prevalenza dell’opinione della maggioranza, che è espressione “nelle forme e nei limiti della Costituzione” della sovranità popolare». Non solo, i reati commessi contro il cantiere del TAV «hanno portato al risultato di ritardare per lungo tempo la realizzazione dell’opera», con conseguenti effetti diretti «sull’esecuzione di legittima decisione del Parlamento». Il paradigma proposto è assolutamente chiaro: qualsiasi forma di protesta nei confronti di legittime decisioni assunte dal Parlamento diviene sovversiva se realizzata anche in forme violente. A dar retta a tale postulato, sarebbero sovversive le proteste degli studenti contro la riforma della scuola superiore o universitaria, o dei lavoratori contro le riforme economiche e così via, se nel corso delle manifestazioni si verificassero degli scontri violenti. Il Tribunale si smarca da tale prospettazione e lo fa, però, con un’affermazione altrettanto incongrua, secondo cui tale assioma non regge non perché in contrasto con un’idea pluralista e conflittuale della democrazia, ma solo perché di fatto i lavori nel cantiere non sono «mai stati sospesi a causa delle azioni violente». Insomma, aleggia tra le pagine dell’inchiesta un’idea mortificante della conflittualità e della partecipazione politica, che si accompagna a una visione scarsamente consapevole della storia italiana. 4. Sarebbe bene che quel poco di sinistra che ancora esiste a Torino e nel paese iniziasse a interrogarsi e a preoccuparsi di queste derive giudiziarie, perché non si tratta solo di Askatasuna o della repressione per via giudiziaria delle attività di un centro sociale. Le affermazioni sopra riportate rendono plasticamente conto – meglio di tante dissertazioni scientifiche e di tanti slogan sul passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale – dei rischi di una deriva autoritaria non solo della giustizia ma, visto il ruolo preponderante nell’inchiesta dell’autorità amministrativa, incarnata nella Polizia di Stato, delle istituzioni, con il tentativo di delegittimare ed eliminare dallo scenario collettivo il conflitto e la protesta sociale (https://volerelaluna.it/controcanto/2021/04/07/la-democrazia-autoritaria-che-e-dietro-langolo/). È di questo che si tratta e allora, tanto per esser chiari, come dice una vecchia canzone, «même si vous vous en foutez, chacun de vous est concerné». _______________________ Nota: CLAUDIO NOVARO è avvocato a Torino ed è impegnato in numerosi processi in tema di movimenti e lotte sociali da: volerelaluna.it, 13 luglio 2022

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DEDICATO AD ASKATASUNA E AL MOVIMENTO NO TAV

lunedì 18 Luglio 2022

di Enzo Ferrara


Askatasuna è un nome bellissimo: significa in lingua basca “libertà”, ma il suo etimo scappa via ancora più lontano: ha la stessa radice di “scaturire”, che letteralmente è “sfuggire dalle mani”, “rinascere a nuova vita” dopo una prigionia o – per restare sulla stessa etimologia – dopo una “cattività”. Dedicato ad Askatasuna e al movimento No Tav. Esattamente quest’ultimo termine, ci rimanda a un lucido testo di Claudio Novaro, Costruire il nemico: Askatasuna, i No Tav, il conflitto sociale, apparso su Volere la Luna la scorsa settimana. Forse senza rendersene conto, parlando di “cattivo presente” nel suo incipit, Novaro ha offerto una riflessione anche etimologica sulla vicenda che vede nuovamente in questi giorni il centro sociale Askatasuna soggetto di un procedimento aperto dalla Procura di Torino che questa volta ipotizza il reato di “associazione per delinquere” non da parte del centro sociale ma, al suo interno, di “un gruppo criminale dedito a compiere una serie indeterminata di delitti principalmente in Val di Susa”. Non torniamo qui sulla consistenza delle accuse della Procura, che già ottimamente Novaro ha analizzato considerandole decisamente inconsistenti e spostando piuttosto l’attenzione sulle derive giudiziarie e democratiche che potrebbero sottendere alla loro origine. Come Centro Studi dedicato a Domenico Sereno Regis è nostro dovere ricordare che in democrazia vige il “primato della partecipazione” (garantito dall’articolo 3 della nostra Costituzione), che non corrisponde alla semplice cattura di consenso da parte dei partiti e che va inteso: […] non come un tranquillante per creare meno grane agli amministratori, e ancora meno come mezzo di gestione del consenso popolare o come forma di compromesso cogestionale, bensì sarà quel modo nuovo di fare politica, in cui il cittadino, acquisita una sua maturità politica, rifiutata la delega in bianco e a tempi lunghi, tenderà a rivitalizzare gli attuali strumenti di democrazia, superando i momenti deteriori del parlamentarismo e della partitocrazia, esigendo una gestione sempre più diretta, cosciente, comunitaria dei problemi della società in cui opera […] (Domenico Sereno Regis, Relazione Conferenza Nazionale sul Decentramento, in Chiara Bassis, Domenico Sereno Regis, Beppe Grande Edizioni, p. 201). Per la nostra modestissima esperienza di lotta a tutela dei diritti umani e dell’ambiente, contro leggi discriminatorie e fratricide che impediscono perfino il soccorso ai bisognosi (mentre un tempo era reato il comportamento opposto: “l’omissione di soccorso”, come sottolinea giustamente l’attivista Emilio Scalzo) contro grandi opere sovradimensionate e inutili, contro lo spreco di risorse per la produzione di tecnologie militari insostenibili, possiamo affermare che i principi democratici sono messi in pericolo non da spazi occupati come Askatasuna, lo Spazio popolare Neruda, o i presidi che in Val di Susa favoriscono – e non ostacolano – la partecipazione popolare ma da “tutte quelle forme di concentrazione del potere – la citazione qui è di Primo Levi – che negano al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, e in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti” (Primo Levi, Un passato che credevamo non dovesse tornare più, Corriere della sera, 8 maggio 1974). Siamo pertanto preoccupati, anche perché quest’ultima iniziativa giudiziaria si inserisce in un solco lungo e duraturo che, per esempio, nel caso del movimento NoTav, ci riporta a censure e procedimenti giudiziari contro giornalisti, scrittori, perfino nei confronti della tesi universitaria di una studentessa di sociologia che aveva usato il “noi” per raccontare un’esperienza interna al movimento valsusino. Più recente, dello scorso fine maggio, è la notizia secondo cui la stessa procura di Torino ha introdotto restrizioni al diritto di cronaca: in tema di arresti, prima di darne notizia, occorre ora chiedere il permesso. Dello scorso anno (Decreto Legge 121/2021, comma 9-ter, articolo 3) sono invece i provvedimenti che, dopo il cantiere della Maddalena di Chiomonte, hanno ridotto al rango di “Siti Strategico di Interesse Nazionale” – soggetti pertanto all’autorità militare e inaccessibili perfino a giornalisti e parlamentari – i comuni di Bruzolo, Bussoleno, Giaglione, Salbertrand, San Didero, Susa e Torrazza Piemonte, dove dovrebbero sorgere i cantieri della nuova linea TAV Torino – Lione. Questo è il “cattivo presente” a cui rimanda l’articolo di Novaro: una realtà “catturata”, imprigionata da un immaginario di crescita economicamente e ecologicamente insostenibile, che per affermarsi non può che ricorrere a forme di violenza strutturale e culturale anacronistiche, e che non potrà generare altro che nuove contrarietà e nuove ribellioni. Per una vera transizione, per il cambiamento di cui abbiamo disperatamente bisogno, occorre non reprimere ma liberare, occorre che “scaturiscano” energie più giovani e impegnate nella trasformazione del presente in direzione maggiormente creativa, ecologista e solidaristica. Dobbiamo rinunciare a ogni illusione di continuità con le “magnifiche sorti e progressive” del recente passato, il cui orizzonte è breve, ormai legato solo più a occasioni di opportunismo politico e economico, destinato inesorabilmente a tramontare.


da serenoregis.org, 18 luglio 2022








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