L’8 novembre 1926 Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, nonostante l’immunità parlamentare di cui godeva in quanto eletto deputato nelle elezioni del 6 aprile 1924
# LE MALETESTE #
8 nov 2021
L’8 novembre 1926 Antonio Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, nonostante l’immunità parlamentare di cui godeva in quanto eletto deputato nelle elezioni del 6 aprile 1924.
L’accusa è di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe; il 4 giugno 1928 verrà condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione.
Trascorse alcuni anni al confino a Ustica, poi il 7 febbraio 1927 fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore.
Il 28 maggio 1928 di fronte al “Tribunale Speciale Fascista”, istituito l’anno prima, inizia il processo a 22 imputati comunisti, fra cui anche Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda.
In una lettera dal carcere, datata 19.12.1926, Gramsci racconterà le fasi dell’arresto, i trasferimenti da un carcere all’altro, le condizioni di vita e il regime carcerario del periodo fascista.
Ecco il testo della lettera:
Ustica, 19 dicembre 1926
Carissima Tania,
ti ho scritto una cartolina il 18 per avvertirti che avevo ricevuto la tua assicurata del 14: antecedentemente avevo scritto una lunga lettera per te all’indirizzo della signora Passarge, che avrebbe dovuto esserti consegnata l’11 o il 12. Riepilogo gli avvenimenti principali di tutto questo tempo. Arrestato l’8 sera alle 10½ e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo più brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Ho potuto avere la camera a pagamento solo ne gli ultimi giorni. I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza luminosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però molto sudicio; le lenzuola erano già adoperate; formicolavano gli insetti più diversi; non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la «Gazzetta dello Sport», perché non ancora prenotata: ho mangiato la minestra del carcere che era abbastanza buona. Sono quindi passato a una nuova cella, più oscura di giorno e senza illuminazione la notte, ma che è stata disinfettata con la fiamma di benzina e il cui letto aveva biancheria di bucato. Ho incominciato a comprare qualcosa dal bettolino del carcere: le steariche per la notte, il latte per il mattino, una minestra con brodo di carne e un pezzo di lesso, formaggio, vino, mele, sigarette, giornali e riviste illustrate. Sono passato dalla cella comune alla camera a pagamento senza preavviso, cosa per cui rimasi un giorno senza mangiare, dato che il carcere passa il vitto solo agli abitatori delle celle comuni, mentre quelli delle camere a pagamento devono «vittarsi» (termine carcerari o) del proprio. La camera a pagamento consistette per me nel fatto che aggiunsero un materasso di lana e un cuscino idem al saccone di crine, e che la cella fu arredata di un lavabo con catinella e boccale e di una sedia. Avrei dovuto avere anche un tavolino, un reggipanni e un armadietto ma l’amministrazione mancava di «casermaggio» (altro termine carcerario): ebbi anche la luce elettrica ma senza interruttore, sicché tutta la notte mi rigiravo per proteggere gli occhi dalla luce. La vita trascorreva così: alle 7 del matti no sveglia e pulizia della camera; verso le 9 il latte, che poi divenne caffè e latte quando incominciai a ricevere il vitto dalla trattoria. Il caffè giungeva di solito ancora tiepido, il latte invece era sempre freddo, ma io facevo allora una abbondantissima zuppa. Dalle nove a mezzogiorno capitava l’ora del passeggio: un’ora o dalle nove alle dieci, o dalle dieci alle undici, o dalle undici alle dodici; ci facevano uscire isolati, con la proibizione di parlare e di salutare chiunque, e si andava in un cortile diviso a raggi con muri divisori altissimi e con una cancellata sul resto del cortile. Eravamo sorvegliati da una guardia issata su un terrazzino dominante la raggera e da una seconda guardia che passeggiava dinanzi ai cancelli; il cortile era incassato tra muri altissimi e da una parte era dominato dalla bassa ciminiera di una piccola officina interna; talvolta l’aria era fumo, un volta dovemmo rimanere circa mezz’ora sotto uno scroscio di pioggia. A mezzogiorno circa arrivava il pranzo; la minestra era spesso tiepida ancora, il resto era sempre freddo. Alle 3 c’era la visita alla cella col collaudo delle sbarre dell’inferriata; la visita si ripeteva alle dieci di sera e alle tre del mattino. Io dormivo un po’ tra queste due ultime visite: una volta svegliato dalla visita delle tre non riuscivo ad addormentarmi; era però obbligatorio stare a letto dalle 7 e mezza di sera fino all’alba. Lo svago era dato dalle voci diverse e dai brani di conversazione che talvolta si riusciva a cogliere dalle celle vicine o prospicienti. Io non incorsi mai in nessuna punizione: Maffi invece ebbe tre giorni di pane e acqua in una cella di punizione. In verità non sentii mai nessun malessere: quantunque non abbia mai consumato tutto il pasto, tuttavia mangiai sempre con appetito superiore a quello della trattoria. Avevo solo un cucchiaio di legno; né forchetta, né bicchiere. Un boccale e un boccaletto di terraglia per l’acqua e per il vino; una grossa scodella di terraglia per la minestra e un’altra per catino, prima della concessione della camera a pagamento. Il 19 novembre mi fu comunicata l’ordinanza che mi infliggeva 5 anni di confino in colonia, senza altra spiegazione. I giorni successivi mi giunse la voce che sarei partito per la Somalia. Seppi che avrei scontato il confino in un’isola italiana solo la sera del 24, indirettamente: la destinazione esatta mi fu comunicata ufficialmente solo a Palermo; potevo andare a Ustica ma anche a Favignana, a Pantelleria o a Lampedusa; erano escluse le Tremiti perché altrimenti avrei viaggiato da Caserta a Foggia. Da Roma partii al mattino del 25 col primo accelerato per Napoli, dove giunsi alle 13 circa; viaggiai in compagnia di Molinelli, Ferrari, Volpi e Picelli, che erano stati anch’essi arrestati l’8. Ferrari però da Caserta fu distaccato per le Tremiti: dico distaccato perché anche nel vagone eravamo legati insieme a una lunga catena. Da Roma in poi rimasi sempre in compagnia, ciò che produsse un notevole cambiamento nello stato d’animo: si poteva chiacchierare e ridere, nonostante che si fosse legati alla catena e con ambedue i polsi stretti dalle manette e che in tale grazioso abbigliamento si dovesse mangiare e fumare. Eppure si riusciva ad accendere i fiammiferi, a mangiare, a bere; i polsi si gonfiarono un po’, ma si ebbe la sensazione del quanto la macchina umana sia perfetta e possa adattarsi a ogni circostanza più innaturale. Nel limite delle disposizioni regolamentari, i carabinieri di scorta ci trattarono con grande correttezza e cortesia. Siamo rimasti a Napoli due notti, nel carcere del Carmine, sempre insieme e siamo ripartiti per via mare la sera del 27 con mare calmissimo. A Palermo abbiamo avuto un cameroncino molto pulito e arieggiato, con bellissimo panorama del monte Pellegrino; trovammo altri amici destinati alle isole, il deputato massimalista Conca di Verona e l’avvocato Angeloni, repubblicano di Perugia.
Sopraggiunsero in seguito altri, tra i quali Maffi che era destinato a Pantelleria e Bordiga destinato a Ustica. Sarei dovuto partire da Palermo il 2, invece riuscii a partire solo il 7; tre tentativi di traversata fallirono per il ma re tempestoso. È stato questo il pezzo più brutto del viaggio di traduzione. Pensa: sveglia alle quattro del mattino, formalità per la consegna dei denari e delle cose diverse depositate, manette e catena, vettura cellulare fino al porto, discesa in barca per raggiungere il vaporetto, ascesa della scaletta per salire a bordo, salita di una scaletta per salire sul ponte, discesa di altra scaletta per andare ne l reparto di terza classe; tutto ciò avendo i polsi legati ed essendo legato a una catena con altri tre. Alle sette il vaporetto parte, viaggia per un’ora e mezza ballando e dimenandosi come un delfino, poi si ritorna indietro perché il capitano riconosce impossibile la traversata ulteriore. Si rifà all’inverso la serie delle scalette, ecc., si ritorna in carcere, si viene nuovamente perquisiti e si ritorna in cella; intanto è già mezzogiorno, non si è fatto a tempo a comandare il pranzo; fino alle 5 non si mangia, e al mattino non si era mangiato. Tutto ciò quattro volte con l’intervallo di un giorno. A Ustica erano già arrivati 4 amici: il Conca, l’ex deputato di Perugia Sbaraglini, e due di Aquila. Per qualche notte abbiamo dormito in un camerone: adesso siamo già accomodati in una casa a nostra disposizione, in sei, io, Bordiga, il Conca, lo Sbaraglini e i due di Aquila. La casa è composta di una stanza a pianterreno dove dormono due: a pianterreno c’è anche la cucina, il cesso, e un bugigattolo che abbiamo adibito a sala comune di toilette. […]
Carissima Tatiana, ti abbraccio affettuosamente.
Antonio