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AFGHANISTAN. Nuova stretta sulle donne, un’altra. Ma le grandi Ong dicono basta

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Save the Children e altre sigle questa volta reagiscono: «Chiudiamo le sedi, stop agli aiuti». Fare pressioni o assistere in ogni caso? Il dilemma morale del solo welfare del paese.

di GIULIANO BATTISTON

# LE MALETESTE #

27 dic 2022

Giuliano Battiston


Divieto per le donne di lavorare nelle organizzazioni non governative afghane e internazionali.


Con una circolare firmata dal ministro a interim dell’Economia Din Mohammad Hanif, il 24 dicembre l’Emirato dei Talebani ha adottato un’altra politica che rafforza l’apartheid di genere.

Fa parte di una torsione autarchica già in corso e arriva a soli 4 giorni dalla sospensione per le studentesse dell’accesso alle università.


L’ANNUNCIO del ministro non riguarda, per ora, le lavoratrici delle Agenzie delle Nazioni Unite.

Riguarda però tutte le Ong attive nel Paese, che costituiscono una sorta di ossatura fondamentale, alternativa alla macchina statuale dei servizi di base, già deficitaria ai tempi della Repubblica e, con la restaurazione dell’Emirato nell’estate 2021 e le sanzioni relative, ancora più debole.


Da loro dipende il funzionamento dell’ecosistema umanitario, da cui a sua volta dipende buona parte della popolazione: 28 milioni di afghani – circa due terzi della popolazione – hanno bisogno di qualche forma di assistenza. Circa 20 milioni soffrono di insicurezza alimentare, di cui 6 milioni vicini alla carestia.


Le condanne sono unanimi: secondo l’Onu si tratta di “una decisione agghiacciante con un impatto senza precedenti”. Parole simili arrivano da tutte le cancellerie e dal segretario generale dell’Organizzazione della cooperazione islamica, Hissein Brahim Taha. Tra le Ong principali attive nel Paese, alcune hanno già deciso, altre prendono tempo.


IL 25 DICEMBRE con un comunicato congiunto Inger Ashing, Jan Egeland e Sofia Sprechmann Sinerio, per conto rispettivamente di Save the Children, del Norwegian Refugee Council e di Care International, hanno dichiarato di non “poter raggiungere efficacemente bambini, donne e uomini in disperato bisogno senza il nostro staff femminile”.


Da qui, la sospensione delle attività, come deciso anche da Islamic Relief, Christian Aid, World Vision e dall’International Rescue Committee (quest’ultimo impiega 3.000 donne su 8.000 membri dello staff).


Medici senza frontiere ha ricordato che opera nel Paese da più di 40 anni e “senza le donne non sarebbe stato possibile”. Intersos chiede alle autorità di rivedere la decisione, mentre Emergency – Ong italiana con una storica presenza nel Paese – non ha ancora reso pubblica la propria posizione.


Il “che fare?” della diplomazia e delle Ong internazionali equivale a un vero dilemma etico e politico. Sospendere le attività umanitarie, durante l’inverno e dentro una crisi senza precedenti, sperando che le autorità di fatto cambino le proprie politiche?


E con quali garanzie che la sospensione sia uno strumento di pressione efficace o che porti a un cedimento dell’Emirato? Oppure al contrario mantenere in piedi tutte le attività, per evitare che a pagare le scelte del gruppo dirigente afghano siano la popolazione?


OLTRE A RISCHIARE la paralisi del sistema umanitario e ad alienarsi ulteriormente la popolazione, con l’ultima decisione i Talebani perdono il consenso di quei sostenitori non “allineati” ideologicamente ma che avevano deciso di dar credito alle loro rivendicazioni di ritrovata stabilità e sicurezza.


Vengono ridotti anche i margini di manovra di quanti in questo anno e mezzo hanno provato a spiegare che le sanzioni contro i Talebani colpiscono innanzitutto la popolazione, non la leadership dell’Emirato.


Molti gli incontri di queste ore, per far “ragionare” i Talebani. Difficile che ne esca qualcosa di buono. Si fatica perfino a capire quali siano gli interlocutori giusti. La macchina del potere è opaca.


Ignoti i meccanismi di decisione attraverso i quali vengono assunte le decisioni più importanti. Molte delle quali sembrano rimandare alla guida suprema, l’Amir al-muminin, la guida dei fedeli Haibatullah Akhundzada. Anche nel suo caso, non si capisce quanto detti la linea o quanto sia condizionato dall’entourage di clerici ultraortodossi che gli ruotano intorno.


CERTO È che le ultime decisioni segnano una spaccatura evidente tra i pragmatici, che hanno faticato a mantenere aperti i canali di comunicazione con gli stranieri, e gli ortodossi, i fautori della linea autarchica dell’Emirato resa esplicita a inizio luglio da Akhundzada nel corso della Joya Jirga di Kabul e ribadita ieri dal ministro dell’Istruzione superiore, Neda Mohammad Nadim, che non a caso ha usato le stesse parole del leader: “Anche se buttassero una bomba atomica sul Paese, non rivedremo le nostre decisioni”.



GIULIANO BATTISTON

da: ilmanifesto.it - 27 dic. 2022

 

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