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Maria Edgarda "Eddi" Marcucci - Rabbia proteggimi (il libro)

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«A quanto pare, basta guardare come mi muovo per capire che sono pericolosa». Tra personale e politico, una storia militante, dalla lotta contro Daesh all’assurda misura di sorveglianza speciale che subisce in Italia

# LE MALETESTE #

11 mar 2022

Marcucci ha scelto di raccontare la sua storia – tanto la scelta di prendere parte a un esperimento di rivoluzione sociale che ha incontrato la necessità di autodifendersi dall’Isis, quanto l’incredibile (inspiegabile dice giustamente nel sottotitolo del libro) vicenda giudiziaria che l’ha coinvolta – nel volume "Rabbia proteggimi", uscito il 1° marzo 2022, per i tipi di Rizzoli Lizard.

 

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Il 17 marzo 2020, a MARIA EDGARDA "EDDI" MARCUCCI è stata applicata – per due anni, a meno di rinnovi – la misura di sorveglianza speciale, su richiesta del Tribunale di Torino.  «Sorvegliata speciale», «socialmente pericolosa» (per quanto incensurata), perché “colpevole” di essersi unita, nel 2017, alla resistenza curda contro l’avanzata dello Stato Islamico nella Siria del nord, combattendo in particolare nelle fila dell’Ypj, l’Unità di protezione delle donne in Rojava.

 

 Dal 17 marzo 2020, dunque, Eddi Marcucci deve notificare in commissariato i propri spostamenti fuori del comune di residenza, non può trovarsi fuori casa fra le 21 di sera e le 7 di mattina, né frequentare locali pubblici dopo le 18 o partecipare a pubbliche riunioni. Non può guidare né andare all’estero, né frequentare persone condannate. Deve portare con sé un “libretto rosso”, sul quale la polizia annota i suoi movimenti.

 

Le viene chiesto, con un’espressione quantomeno vintage, di «vivere onestamente».

 

 

Potrebbe sembrare una beffa: lo Stato islamico contro il quale Eddi ha scelto di combattere è un nemico anche dello Stato italiano, che invece ha scelto di punirla limitando la sua libertà. Il discorso, tuttavia, è ben più complesso. La sorveglianza speciale che le è stata assegnata – una misura preventiva e non penale (perché non segue alcuna condanna) elaborata nei primi anni dello stato unitario liberale e poi sviluppata durante il regime fascista – rappresenta, infatti, una forma di criminalizzazione del dissenso. 

 

In una sorta di ritorno a un’applicazione della giustizia pre-illuminista, infatti, Eddi non è stata sanzionata per qualcosa che ha fatto, ma per quello che è, cioè una militante politica attiva – come gli altri quattro per i quali era stata richiesta la stessa misura – nei principali conflitti sociali in atto in Italia, dalla lotta No Tav a Non Una Di Meno, dagli appuntamenti antifascisti all’organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori contro uno sfruttamento sempre più smaccato, ad esempio nel settore della ristorazione. Del resto, se fosse davvero un problema che lei sappia usare le armi, lo sarebbe anche per tutti i milioni di uomini che, in Italia, fino alla sua sospensione nel 2005 hanno fatto il servizio militare obbligatorio. 

 

 

L’indice del libro di Eddi segue esattamente questa alternanza: una vita scandita, negli ultimi anni, dal ritmo delle udienze e dagli effetti dei processi. Scandita, certo, ma non piegata perché, come Eddi scrive, nel corso di questi due anni ormai quasi giunti al termine, ho sempre fatto le «dovute» comunicazioni di spostamento e sono rincasata alle 21.00.   

 

 

 

Le parole di Eddi « Credo di aver vissuto onestamente, ma non ho rispettato le nuove leggi imposte alla mia vita, perché ho partecipato a un sacco di «pubbliche riunioni». Ho continuato a svolgere attività di divulgazione sul Kurdistan e l’Aanes, sul movimento rivoluzionario, non mi sono privata di alcuna occasione di confronto e dibattito. Sono andata in piazza il giorno dello sciopero dell’8 marzo, il 25 aprile, in occasione delle marce No Tav, in solidarietà alle donne e alle persone che resistono in Afghanistan. Sono andata a commemorare il genocidio di Shingal con la comunità curda, alle presentazioni del libro di Orso, a tifare ai match della Palestra popolare di Quarticciolo… insomma, credo che il concetto sia chiaro. Certo non ho davvero potuto fare tutto quel che avrei voluto. Ogni volta che ho deciso di prendere parte a un evento pubblico mi sono dovuta chiedere: e se questa mia rottura del decreto avesse delle conseguenze? Per esempio, un processo con condanne da tre a dodici mesi? Penserò che ne sarà valsa la pena? Se ci sono andata, è perché mi sono risposta di sì. Sì, perché questa è una lotta che ritengo importante, quindi vado in piazza, ma anche solo sì, perché questa cosa mi dà nutrimento, potrebbe farmi crescere. (p. 243)

 

La mia non è stata una resistenza epica, non ho dovuto affrontare nessuna incredibile battaglia: ho solo continuato a riempire il mio tempo con tutto quello che ritengo importante, cose senza le quali non vedo un futuro possibile per questo mondo: berxwedan jiyane, la resistenza è vita.

 

Perché, anche se in tanti fanno di tutto per ignorarlo, è in corso un enorme sforzo collettivo, un conflitto aperto, che attraversa tutto il mondo. In Siria si lotta contro Daesh non solo per una questione territoriale, ma per proteggere l’umanità intera. (p. 244)

 

«… e poi l’avete vista Marcucci, col suo passo marziale, quell’andatura aggressiva…». Questa frase (della PM Emanuela Pedrotta, durante uno dei processi intentati contro Eddi) mi rimarrà impressa. Il tono con cui l’ha pronunciata, la sua postura, la scelta delle parole… No, quella frase non la dimentico e non me la voglio dimenticare mai, perché per me è il momento in cui la procura mi ha accusato di aver infranto una norma che va al di là del codice penale. Quella che alcune vite infrangono anche solo respirando, con la loro semplice esistenza; la norma dei generi, la regola del sesso, la garanzia che ci sarà sempre chi sta sotto e chi sopra: la legge patriarcale.

 

La cosa che mi ha impressionata in questa frase non è lo psicologismo di bassa lega, che ha scandito un po’ tutto il processo, ma il fatto che è l’unico momento in cui è stato menzionato il corpo di una persona, il mio corpo. […] L’unico corpo che è entrato in quel processo è il mio.

 

 

L’unica persona che è stata proposta come sorvegliata speciale non solo per quello che pensa, ma anche per come cammina, sono io. A quanto pare, basta guardare come mi muovo per capire che sono pericolosa: dove vuoi che vada con quella camminata aggressiva se non a mettere in pericolo la società? Perché va bene la guerra contro l’Isis e tutto quello che volete, passino l’anticapitalismo e le idee di rivoluzione… ma una donna che si muove così proprio no, di grazia. È socialmente pericolosa, suvvia, si vede.

 

Sentendo quella frase mi è sembrato di vedere in filigrana il dettame patriarcale che si applica ogni giorno anche in aule come questa, da molto prima che io e tutti gli altri presenti in questo enorme palazzo nascessimo. Impara chi sei, donna, e insieme al tuo nome impara la paura. E se smetti di averne, te la faremo tornare finché saprai comportarti. Finché la lezione non ti entra bene in testa, al massimo te la apriamo a martellate (pp. 230-231). »  

 

 

Tutto, nel libro, ruota intorno a questo scambio e questo rimbalzo continuo tra personale e politico, tra l’«autocronaca giudiziaria» che Eddi esplicitamente rifiuta e la descrizione di una rivoluzione sociale che si erge a difesa dell’umanità tutta. Perché se è vero che il personale è politico, non è meno vero che il politico è personale. Non so quanto consciamente, Eddi espone – con una capacità stilistica che coinvolge e commuove – una serie di limiti, di difficoltà, di paure che sono i suoi ma che sono quelli di tutte e tutti: vedere la propria finitezza e cercare di superarla è un atto politico. Come quando non riesce a scrivere il discorso per il funerale, a Rifredi, di Lorenzo Orsetti e non riesce neanche a confessare agli altri compagni la sua difficoltà:  

 

 

« Ho mancato alla parola data ai miei compagni, non sono riuscita ad assolvere alla mia responsabilità né sono riuscita a chiedere aiuto per farlo. Quest’ultima forse è la cosa di cui mi vergogno di più. Mi odio anche per non essere riuscita a comporre delle frasi di senso compiuto, ma il fatto di non essere riuscita a chiedere una mano mi fa proprio schifo. Ho creato un problema enorme e nel farlo ho anche tradito tutto quello in cui credo.

 

A chiunque capita di inciampare e a tutti fa paura anche solo l’idea che capiti, io non faccio eccezione, anzi. Proprio per questo credo che non esista libertà senza comunità. Perché in una società in cui le persone si prendono cura le une delle altre questa cosa fa meno paura, o almeno si affronta insieme e si vive meglio. «Se cado io, ci sei tu»

 

Quella che si può percorrere insieme, in più persone possibili, è l’unica strada che vedo davanti a me, per imparare a essere più libera. Perché non voglio pensare tutto il tempo a non cadere, voglio vivere, fare pace con la mia fallibilità. Si cade, capita. Ma questo può avvenire solo creando dei rapporti di fiducia, in cui ci si appoggia reciprocamente senza sentirsi il peso del mondo addosso (pp. 174-175).

 

Non so come continuerà questa storia. So solo che se il 17 marzo 2022 la mia condizione di “sorvegliata speciale” finirà, il 18 pomeriggio sarò a Roma, al doposcuola a Quarticciolo, a raccontare la storia di Shehîd Tekosher Piling, ORSO, partigiano rivoluzionario di Rifredi, caduto in battaglia a Baghouz.

 

E se invece non finisse? Penso che sarò comunque a Quarticciolo a parlare di Orso. Non farlo sarebbe l’ennesima rinuncia dovuta a un’imposizione assurda, sarebbe inaccettabile. Questa parola, inaccettabile, la uso con la dovuta cautela, perché per me comporta una responsabilità: non basta dirlo, bisogna comportarsi di conseguenza. Ed è quello che ho intenzione di continuare a fare (p. 249).

 

Finché sappiamo trovare, nelle nostre vite e nel mondo intorno a noi, qualcosa di “inaccettabile” al quale opporci, gli alberi fioriranno: siano questi fiori la resistenza contro Daesh o il doposcuola di un quartiere popolare alla periferia di Roma. »  

 

 

Anche in questo caso, è la fiducia dei compagni a tirarla fuori dall’impasse: siamo forti e riusciamo quando facciamo parte di una comunità in cui tutti e tutte si sostengono a vicenda.

 

Ma fare parte di una comunità – e in particolare di una comunità rivoluzionaria che si autodifende contro Daesh – significa anche fare i conti con la morte: con il rischio della propria e, soprattutto, con quella dei propri compagni.

 

Se la «prima vita» di Eddi si è già conclusa nel 2010, quando è morta Giulia Gomez – colei che è stata niente meno di una sorella (anche se non biologica) e che, nelle parti del volume illustrate dai disegni di Sara Pavan, rappresenta la referente del dialogo attraverso il quale Eddi cerca di riordinare i suoi pensieri – il rapporto con il lutto e su come affrontarlo emergono in più parti.

 

Non è un caso che il volume si apra con l’immagine di Hêlîn, la combattente inglese Anna Campbell, rimasta uccisa nel marzo 2018 ad Afrin.

 

Hêlîn ed Eddi erano amiche, così amiche che, quando pur essendo nello stesso battaglione le mettono in due team diversi, non chiedono di stare insieme perché «così ci sono più probabilità che almeno una delle due sopravviva» (p. 7). Undici parole che dicono della guerra più di quanto possano fare mille articoli di giornali.  ILENIA ROSSINI, da "dinamopress.it", 1 marzo 2022

 

 

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Dalla nota allegata al libro di EDDI MARCUCCI Marcucci narra la sua esperienza di internazionalista in sostegno della causa curda e della rivoluzione confederale. Un viaggio in cui non ha conosciuto solo l’orrore della guerra, ma il coraggio e l’umanità del progetto politico nato in quelle terre martoriate.

 

Chi la conosce la chiama Eddi, sua nonna la chiamava Mem, le persone con cui ha combattuto la chiamavano Heval Shilan. Maria Edgarda Marcucci ha tanti nomi, ma una convinzione: vale sempre la pena lottare per migliorare il mondo in cui viviamo. Quando è partita per il Kurdistan scegliendo di unirsi alle Ypj, le Unità di protezione delle donne, non l’ha certo fatto per un tornaconto personale. Non l’ha fatto con il desiderio di essere accolta, al suo ritorno a casa, come un’eroina. Ma non si aspettava nemmeno che, arrivati in Italia, lei e altri suoi quattro compagni sarebbero stati considerati individui «socialmente pericolosi»: un’accusa che a lei, unica donna dei cinque e unica condannata, è costata oltre un anno di udienze e altri due vissuti in regime di sorveglianza speciale.

 

In "Rabbia proteggimi" Marcucci racconta le radici del suo impegno politico, dal movimento studentesco alla difesa dei diritti di chi lavora, dai No Tav al transfemminismo, e ripercorre gli incontri e le ferite che l’hanno resa quella che è: la combattente internazionalista Helin, l’amica Giulia, la nonna Gabriella, voci alla base della sua coscienza.

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