
IQBAL MASIH (1983 - 1995)
Il bambino-attivista pakistano che sfidò gli schiavisti. In breve tempo diventa il simbolo e il portavoce del dramma dei bambini sfruttati nelle fabbriche da padroni senza scrupoli. Per questo, verrà ucciso all'età di appena 12 anni dalla mafia dei tappeti.
# LE MALETESTE #
16 apr 2022
“Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro.
Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano
sono penne e matite. Da grande voglio fare l’avvocato e lottare
perché i bambini non lavorino affatto”.
(Iqbal Masih)
Ma grande Iqbal non diventerà mai.
La sua giovanissima vita fu spezzata il 16 aprile 1995, quando aveva appena dodici anni, da una raffica di proiettili sparati da breve distanza. Non c’è neanche bisogno di attendere il successivo processo, che vedrà imputato l’esecutore materiale dell’omicidio, per comprendere che si tratta di una ritorsione della “mafia dei tappeti”, minacciata nei propri affari dal clamore internazionale suscitato dall’attivismo di un bambino. Uccidendolo, i fabbricanti di tappeti e i latifondisti del Pakistan eliminano il testimone più scomodo e più sincero dei loro traffici criminali e del brutale sistema di sfruttamento minorile che sostiene l’economia del paese.
Iqbal Masih, piccolo schiavo-bambino, era tornato in libertà soltanto da due anni ed era diventato un simbolo e una speranza di riscatto per tutti i bambini costretti a lavorare come schiavi in Pakistan e nel resto del mondo.
“La prima volta che lo vidi sembrava volesse schiacciarsi tra le pareti di un angolo buio sino ad annullarsi alla nostra vista”
ha raccontato Eshan Khan, il sindacalista che era diventato il suo padre adottivo...
“Quel giorno noi del sindacato avevamo radunato sotto una tettoia tutti i piccoli che erano costretti a lavorare in schiavitù nella provincia di Lahore. Volevamo raccontare loro che c’era un mondo diverso ad attenderli, che non dovevano accettare ogni sopruso come fosse la legge della natura o della società”.
Iqbal aveva il respiro asmatico come quello di un vecchio, era indebolito dai dolori articolari per le lunghe giornate che aveva trascorso davanti a un telaio da quando aveva quattro anni, intrecciando fili di seta con le sue sottili dita di bimbo.
Da quel momento in poi cominciò una vita nuova, bellissima e impossibile fino a poco tempo prima. Una vita fatta di libertà, della possibilità di crescere finalmente come tutti i bambini avrebbero il diritto di fare, cioè studiando e giocando, circondati dall’affetto e dalla considerazione degli adulti.
Ma Iqbal ebbe anche modo di credere in un ideale di libertà per tutti gli altri piccoli schiavi dimenticati, e di diventare per loro un punto di riferimento e la speranza in un futuro diverso.
Era nato nel 1983 a Muridke, una città della provincia pachistana del Punjab, non lontana da Lahore. La sua famiglia era poverissima e si era indebitata per pagare il matrimonio del primogenito. All’età di quattro anni era stato inizialmente costretto a lavorare in una fabbrica di mattoni e poi, l’anno dopo, era stato venduto per seicento rupie (il corrispettivo di circa sei dollari americani) a un fabbricante di tappeti, che lo aveva ridotto in schiavitù.
Si alzava all’alba e percorreva a piedi chilometri di strada nel buio per raggiungere la fabbrica. Al suo arrivo, insieme a tanti altri piccoli schiavi, veniva incatenato a un telaio per impedirgli di fuggire.
Per anni fu costretto a lavorare per quattordici ore al giorno, tutti i giorni, intrecciando i nodi dei tappeti a mani nude. Un inferno nel quale veniva redarguito e picchiato di continuo per un salario pari a tre centesimi di euro al giorno. La sua libertà valeva tredicimila rupie, poco più di 80 euro.
Quando scopre che la Corte Suprema del Pakistan ha dichiarato illegale il lavoro forzato, Iqbal scappa e va alla polizia ma sono gli stessi agenti a riconsegnarlo ai suoi aguzzini che lo picchiano e lo gettano in una cisterna sotterranea priva di aerazione. È il luogo delle punizioni per i bambini che si ribellano ai loro padroni.
Un giorno, nella primavera del 1992, riesce a uscire di nascosto dalla fabbrica insieme ad altri bambini e a partecipare ad una manifestazione del Fronte di liberazione dal lavoro schiavizzato.
Spontaneamente, di fronte al pubblico, Iqbal trova il coraggio di denunciare la condizione di sofferenza nella quale versano i piccoli schiavi nella fabbrica in cui lavora. Il suo discorso improvvisato, dai toni accorati, scuote le coscienze e attira l’attenzione della stampa locale.
Durante quella stessa manifestazione Iqbal conosce Eshan Khan, il leader del Fronte di liberazione, il sindacalista che rivestirà un ruolo chiave nella breve parentesi di libertà della sua vita. Con il suo aiuto torna libero e inizia a studiare, come ha sempre sognato. Lentamente si riappropria di quell’infanzia che fino ad allora gli era stata negata.
In breve tempo diventa il simbolo e il portavoce del dramma dei bambini sfruttati nelle fabbriche da padroni senza scrupoli. Comincia a raccontare la sua storia alle televisioni, apparendo sui teleschermi di tutto il mondo, e inizia a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle gravissime violazioni in atto nel suo paese. A partire dal 1993 comincia anche a viaggiare e a partecipare a conferenze internazionali prima nei paesi asiatici, poi in Europa e negli Stati Uniti, dove contribuisce attivamente al dibattito sulla necessità di tutelare i diritti dell’infanzia.
Nel 1994 si reca in Svezia dove partecipa a una campagna di boicottaggio dei tappeti pakistani che ha lo scopo di mettere pressione sulle autorità di Islamabad. Si fa riprendere dalle televisioni mentre entra in un grande magazzino di Stoccolma insieme a Eshan Khan e va nel reparto dove sono esposti decine di tappeti importati dal Pakistan, dall’India, dal Bangladesh e da altri paesi del sud del mondo. La telecamera lo ritrae in abiti occidentali e registra le sue parole mentre tocca quei tappeti.
“Vorrei diffondere un semplice messaggio”, dice con voce decisa, “non comprate questi tappeti. Non comprateli, perché sono stati fatti da dei bambini”.
È un’iniziativa innocente che porta però con sé gravi rischi per la sua incolumità. Inspiegabilmente quelle immagini vengono trasmesse dalla tv nazionale svedese e poi riprese in molti paesi senza alcuna misura precauzionale per tutelare la sua identità e la sua sicurezza.
Per l’opinione pubblica e per i mezzi d’informazione statunitensi Iqbal diventa in breve tempo una star la cui semplice presenza è capace di innescare campagne di sensibilizzazione potentissime, petizioni, raccolte di firme, proposte di legge per boicottare i tappeti pachistani prodotti dai bambini-schiavi. Iqbal è piccolo, esile e più basso della media dei ragazzini di dodici anni, ma sente improvvisamente di avere due spalle fortissime.
“Farò l’avvocato, continuerò a lottare perché i bambini non lavorino più”, promette con i suoi dolcissimi occhi scuri spalancati su un mondo tutto nuovo, “ma adesso voglio andare a casa”.
Intanto, molti giornali del suo Paese hanno cominciato a interessarsi a lui, a dedicargli articoli e a pubblicare sue foto. La storia del ragazzino che ha osato sfidare gli spietati schiavisti che costringono i bambini a lavorare a ritmi disumani e con salari ridicoli comincia a fare il giro del mondo.
Grazie alla sua attività di denuncia e alla pressione esercitata dall’opinione pubblica, circa tremila piccoli schiavi vengono liberati dal loro inferno, e il governo è costretto a chiudere decine di fabbriche di tappeti a seguito delle proteste della comunità internazionale.
Nel gennaio del 1995, poco dopo essere tornato dagli Stati Uniti, Iqbal interviene a Lahore, la seconda città del Pakistan, a una conferenza contro lo sfruttamento del lavoro minorile.
Dal palco sfida il suo padrone di un tempo, dichiarando di non avere più paura di lui.
“È lui che deve aver paura di me, di noi, della nostra ribellione. Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite”.
Poi, l’anziano avvocato Faiz Muhammad Bhati gli chiede di andare con lui nella redazione del quotidiano pachistano The Nation per partecipare a un dibattito con due imprenditori dei tappeti.
L’articolo che uscirà sarà pacato e assai edulcorato al contrario di ciò che accade realmente nelle stanze del giornale. Il dibattito assume ben presto toni violenti. I due trafficanti di tappeti chiedono con insistenza a Iqbal di circostanziare le sue accuse, mettono in discussione apertamente le sue parole sostenendo che nessun bambino è costretto a lavorare contro la sua volontà, lo rimproverano per non aver denunciato prima le violenze subite. Infine sono loro ad accusarlo di aver contribuito a diffondere una pessima immagine del suo paese all’estero. Iqbal non si scompone e replica ai due adulti dicendo che i bambini devono essere lasciati liberi di correre per strada, di giocare e non costretti a lavorare nelle fabbriche.
Le sue risposte irritano i due venditori di tappeti, uno di loro alla fine sbotta e si rivolge di nuovo verso di lui, gridandogli che il mondo non smetterà di girare se dovesse accadergli qualcosa. Sono parole che suonano come una minaccia.
Il 16 aprile 1995, domenica di Pasqua, Iqbal viene falciato da una raffica di proiettili mentre sta andando alla messa in bicicletta insieme a due cugini.
Il successivo processo, che vede imputati gli esecutori materiali dell’omicidio, non chiarisce le motivazioni del gesto. Ma è fin troppo ovvio che è stata una ritorsione della locale “mafia dei tappeti”, minacciata nei propri affari dall’attivismo di un bambino divenuto il simbolo della lotta al lavoro minorile in tutto il mondo.