# LE MALETESTE #
5 gen 2023
Recensione del libro "Le imprese recuperate in Italia", a cura di Romolo Calcagno e Leonard Mazzone
di GIOVANNI PEDUTO
In queste settimane, la vertenza condotta dal collettivo di fabbrica della ex-Gkn di Campi Bisenzio è in un momento decisivo: in risposta alla sostanziale e irresponsabile inazione della proprietà, gli operai e le operaie, con il supporto di un comitato tecnico-scientifico solidale, hanno avanzato numerose proposte per un piano industriale alternativo e ispirato a criteri di utilità sociale, apertura al territorio, attenzione al tema della conversione ecologica. Abbiamo seguito e seguiamo con attenzione questa lotta importante, sulla quale abbiamo ospitato vari contributi negli scorsi numeri della rivista (ottobre 2021: A Firenze, la lotta operaia della Gkn, dicembre 2021: Il ruolo dei tecnici nell’industria e nella ricerca; febbraio 2022: Lotta operaia e giustizia climatica alla Gkn).
Oggi pubblichiamo sul nostro sito una recensione del libro Le imprese recuperate in Italia, di Romolo Calcagno e Leonard Mazzone (Castelvecchi 2022), un’inchiesta sulle tante esperienze italiane di recupero di imprese fallite, da parte dei dipendenti riuniti in cooperativa. Esperienze importanti, di cui sulla rivista ci aveva già parlato Romolo Calcagno nel numero di marzo 2020 (Gli Asini).
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Non è per niente facile classificare il libro Le imprese recuperate in Italia (Castelvecchi 2022). Al suo interno non si ritrovano soltanto finalità saggistiche, volte ad inquadrare il fenomeno delle imprese recuperate in una precisa configurazione teorica, ma un prezioso e lungo lavoro di inchiesta sulle storie di molte di queste imprese.
Lo scopo del testo, infatti, è innanzitutto quello di far conoscere il fenomeno e di favorire la messa in rete delle diverse esperienze di recupero cooperativistico. Si oscilla, dunque, tra discussione teorica, documentazione di inchiesta, punte letterarie e pagine in cui gli autori sembrano scrivere una sorta di guida informativa per il recupero cooperativistico.
È evidente che il libro ha dei destinatari privilegiati: i lavoratori. Esso più che documentare un fenomeno che gli preesiste, cerca di entrare nel processo reale di costruzione di una rete di imprese recuperate. Far conoscere, raccontare, spiegare, analizzare: sono i mezzi con cui gli autori vogliono far espandere l’esperienza del recupero di impresa.
Tener presente questo aspetto è importante per non traviare il senso del testo. Chiunque voglia trovare una giustificazione ideologica al fenomeno resterà deluso, perché il fenomeno è esso stesso ancora in fieri. Si tratta di capire cosa faremo di esso.
Il libro si apre con la nozione di “scarto”, di “resto”. È a partire dai resti, dagli scarti del capitalismo contemporaneo che si costruisce il fenomeno delle imprese recuperate. Lavoratori più o meno politicamente attivi, che si trovano dinanzi alla necessità brutale di dover portare “il pane a tavola”, dopo che, di punto in bianco, le catene del valore si sono spostate altrove, chiudendo il sito di produzione dove essi lavorano: è questo il perenne punto di partenza.
Decidono dunque di mettersi insieme e prendere in gestione l’impresa appena fallita, condividendo speranze, sogni e, talora, profondi percorsi umani.
Tuttavia, non è solo la stringente necessità a spingere i lavoratori a recuperare le imprese, ma anche un forte senso identitario e un positivo giudizio di valore circa la propria attività lavorativa. “Vaccelo a dire all’università cosa abbiamo creato qui senza niente intorno e diccelo pure a Zingaretti che questa è la ‘cittadella della dignità’ creata direttamente dai lavoratori”, chiosa il presidente della Mancoop di Santi Cosma e Damiano, in una delle belle storie di recupero narrate nel libro.
La topologia non è casuale: è dal resto che si parte, dagli scarti.
Le letture del capitalismo contemporaneo, che si vada da Boltanski e Chiapello a Shoshana Zuboff, o dai nostri Roberto Finelli e Luciano Gallino a David Harvey, sono spesso convergenti nel demarcare un processo totalizzante, in grado di permeare anche la stessa struttura dei soggetti: capitalistici sono i nostri sogni, le nostre ambizioni, il nostro modo di vivere, la nostra “forma di vita”.
Consci di ciò sono ovviamente anche gli autori del libro quando affermano che la “razionalità liberale (…) ha saputo conquistare il cuore e le menti di ampie porzioni della cittadinanza dopo aver combinato lo spirito competitivo tipico delle imprese attive sul mercato con il desiderio di autorealizzazione personale dei soggetti, disgiunto da ogni istanza di emancipazione collettiva”.
È nello spirito stesso delle nostre vite che questo cancro ha trovato sedimentazione.
Tuttavia, questa gigantesca piovra lascia degli spazi, degli anfratti, dei resti, delle crepe ed è da lì che si può iniziare a lavorare, possibilmente, insieme. È la disamina di questa possibilità, di questo possibile processo di soggettivazione alternativo a rendere, ad avviso di chi scrive, questo libro estremamente interessante.
La domanda angosciante che un’avveduta cultura di sinistra pone a questi fenomeni suona sempre: ma è davvero un “fare altrimenti”, un’eterotopia, o semplicemente un’altra forma di imprenditorialità, poiché lascia intatti sia i modi di produzione che le regole del mercato?
Una risposta classica a questa domanda potrebbe far riferimento alla canonica distinzione tra chi detiene i mezzi di produzione e chi è costretto a vendere, invece, il proprio lavoro: infatti, nel recupero cooperativistico operai e altre figure professionali sono co-proprietari dei mezzi di produzione e decidono insieme sulle strategie operative e di produzione.
Questo semplice fatto potrebbe collocare il fenomeno al di là di una prospettiva classicamente capitalistica.
Nondimeno, questi dubbi teorici, più che leciti, non fanno riferimento alle premesse sociali della realtà che viviamo, definita talora come “liberalismo reale”: la competitività è eretta a fondamento della convivenza sociale e gli individui difficilmente sono coinvolti in processi di emancipazione collettiva.
Il semplice atto di iniziare a lavorare insieme, cercando di condividere in maniera solidale percorsi di produzione e di vita, segna già uno scarto, un cambiamento netto nei confronti di una libertà confinata alle dimensioni del proprio cranio. Segnala un desiderio di libertà diverso, che può essere l’inizio di un cambiamento più strutturale. Il condizionale è d’obbligo.
La stessa nozione di resto ci vincola a utilizzarlo: il resto è sempre resto di un tutto, ne condivide la sostanza. Se nel piatto appena mangiato “restano” degli avanzi, questi avanzi sono della sostanza del piatto.
È un fatto banale ma, nel nostro caso, ha implicazioni sociali importanti: i lavoratori che intraprendono questo percorso di recupero lo inaugurano all’interno di una struttura che è figlia del capitalismo contemporaneo e non ex novo, inventando e progettando da sé un modo di produzione alternativo.
Il pericolo è quindi la nostalgia del “tutto”: il fatto cioè che i lavoratori possano replicare semplicemente gli imperativi del mercato da cui sono stati espunti, dando una lettura riduzionista ed economicista del loro percorso cooperativistico.
L’opportunità reale è, invece, fare del resto qualcos’altro. Far restare il resto.
Dagli avanzi fare un nuovo piatto, restando all’esempio sopra citato, come è accaduto nei casi della Rimaflow, di Officine Zero e della Fattoria Mondeggi.
In casi del genere, il fenomeno di recupero cooperativistico è stato fortemente politicizzato e si è cercato spesso di fare della fabbrica un luogo non solo di produzione, ma anche di condivisione e solidarietà, risocializzando di fatto i luoghi di produzione.
I lavoratori “ritorcono l’ingiunzione neoliberale all’auto-imprenditorialità contro lo stesso neoliberismo, anziché tentare di salvarsi da soli, mettono in atto forme di riscatto solidale basate sulla cooperazione anziché sulla competizione”.
Si pratica, ancor prima di essere teorizzato, una sorta di neosocialismo che è lontano sia dal modello Stato-centrico di una vecchia sinistra, sia dal modello Stato-fobico dell’anarchico e che non confonde l’autogestione dei luoghi con l’autosufficienza di comunità emancipate.
L’opportunità di una nuova proposta di sinistra è dunque reale.
Tuttavia, non sempre il fenomeno del recupero di impresa si manifesta con tale profondità. Anzi, è piuttosto raro.
Gli autori distinguono quattro indicatori per analizzare la radicalità della proposta che, di volta in volta, viene messa in atto dalle comunità di recupero. Essa, infatti, varia in base alle azioni collettive di reciprocità solidale fra i lavoratori, alla tipologia di autogestione, al livello di riconversione ecologica e alla capacità di rigenerazione sociale.
Inoltre, viene specificato che la politicizzazione dell’impresa di recupero, nella maggior parte dei casi, lungi dal costituire una premessa iniziale del fenomeno, ne è solo un risultato possibile.
Il problema che si pone, dunque, è quello di favorire processi di forte radicalità politica. In questo senso, la creazione di una rete delle imprese recuperate italiane, da parte degli autori e del collettivo di cui fanno parte, va proprio nella direzione di una governance del fenomeno, potendo in questo modo favorire il fiorire di esperienze positive.
Malgrado il fenomeno non abbia raggiunto l’estensione e la profondità che ha avuto, invece, in Sud America, in Italia si dispone però di uno strumento normativo che tutela e favorisce il recupero cooperativistico delle imprese: la Legge Marcora. Essa nasce nel 1985 al fine di salvaguardare l’occupazione nei casi di fallimento delle aziende. Pur avendo subito diverse modifiche nel tempo, resta tuttora uno strumento efficace che incentiva i lavoratori a intraprendere percorsi di recupero con agevolazioni fiscali e sul credito.
Il combinato disposto tra riconoscimento istituzionale e movimento di informazione e di lotta pone buone basi perché il fenomeno delle imprese recuperate in Italia possa svilupparsi dando luogo a risultati sorprendenti.
Tuttavia, non mancano le difficoltà: l’accesso al credito, i vincoli posti dal mercato, il rilevamento della proprietà degli stabilimenti, la richiesta di nuove figure professionali, ne sono gli esempi più urgenti.
Si tratta, tirando le somme, di una strada percorribile che è bene promuovere e approfondire. Allo scetticismo, pur giusto e ragionevole, nei confronti di tale fenomeno, pare opportuno rispondere infine con i versi di Danilo Dolci: “lo accusano / con ispida arroganza / non priva di cattivo acume: / -nella tua proposta non c’è un fatto concreto / -non esiste niente di quanto dici / -non vi è niente di già concluso / È come rimproverare chi ha trivellato chilometri / e chilometri il buio di sabbie e dure rocce / per sondare se era possibile costruirvi la diga; / è rimproverare Giancarlo e Giovanna / – lei che lavora pur rosa dal cancro / di aver sognato giorno e notte minuziosamente / per anni e anni / il progetto di un centro educativo / ancora inesistente; / non un uomo era pronto, un solo braccio / al suo posto, / una pietra, / un grano solo / di sabbia”.
GIOVANNI PEDUTO
da: gliasinirivista.org - 4 gen. 2023