top of page

Raquel Gutiérrez (intervista parte 1). Nell’organizzazione e nelle pratiche comunitarie, la forza delle donne è molto visibile

Prima parte dell'intervista a Raquel Gutiérrez. La sociologa e scrittrice messicana racconta la sua esperienza di guerriglia in Bolivia, le discussioni di quel momento storico, e le esperienze legate a un passato attraversato da problemi simili a quelli di oggi.
di ALESSIA DRO'

# LE MALETESTE #

15 feb 2023

di Alessia Drò


Raquel Gutiérrez concentra il suo desiderio con vitalità in ogni parola, come un fiume implacabile che trasporta la corrente di riflessioni esperienziali ampie e sorgive. Messicana, sociologa, matematica, docente di sociologia alla Benemérita Universidad Autónoma de Puebla e attualmente, impegnata a sostenere un settimanale di riflessione, traduzione e dibattito chiamato “Ojalá”, è stata membro -negli anni ’80- dell’ Esercito guerrigliero Tupac-Katari, uno sforzo politico-militare, principalmente aymara, che operava nell’altopiano boliviano. Per cinque anni è stata imprigionata nel carcere di Obrajes, nella città di La Paz, in Bolivia.

Raquel ha dedicato tutta la sua vita a tessere trame antipatriarcali attraverso diverse geografie. Di recente ha partecipato al prologo per la ristampa del celebre libro della femminista italiana Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. Negli anni precedenti ha compilato tre volumi intitolati Il Movimento Indigeno in America Latina: Resistenza e Trasformazione Sociale. Tra i suoi contributi emerge soprattutto il libro Los ritmos del Pachakuti. Mobilitazione e rivolta popolare-indigena in Bolivia (2000-2005), che è stata fonte di riflessione collettiva nelle formazioni politiche anche in Kurdistan.

Dai processi della lotta anticoloniale e femminista in Abya Yala, passando per l’eredità del pensiero dell’italiana Carla Lonzi fino alla lotta antipatriarcale in Rojava (Kurdistan siriano), le sue parole sono intessute di risonanze: l’assunzione delle rotture, l’importanza della simbolizzazione e la sfida urgente di questi tempi post-pandemia- della riarticolazione della forza delle donne e dei dissidenti da e attraverso i territori.



Per ripensare le autonomie oggi fai riferimento a una forza utopica materiale. Nelle riflessioni comuni, i tuoi scritti hanno generato un dibattito arricchente anche in Kurdistan. Lì ho sentito l’esperienza comunitaria del confederalismo democratico in Rojava in un dialogo interstorico con la tua esperienza di lotta.

Per collegarsi alle lotte in Kurdistan, sarebbe molto interessante raccontare come anche l’esperienza dell’Esercito di guerriglia Tupac-Katari (EGTK) risuoni e abbia alcune somiglianze con la lotta zapatista dell’EZLN. Entrambe sono esperienze tardive di guerriglia, sviluppatesi dopo i grandi momenti e le sconfitte delle ondate precedenti e pratiche rivoluzionarie più incentrate su strategie stato-centriche (che fossero fochiste o di guerra popolare) in questo continente, come i grandi movimenti ribelli e insurrezionali in Argentina, Cile e Uruguay.


Quando sono diventata maggiorenne, all’inizio degli anni ’80, in America centrale era in corso la guerra civile. A metà di quel decennio, nasce un’esperienza e una situazione interessante in Bolivia, che si chiamerà EGTK, che ha articolato varie lotte. Dal lato in cui l’ho vissuta, posso dire che si tratta della decisione e della creazione di un gruppo di giovanissimi che erano stati esiliati dalle dittature militari, dalle università. Ci siamo conosciuti, avvicinandoci nelle discussioni e la mia piena partecipazione si è risolta dopo un’esperienza molto amara nel Salvador.


Quindi, in me, nasce il desiderio di andare in Bolivia e contribuire a mettere insieme lì un’esperienza di guerriglia, strettamente legata al movimento di massa – che è sempre stato molto forte in quel paese – sotto un insieme di idee che erano orientate da quello che, all’epoca, era conosciuta come la strategia di resistenza totale popolare, che riprendeva le esperienze di combattimento vietnamite. In Bolivia, quindi giovani mestizos urbani iniziarono a lavorare su un’alleanza con un segmento di leader sociali e militanti aymara dell’Altiplano, della zona del lago, che provenivano dalle esperienze katariste dell’indianismo: una filosofia di forte autoaffermazione del soggetto collettivo indigeno, che afferma la propria indicità per andare contro il modello di civilizzazione capitalistica coloniale e che converte il recupero delle proprie tradizioni di lotta e della propria capacità produttiva e politica, della propria capacità simbolica e rituale, della propria religiosità, di ciò che ha ricreato lungo tutto il secoli di colonizzazione e, successivamente, durante la “República Criolla”


Si trattava di giovani, nessuno aveva più di 40 anni a quel tempo e noi non ne avevamo 25. Stavano scappando da un’esperienza di incursione nel campo elettorale che era andata loro male. Ci sono state fratture in una struttura partitica che hanno messo insieme: si sono iscritti al sistema politico, hanno partecipato, ma chi è stato eletto deputato non ha risposto alla base -come sempre accade-. Sono venuti molto delusi e con grande entusiasmo per entrare in altri processi organizzativi.



Come è sorto il movimento?

È stato allora che abbiamo iniziato a conoscerci e a conoscere direttamente i loro pensieri, le discussioni katariste. Abbiamo approfondito le nostre conversazioni e ci siamo legati, imparando molto da loro. Comprendere soprattutto i nostri sentimenti: sono stati molti anni in cui siamo riusciti a tessere un’articolazione di vari attivisti, che ha lavorato attraverso pratiche di profondissimo rispetto per ciò che ogni parte proponeva e conosceva, senza diluire le istanze che ci differenziavano, ma disponendoci a coltivare questioni comuni.


Sono stati anni di grande lavoro, molto intensi, sotto l’idea di promuovere la rivolta degli ayllus* (vedi nota a pie' di pagina, NdT) e della classe operaia. Abbiamo lavorato molto sul recupero storico del modo di combattere dalle precedenti rivolte degli ayllus e delle comunità; le grandi ribellioni che avevano messo in crisi il potere coloniale e che sostenevano la forza che permetteva di mantenere vaste aree di ricchezza materiale, acqua e terra soprattutto, in contesa con il controllo coloniale e repubblicano.


La colonizzazione spagnola è diversa dalla colonizzazione inglese o francese, nei Caraibi o in Africa, che sono ancora più brutali: la colonizzazione spagnola ha permesso, per due secoli, l’esistenza di “due repubbliche”, una di “indios”, e l’altra delle cosiddette “persone ragionevoli”. Ciò separava e classificava le società creole e indigene, ma consentiva la ricreazione di una vita collettiva sopravvissuta nel tempo.


Da parte sua, la Bolivia, che in epoca coloniale era conosciuta come Alto Perù, era una terra economica molto importante per la Colonia, perché vi si trovavano le grandi miniere d’argento. Ma era una zona molto difficile dal punto di vista politico perché era una zona alta e fredda, una regione di difficile accesso e con pochissime comunicazioni. Non è mai esistita una struttura politica coloniale così solida, paragonabile, ad esempio, al vicereame della Nuova Spagna – che è quello che è oggi il Messico. Questo è un elemento importante da considerare, perché sebbene le comunità indigene nell’attuale Altiplano boliviano e nella regione del centro-sud abbiano subito un regime fiscale coloniale duro, hanno sempre avuto una grande capacità di contrastarlo, data la capacità collettiva di sostenere la loro vita materiale che hanno preservato e ricreato nel tempo.


Il regime coloniale nell’Alto Perù ha assoggettato e prosciugato le comunità e gli ayllus, ma non li ha distrutti né ha perforato molte delle loro pratiche comunitarie; questi venivano costantemente rigenerati e adattati, mantenendo una ricca vita rituale, produttiva e politica molto vicina ai problemi delle persone. Ciò che è sopravvissuto di quel mondo comunitario molto resistente, ricreato molte volte, è ciò che i compagni Aymara ci permettono di conoscere e ci invitano a praticare. Come mestizos dell’EGTK, siamo riusciti in parte a farne parte per alcuni anni, attraverso il progetto di promuovere quella grande rivolta degli ayullus e dei lavoratori, che era quello che immaginavamo.



Quali domande sono nate in quegli anni formativi?

Cominciano a presentarsi una serie di discussioni che si sono svolte negli stessi anni anche nel  popolo curdo, soprattutto in relazione ai popoli senza Stato. Vogliamo uno stato o no? Ne abbiamo bisogno? Come negoziare con il nazionalismo? Vogliamo il nazionalismo indigeno o no?


Questi dibattiti erano molto all’ordine del giorno e abbiamo appreso di un’idea organizzativa molto tipica delle Ande – che risuona anche nelle pratiche organizzative in Ecuador e Perù – che ha a che fare con l’articolazione di segmenti autonomi dalle pratiche comunitarie.


Mi riferisco alle pratiche produttive e politiche e, naturalmente, anche rituali e affettive, che coltivano una minima autonomia materiale, riconoscendola come fondamento dell’autonomia politica.


Poi, le pratiche produttive e politiche per sostenere la vita materiale si stabiliscono come gli assi di ogni alleanza: quindi l’articolazione di segmenti autonomi costituisce il modo per collegare ed espandere la forza. Questa nozione teorico-pratica è centrale nella cosmogonia indigena degli altopiani delle Ande. Puoi vederlo riflesso nel wiphala, la bandiera ancestrale dei popoli degli altipiani che ricorda un tessuto colorato e multicolore.


Sulla base di questa idea, stavamo mettendo insieme il nostro tessuto: c’erano momenti in cui ci presentavamo come un’unità e ce ne erano altri in cui ci faceva comodo presentarci in modo disaggregato. Quello che è successo in tali forme organizzative è che le differenze sono state sempre tenute in conto e si è provato ogni tipo di metafora per definire la nostra presenza in modo articolato.


Ad esempio, l’alleanza che avevamo tra i compagni aymara e mestizos – lavoratori e no – che lavoravano molto nelle aree periurbane delle città, principalmente con i sindacati, l’abbiamo spiegata così: il condor vola con due ali, c’è una parte dell’organizzazione che è focalizzata su questioni strettamente di classe, che impara dalla comunità, e una che è più focalizzata sulle pratiche comunitarie produttive e politiche, che impara dalla conoscenza – soprattutto tecnica – che è acquisita in città e sul lavoro.


Da queste differenze è stata organizzata l’articolazione. Ho imparato a fare politica su quella base: si mettono sul tavolo le differenze, si gestiscono le distanze, si coltiva la vicinanza, si producono patti collettivi che ci legano tutti, si trattava di provare modalità di articolazione dove nessuno era subordinato agli altri. Questa era l’autonomia politica per noi.


Da parte mia, avevo già allora una critica durissima al cosiddetto “centralismo democratico” della sinistra classica e anche i colleghi di comunità avevano una critica pratica a quel modo di concepire l’organizzativo. Mettono sempre, al primo posto, la deliberazione sistematica e profonda di ciò che abbiamo fatto. Siamo partiti dalla deliberazione e dalla discussione profonda delle cose collettivamente, non abbiamo obbedito agli ordini di nessuno. Attraverso la deliberazione e, soprattutto, osservando chi ha rispettato quanto deciso collettivamente, si è prodotta fiducia e abbiamo potuto camminare insieme. Se c’è fiducia, le divergenze che a volte si accendono potrebbero essere gestite.


La nostra principale attività politica era organizzare la ribellione, che era la strada per la liberazione. Abbiamo messo le nostre forze nel contestare e sfidare ciò che i governi stavano imponendo. Si stava formando così in quegli anni un movimento di guerriglia clandestina molto diffuso, che faceva parte anche del movimento di massa. Quando abbiamo pensato al futuro o, meglio, al programma, abbiamo ritenuto che questo dovesse emergere dalla stessa pratica generalizzata del combattimento; sarebbe stato specificato strada facendo, ovviamente, sulla base di alcune idee guida. L’idea guida era quella di rigenerare “l’ayllu universale”, liberarne le capacità; questo era il nostro modo di nominare l’espansione delle capacità comunitarie in termini geografici e in termini politici. In certi momenti, questa era più un’immagine legata a concrete pratiche di lotta. Abbiamo avuto processi formativi molto forti e incontri e confronti sempre più ampi.


Tra i tanti compiti a cui mi dedicavo personalmente, insegnavo ai miei colleghi molte cose tecniche e contemporaneamente apprendevo una cosmogonia che mi stava assorbendo e di cui facevo parte al meglio delle mie possibilità, considerata la mia storia personale. Per diversi anni mi sono occupata della stampa e della comunicazione, oltre a molti compiti logistici. Questo mi ha dato l’opportunità di incontrare e discutere con molti colleghi all’interno dell’organizzazione per diffondere e far conoscere le loro idee.

Sono trascorsi diversi anni in quella intensa preparazione. Nel 1991 abbiamo deciso di iniziare la ribellione: siamo apparsi pubblicamente, ci siamo mobilitati in diverse regioni del paese e abbiamo iniziato a ricevere colpi piuttosto duri dalla repressione. Non perché la repressione fosse molto organizzata, sebbene fosse efficace. Credo che siamo stati abbastanza incauti: in momenti già piuttosto duri, abbiamo continuato ad avere una funzione assembleare all’interno, anche se i compiti militari hanno cominciato a divorare la nostra attenzione. I colpi sono arrivati ​​​ai quadri che abbiamo agito come collegamento e intermediari. E sono caduti anche i quadri dirigenziali. Tutto questo è accaduto all’inizio del 1992.



Raquel Gutiérrez


Sei stata in prigione. E, da lì, è nato il libro A desordenar! Per una storia aperta della lotta sociale, dove emerge la tua riflessione sull’essere donna nella pratica rivoluzionaria.

Sì, poi arriva la pena detentiva di trenta anni di carcere. Sono stata imprigionata dal 1992 al 1997, cinque anni. In quel tempo stavamo ricostruendo molti legami pubblici e ristabilendo reti, ma cambia molto la prospettiva di come organizzarci e, soprattutto, di come valorizzare la centralità del combattimento nella strategia generale. Ci rendiamo conto – e questo è ciò di cui discuto nel libro A desordenar!, per una storia aperta della lotta sociale – che a un certo punto abbiamo deciso di privilegiare il lavoro militare e la nostra struttura è diventata molto più rigida: questa è la parte del processo interno che critico in questo lavoro.


Dal mio punto di vista, ci sono venuti in mente problemi che avevamo già rilevato in altri precedenti movimenti di guerriglia: l’irradiazione politica che avevamo raggiunto in un dato momento, in qualche modo, ha cominciato a diluirsi e la questione militare, che si è fatta molto più rigida, è stata posta al centro e ci ha resi più fragili. In A desordenar!, rifletto sul motivo per cui questo ci è successo.


Scrivo questo libro mentre sono in prigione, nel bel mezzo di un processo penale. Ho messo tra noi alcuni punti duri di dibattito e lì emerge chiaramente, per me, il vivere da donna. In quegli anni non la percepivo come complicato, perché ero ancora immersa nella fantasia della coppia paritaria che ho avuto la possibilità di sperimentare per qualche anno, nella prima giovinezza, tra i 20 e i 30 anni.


Negli anni precedenti avevo avuto un buon rapporto con le compagne dell’organizzazione che erano di origine aymara. Mi era stata insegnata l’idea della dualità tra i sessi che esiste nelle Ande e, sebbene sapessimo che questa idea di dualità include una forte gerarchia interna, era molto difficile per me sottoporla a critiche. Le culture indigene che hanno una chiara divisione del lavoro tra i sessi e una chiara strutturazione del significato di parentela mantengono un rapporto di genere meno brutale del rapporto moderno di assoluta negazione del potere femminile. Nell’organizzazione e nelle pratiche della comunità, la forza delle donne è molto visibile, c’è sempre un posto per le donne, anche se c’è sempre anche tensione e disagio.


Ho imparato molto dalle mie compagne aymara: tecniche per regolare gli uomini, per avere forza insieme. E collaboravamo alla discussione sulla questione dell’organizzazione autonoma e specifica delle donne all’interno delle organizzazioni miste. Questa discussione si era aperta ndgli anni precedenti. Nella guerra in Centroamerica avevo appreso di questa discussione che non era tanto in discussione la specificità dell’organizzazione delle donne, ma la sua autonomia. Cioè, c’erano organizzazioni femminili specifiche, la loro esistenza era ammissibile. Quello che non era ammissibile è che queste organizzazioni fossero veramente autonome, che pensassero con la loro testa, che decidessero i loro passi e i loro rischi.


Le discussioni sull’autonomia delle “donne contadine” – così si chiamava l’organizzazione sociale in quegli anni – fu quello che cominciammo a generare. Con alcune compagne aymara, abbiamo dato molto impulso alla Federazione delle donne contadine Bartolina Sisa, come organizzazione specifica delle contadine della Bolivia che, secondo noi, quelle dell’EGTK, dovevano essere autonome. Ma qui i compagni si sono opposti e hanno detto: c’è un’organizzazione genitoriale mista e questa “sezione” femminile può essere solo una parte dell’“organizzazione principale”. Quindi, c’era sempre il problema delle compagne ridotte a un settore all’interno della lotta. In queste circostanze, con le compagne aymara, abbiamo inventato una formulazione che ci è sembrata appropriata: stavamo dando una lotta nella lotta.


Ora, a 60 anni, direi che questa idea è mal posta, ma in quel momento abbiamo ritenuto che fosse necessaria e corretta. È posta male perché ammette che la lotta delle donne è settoriale, ammette che le donne sono un settore e non un’esperienza storica diversa e pienamente preziosa. Ora mi è molto chiaro che le donne non sono un settore: in quanto donne, incarniamo un’esperienza storica contraddittoria, che rifiutiamo e sovvertiamo a partire da noi stesse; da lì, pensiamo alla generalità delle trasformazioni di cui abbiamo bisogno. In quegli anni, l’idea della “lotta nella lotta” come chiave della pratica delle donne ribelli faceva riconoscere che esiste una specifica forma di espropriazione delle forze, delle energie e delle creazioni delle donne dei diversi popoli, che varia a seconda dei contesti, assumendo un terreno comune di tali espropriazioni e dei modi per affrontarle.


Tuttavia, questa formulazione settorializzava le lotte delle donne: non concedeva al pensiero femminile la possibilità di pensare a come sovvertire e disgregare il generale.

Personalmente, ho avuto difficoltà a superare quella formulazione. Però l’esperienza carceraria con le altre detenute, circondate da tutti i detenuti, con gli uomini  cioè sparsi in altre carceri e le donne separate da loro, è stata molto importante per me. Nelle nostre carceri potevamo fare tutto quello che pensavamo, e lo abbiamo fatto… Tutto quello che immaginavamo, l’abbiamo messo in pratica e siamo state noi a sfidare il sistema giudiziario e, così, siamo riuscite tutte e tutti a uscire dal carcere, uomini e donne, qualche anno dopo.



*Ayllu: forma andina di autogoverno comunitario, anteriore al periodo Inca e alla colonizzazione spagnola




Articolo pubblicato originariamente l’8 febbraio 2023 da Redazione “La Tinta”

tradotto da: dinamopress.it - 15 febbraio 2023

bottom of page