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Attacchi turchi e iraniani ai curdi

Nella grande trasformazione geopolitica che si sta realizzando dallo scorso febbraio, a pagare un prezzo molto alto sono anche i curdi siriani e iraniani. Nel silenzio dei governi e dei media europei
di THOMAS SCHMIDINGER

Iran e Turchia hanno aumentato la pressione verso le regioni curde. Mentre la Repubblica islamica sta attribuendo ai curdi la responsabilità per le proteste attaccando i campi dei curdi iraniani in Iraq, la Turchia, a partire dalla notte tra il 19 e il 20 novembre, ha iniziato a bombardare il Rojava, ventilando la minaccia di invadere le restanti aree ancora sotto controllo dell’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale. Un’invasione con truppe di terra soprattutto nella zona di Kobanê pare ormai imminente.

 

Dall'inizio delle mobilitazioni in Iran, la Repubblica islamica ha cercato di caratterizzarle come proteste “curde”, etnicamente motivate. In effetti, le proteste erano e sono particolarmente forti nelle aree curde, terra d’origine di Jina Amini, uccisa dalla polizia morale iraniana il 16 settembre. Tuttavia, già nei primi giorni dopo la sua morte, tutte le principali città iraniane sono state teatro di manifestazioni contro la brutalità della polizia e l’obbligo di velarsi. È logico che nelle regioni curde dell'Iran, ma anche in Baluchistan, rivendicazioni etniche di lunga data si mescolino con la richiesta di maggiore libertà per le donne.

 

Poiché sarebbe molto più facile sopprimere proteste autonomiste territorialmente più limitate, rispetto invece ad altre estese a tutto il Paese, il governo iraniano, fin dall’inizio, ha cercato di far ricadere la colpa sui curdi. Questo è lo sfondo per i ripetuti attacchi alle strutture di Partiti curdi iraniani in esilio nella Regione autonoma del Kurdistan in Iraq.

 

Il Partito democratico del Kurdistan Iran (Pdki), che si è riunificato ad agosto, ha i suoi accampamenti principali vicino alla città di Koya, e il partito di sinistra, Komala, che è diviso in tre correnti rivali, ha i suoi accampamenti nella regione montuosa di Qaradagh, a Sud Ovest di Suleymania, entrambi nel territorio del Puk curdo iracheno. Il Kurdish Freedom Party (Pak) ha il suo quartier generale vicino a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno controllato dal Partito democratico del Kurdistan (Pdk). Inoltre, c'è il Partito per una vita libera (Pjak), che è un partito gemello del Pkk e opera nella regione di confine Iran-Iraq, sulle montagne Qandil.

 

Tutti questi partiti sono stati notevolmente cauti dall'inizio delle proteste. Pur possedendo forze armate, hanno agito con grande moderazione, per non trasformare le proteste in scontri violenti. Certo, alle proteste partecipano anche i membri di questi partiti, ma nessuno di essi è abbastanza forte da dirigere un movimento di protesta così massiccio. Senza il risentimento spontaneo per la morte di Jina Amini e la repressione che ne è seguita, queste proteste di massa non sarebbero mai avvenute.

 

Le aree dei curdi a Ovest e dei baluchi nel Sud Est del Paese sono quelle in cui le manifestazioni sono state più intense, ma sono le uniche aree a maggioranza sunnita in Iran, il che le rende ancor più sospette agli occhi della Repubblica islamica sciita.

 

« Il regime iraniano sta cercando di attirare l'attenzione sui Partiti curdi iraniani bombardando le loro posizioni e presentando le proteste come una cospirazione tra questi e forze straniere »

 

Questo è probabilmente uno dei motivi per cui il regime iraniano sta ora cercando di attirare l'attenzione sui Partiti curdi iraniani bombardando le loro posizioni e presentando le proteste come una cospirazione tra questi e forze straniere. Più di recente, il 14 novembre, l'Iran ha attaccato il quartier generale del Pkdi vicino a Koya e altre cinque basi di gruppi minori dell'opposizione curda iraniana con missili balistici Fateh-110 e droni. Almeno due persone sono state uccise e otto ferite in questo ultimo attacco.

 

È stata colpita anche la Regione autonoma del Kurdistan. Missili e attacchi di droni hanno fatto sospendere i voli ad alcune compagnie aeree europee, e investimenti stranieri rischiano di essere annullati. Il fatto che il governo iracheno protesti molto cautamente non è solo dovuto alle forze filoiraniane al suo interno, ma anche al conflitto permanente tra Erbil e Baghdad.

 

Il governo federale, poco presente in Kurdistan, fa pochi sforzi per punire le violazioni della sovranità territoriale irachena. Gli attacchi turchi alle postazioni del Pkk, che colpiscono ripetutamente i civili, di solito non ricevono risposte decise da parte di Baghdad. La Turchia occupa alcune aree montuose nel Nord della regione del Kurdistan e combatte il Pkk sul territorio iracheno.

 

Dalla sera del 19 novembre, anche la Turchia sta attaccando il territorio dell'Amministrazione autonoma del Nord e Siria orientale (Aanes). Dopo che l'esercito turco, insieme alle milizie islamiste siriane, ha occupato la regione curda di Afrin, all'inizio del 2018, e dopo l’occupazione nell'ottobre 2019 di una striscia di confine tra Kobanê e la Jazirah che costrinse gran parte della popolazione locale a fuggire, ora si profila lo stesso scenario per il resto delle aree curde della Siria.

 

Meno di 24 ore dopo l'attacco terroristico del 13 novembre a Istanbul, la polizia turca ha presentato all’opinione pubblica una presunta assassina che avrebbe affermato di essere stata addestrata dal Pkk e di aver agito per conto dei sostenitori di Kobanê. Sia il Pkk sia l'Aanes hanno respinto completamente queste assurde affermazioni. Nel frattempo, ci sono crescenti indizi che i fratelli della presunta terrorista, proveniente dalla regione araba centrale della Siria, abbiano combattuto nelle file dello Stato islamico; uno di essi è il comandante di una milizia filo-turca presente ad Afrin.

 

Il comandante delle Forze democratiche siriane (Sdf), Mazlum Kobane, ha spiegato il 26 novembre che tre fratelli dell’attentatrice sono morti combattendo per lo Stato Islamico: «Uno è morto a Raqqa, un altro a Manbij e un terzo è morto in Iraq. Un altro fratello è comandante di un gruppo d’opposizione siriano appoggiato dalla Turchia ad Afrin. Era sposata con tre diversi combattenti dello Stato Islamico e la famiglia è di Aleppo. Non abbiamo assolutamente nulla a che fare con i bombardamenti e questa non è la nostra politica».

 

« È molto probabile che la rinnovata campagna contro i curdi siriani abbia principalmente cause interne: con la guerra e il patriottismo il Presidente, duramente colpito dalla crisi economica, può ancora ottenere alcuni pacchetti di voti »

 

Kobanê è stata a lungo nel mirino delle mire espansioniste turche. La sua occupazione, in primo luogo, distruggerebbe il prestigio del progetto di amministrazione autonoma che aveva investito molto nella ricostruzione della città dopo la liberazione della regione dall'Is; inoltre, creerebbe un collegamento terrestre tra le due aree attualmente occupate dai turchi nel Nord della Siria.

 

La città sarebbe un bersaglio relativamente facile per Erdogan. Dopo il “ritiro” ordinato da Trump, le truppe statunitensi sono presenti solo nell'Est del Paese e hanno allestito il loro quartier generale vicino ad Hasaka. Solo le truppe russe e siriane sono a Kobanê. In questi primi giorni di raid aerei la Turchia ha ucciso un numero relativamente elevato di soldati del governo siriano.

 

D'altra parte, l'esercito governativo siriano ha inviato nuove truppe e attrezzature pesanti a Kobanê. Potrebbe essere un'indicazione del fatto che il governo siriano non è più disposto a cedere altre aree alla Turchia. Tuttavia, durante i negoziati con i rappresentanti curdi dello Ypg, si dice che la Russia li abbia esortati a restituire l'intera striscia di confine all’esercito del governo siriano e di ritirarsi: questo rappresenterebbe probabilmente la fine dell'Autonomia.

 

Finora, tuttavia, le Sdf non mostrano intenzione di fare marcia indietro. Il comandante Mazlum Kobane ha affermato in tutte le sue precedenti dichiarazioni che le Sdf sono pronte a difendere la regione, ma hanno anche chiesto agli Stati Uniti e alla Russia di prendere misure contro la palese violazione dell'accordo per il cessate il fuoco da loro stipulato nel 2019 con la Turchia.

 

È interessante notare che, sebbene ci siano state proteste contro gli attacchi turchi da parte di Stati Uniti e Russia, il pubblico europeo è rimasto vistosamente silenzioso. Non solo tutti i governi principali dell’Ue non si sono pronunciati durante la prima settimana di guerra, ma anche i media sono rimasti in gran parte in silenzio. Le proteste sono arrivate solo dal Parlamento europeo, in particolare dal Gruppo di amicizia pro-curdo guidato da Andreas Schieder e François Alfonsi e da singoli parlamentari di alcuni Stati europei, come la portavoce per la politica estera dei Verdi austriaci, Ewa Ernst-Dziedzic.

 

Non un solo ministro degli esteri dell'Ue ha espresso contrarietà. Questo silenzio assoluto non può essere spiegato unicamente con la politica del ricatto per cui la Turchia svolge il ruolo di guardiano delle frontiere europee contro i rifugiati. Il fatto che questa volta gli Stati dell'Ue siano così straordinariamente silenziosi, anche rispetto alle invasioni turche del 2018 e del 2019, ha probabilmente a che fare con il nuovo ruolo della Turchia nella guerra russa in Ucraina.

 

Da un lato, la Turchia svolge un importante ruolo di mediatore. Dall’altra, essa ha ancora la capacità di impedire a Svezia e Finlandia di aderire alla Nato. Ungheria e Turchia sono gli unici Stati membri che non hanno ancora ratificato l'adesione Nato dei due Paesi nordici. Per il governo di Ankara decisive sono le politiche di questi due Stati in base all'estradizione dei membri dell'opposizione curda e a come si posizionano nei confronti dell'Aanes. A quanto pare i membri europei della Nato sono pronti a mettere i curdi siriani a fil di spada come pedina sacrificale per l'adesione alla Nato dei due Stati scandinavi.

 

La popolazione curda verrebbe probabilmente espulsa da Kobanê, così come avvenuto ad Afrin. Questo creerebbe anche spazio per il rimpatrio forzato dei profughi siriani. Negli ultimi mesi, la Turchia ha ripetutamente utilizzato pressioni più o meno forti per convincere i profughi arabi della Siria a “ritornare”, ma non nelle loro regioni di origine, bensì nelle aree curde precedentemente pulite etnicamente. Ciò non solo crea cambiamenti demografici duraturi che sono contrari al diritto internazionale, ma genera anche nuovi flussi di rifugiati verso l'Europa.

 


 THOMAS SCHMIDINGER *

*Politologo e antropologo culturale e sociale austriaco. Insegna all’Università di Vienna, è segretario generale della Società austriaca per la promozione della curdologia, nonché coeditore del “Vienna Kurdish Studies Yearbook”. Autore di numerosi libri su migrazione, integrazione culturale e Medio Oriente, recentemente ha pubblicato Rojava. Revolution, War and the Future of Syria’s Kurds (2018).


[Traduzione di Francesco Marilungo], rivistailmulino.it - 1 dic. 2022

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