CIBO. Lo Street Artist che modifica le scritte sui muri imbrattati da frasi violente
Per lui le città sono dei musei a cielo aperto e, come tali, devono essere abbellite e custodite, anche ripulendo i muri imbrattati da scritte d’odio.
Bio e Intervista
CIBO, nome d’arte di Pier Paolo Spinazzè, è uno street artist che si aggira per Verona e provincia munito della sua arma segreta – la bomboletta spray – con la quale ripulisce i muri imbrattati da scritte d’odio, ricoprendoli con disegni di pietanze.
La tradizione culinaria italiana viene reimpiegata nella lotta contro ogni forma di violenza.
E così svastiche, croci celtiche, inneggiamenti al fascismo, discriminazioni razziali e qualsiasi tipo di messaggio ingiurioso si trasformano in colorati e succulenti piatti tipici italiani: pasta al pomodoro, mozzarelle giganti, fette di formaggio e di pizza, salsicce, fragole e angurie…
L’impegno socio-artistico di Spinazzè ha preso avvio circa undici anni fa, dopo che un gruppo di neofascisti aveva ucciso un suo collega universitario. L’esperienza drammatica vissuta lo ha spinto a scendere in campo per “combattere” l’intolleranza con l’arte, perché «l’odio e la paura vanno combattuti con la cultura».
Tuttavia, come CIBO stesso ha spiegato ad Artribune, la sua non è un’azione politica, bensì un’azione di decoro dettata dal grande amore per il proprio Paese. Per lui le città sono dei musei a cielo aperto e, come tali, devono essere abbellite e custodite.
Sono centinaia i simboli coperti. CIBO riceve costantemente segnalazioni dai cittadini che lo chiamano per un “pronto soccorso murales”.
L'INTERVISTA:
CIBO, per te l’arte è uno strumento sociale che deve interpretare e fornire risposta ai problemi del presente? Pensi che gli artisti contemporanei dovrebbero svolgere un ruolo più attivo in tal senso?
«L’arte ha il compito di far riflettere le persone, portare la gente a farsi domande. Io mi sento in dovere di restituire qualcosa alla comunità in cui vivo, ma ogni artista vive la sua passione in maniera differente. Nel mio campo specifico mi farebbe sicuramente piacere se altri street artist prendessero a cuore la ripulitura delle città dai simboli d’odio».
Perché hai scelto di esprimerti attraverso la cucina italiana? Che cosa rappresenta il cibo nella tua visione?
«C’è chi dice che copro il cattivo con il buono, ma è decisamente riduttivo. Il cibo ha numerosi simbolismi.
Il cibo è per noi italiani tradizione e un momento di condivisione importante. A tavola non si litiga, siamo tutti amici. Siamo forse gli unici che pranzano pensando a cosa mangeranno per cena mentre guardano programmi di cucina. Inoltre, il cibo è anche simbolo di integrazione. Ci sono piatti che noi consideriamo italianissimi che in realtà hanno origini multiculturali. Pensiamo per esempio alla caprese: il basilico arriva dall’India, la mozzarella è italiana, il pomodoro rosso è originario della Colombia, e se poi vogliamo aggiungere un filo d’olio d’oliva dobbiamo andare in Siria.
In poche parole, se ti isoli mangi male.
Poi io ho iniziato in campagna, i miei interlocutori erano agricoltori, facendo arte pubblica dovevo usare un linguaggio che sapessero interpretare e il cibo è universale così come l’opera sul muro che è di tutti».
Negli ultimi anni stiamo assistendo a un riavvicinamento alle frange politiche di estrema destra. Secondo te a cosa è dovuto questo ritorno? Come si può nel 2022, dopo che gli abomini commessi dal regime sono stati apertamente posti sotto gli occhi di tutti, essere ancora fascisti?
«È una domanda a cui più volte ho provato a dare una risposta. Credo che sia estremamente complicato rispondere, ci sono moltissimi fattori che concorrono a questa sorta di sdoganamento dell’odio.
Se guardiamo solo il fenomeno italiano, prime fra tutte penso ci siano delle motivazioni storiche. Noi italiani non abbiamo mai avuto una Norimberga.
Adesso meno, ma alla mia generazione, da bambini, capitava spesso di andare da nonni o prozii e trovare qualche effige raffigurante il fascismo. Veniva considerato normale e in alcuni casi anche oggi è così.
Poi c’è il fattore della memoria: il tempo è passato, i testimoni stanno lentamente scomparendo e con loro anche la memoria. Senza nessuno che racconti diventa tutto meno vivido e si riduce a due pagine sul libro di storia.
Un altro problema è il modo in cui viene raccontato. Le associazioni come ANPI sono un punto di riferimento per la memoria, ma – salvo qualche rara eccezione -fanno fatica a coinvolgere una larga fascia di giovani.
I movimenti di stampo fascista, per assurdo, riescono a creare di più questo legame raccogliendo e accogliendo giovani. Sono gruppi estremamente organizzati, fanno rete, hanno finanziamenti, fondi, hanno negozi, vendono merchandising, si autofinanziano e hanno contatti.
E poi c’è il panorama politico generale e l’insoddisfazione della gente, la perdita di fiducia nelle istituzioni. Quando si perde la fiducia nelle istituzioni inevitabilmente si lascia spazio a ciò che si muove parallelamente ad esse e che lentamente può prenderne il posto.
Come vedi è estremamente complicato, non c’è una risposta univoca».
Come è stata accolta la tua street art all’inizio? Ti aspettavi il successo che hai ottenuto? D’altro canto, hai ricevuto persino delle minacce di morte da parte degli haters neofascisti – che tra l’altro continuano a imbrattare le tue opere – ma tu non hai mai ceduto. Questo ti fa onore e fa apprezzare ancora di più la tua attività.
«Come dicevo, il mio intervento sociale avviene soprattutto in campagna, territorio difficile per l’arte. All’inizio c’è stata un po’ di resistenza, ma presto la comunità si è entusiasmata. Alla fine, disegnavo asparagi nei campi di asparagi e fragole dove coltivano le fragole, risultava facile da capire.
Le minacce le prendo come un complimento, se una fetta di formaggio fa paura ad estremisti così determinati, vuol dire che sto facendo un ottimo lavoro. Fortunatamente con le dovute precauzioni non è mai successo nulla di grave».
Hai in progetto di portare la tua missione anti-odio in altre città italiane?
«Cancellare i messaggi d’odio dai muri delle città per me è volontariato, un’attività che faccio estremamente volentieri, ma che porta via moltissimo tempo e risorse. Non solo per fare l’opera, ma per presidiarla, per tornare a sistemare se viene deturpata e difendermi da eventuali attacchi (politici e non). È chiaramente un’attività che non posso fare ovunque, riesco a farlo nella mia città e nelle aree limitrofe proprio perché ci vivo e posso essere tempestivo.
Viaggio molto per lavoro, ma principalmente per progetti più strutturati, difficilmente mi muovo solo per coprire una scritta d’odio. Cerco sempre di invitare chi mi contatta a coinvolgere gli artisti locali per promuovere un senso civico a km zero».
In un’intervista rilasciata nel 2019 lamentavi lo scarso interessamento dei tuoi colleghi per l’arte “pubblica”. In questi tre anni qualcosa è cambiato? Ci sono stati altri artisti che hanno seguito il tuo esempio e accolto il tuo appello?
«Tempo fa, mi ha contattato un ragazzo su Roma dicendomi che l’avevo ispirato e ha iniziato anche lui a coprire scritte d’odio. Ha cercato di riprendere il mio stile e si firma “Food”, lo considero un complimento. Tutti abbiamo iniziato prendendo spunto da qualcuno e sono certo che col tempo troverà il suo stile!
Tanti altri mi mandano foto dei loro interventi di riqualificazione, ma mi chiedono sempre di restare anonimi… anche non artisti che magari coprono con cuori o semplicemente cancellano. Sono sempre molto felice quando ricevo messaggi così!».
I tuoi murales sono contraddistinti da una buona dose di umorismo… ma concedimi una curiosità: l’ironia è proprio una dote caratteriale di Pier Paolo Spinazzè o è piuttosto un ingrediente dell’espressione artistica di CIBO?
«Questo è quello che le persone fanno più fatica a capire: CIBO è una firma, un’espressione artistica che ha un suo linguaggio e un suo stile ed è ironico per statuto. La sua missione si basa sull’ironia, la cultura e il bello.
Pier Paolo è una persona normale con il suo carattere, pregi e difetti. Sono sempre io, ma paragonare Pier a CIBO è come descrivere un musicista con il genere di musica che fa. Come un musicista può passare da suonare punk al jazz con la stessa leggerezza a seconda della band con cui suona, io ho diverse firme e ognuna ha le sue caratteristiche. Tutte prendono qualcosa da Pier, ma ognuna è espressione artistica di se stessa».
Giunti al termine dell’intervista, permettimi una domanda più “licenziosa”: CIBO, qual è il tuo cibo preferito?
«Io mangio tutto, non ho un piatto preferito. Da buon italiano amo la pizza e la pasta, ma mi piace provare gusti e sapori nuovi. Sono estremamente curioso, perché per me alla fine assaggiare è ricerca e sviluppo!».
In un periodo così tetro come quello che stiamo attraversando, CIBO è un vessillo di libertà e coraggio. Quando tentano di “ammutolirlo” rovinando i suoi murales, CIBO torna sul posto e aggiunge nuovi dettagli, in un incessante lavoro di metamorfosi del brutto in bello.