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ZEHRA DOĞAN - Prigione N. 5 e altri materiali

"Non capisco perché veniamo gettati in prigione. Ma ne usciamo ancora più forti"


Il 1° aprile 2021 è uscito "Prigione N. 5", il libro di Zehra Doğan per Becco Giallo Editore, casa editrice impegnata nella pubblicazione di fumetto civile, graphic novel e graphic journalism.

Il volume raccoglie i lavori realizzati durante la prigionia dell’artista e alcune delle lettere destinate all’amica Naz Oke, la sola a cui le era concesso scrivere, e sul retro delle quali sono stati realizzati molti dei lavori contenuti nel libro. L’iconico titolo del libro fa riferimento al tristemente noto carcere di Diyarbakır in cui vengono rinchiusi i prigionieri politici curdi.

L’arte di Zehra Doğan ( (Diyarbakır, 14 aprile 1989, curda con nazionalità turca) raccolta in "Prigione N. 5" è un’arte di resistenza, dall’uso dei materiali come capelli, sangue mestruale, vestiti, lenzuola, giornali, terra, avanzi di cibo… alle tecniche per far uscire i lavori dalla prigione, avvolti al corpo e consegnati segretamente ai parenti in visita. Le resistenza è anche nelle parole dell’artista: "Non capisco perché veniamo gettati in prigione. Ma ne usciamo ancora più forti".



Fondatrice dell’agenzia giornalistica femminista curda “Jinha”, Zehra Doğan è una giovane giornalista e artista nota in tutto il mondo per il suo attivismo femminista e per il coraggioso lavoro di informazione e denuncia sul regime oppressivo turco.

La pittrice fu accusata, ed incarcerata per oltre due anni, perché avrebbe raffigurato la distruzione causata dalle armate turche nel distretto di Nusaybin, nella provincia di Mardin. Più precisamente, la Doğan avrebbe dipinto le bandiere turche sulle macerie degli edifici distrutti. 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di carcere per "propaganda terroristica" a causa delle notizie pubblicate e dei post sui social media tra cui anche il suo dipinto in cui raffigura la distruzione di Nusaybin.


"Nella primavera del 2016 la polizia turca aveva messo sotto assedio la città, durante lo scontro con le unità curde; all’inizio di maggio una pioggia di bombe al fosforo, vietate dai protocolli internazionali, colpiva anche i civili. Ho ricevuto una condanna di 2 anni e 10 mesi solo perché ho dipinto bandiere turche su edifici distrutti”, si è difesa la giornalista su Twitter, “ma è stato il governo a causare tutto ciò. Io l’ho solo dipinto”. Per il governo turco quell’immagine, affidata al grande megafono della Rete, altro non era che un atto di propaganda a favore di un’organizzazione considerata illegale e associata al terrorismo".

Dopo aver terminato la condanna, è stata rilasciata dalla prigione di Tarso il 24 febbraio 2019.

Nel novembre 2017 un artista cinese dissidente, Ai Weiwei, ha pubblicato una lettera in cui esprimeva solidarietà nei riguardi della giornalista-artista incarcerata, facendo un parallelo tra la Cina e la Turchia nella repressione delle espressioni artistiche. Zehra Doğan ha risposto dalla prigione: "L'arte è il miglior strumento per la lotta".

L'artista di strada Banksy ha espresso più volte solidarietà nei confronti di Doğan dedicandole anche un murale a New York.
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Estratti di lettere dalla prigione • Zehra Doğan

“È difficile descrivere la nostalgia che si può provare per un fiore” (Prima lettera dal carcere di Zehra Doğan a Naz Öke) - 21 luglio 2017, venerdì ore 23.45
“Mia cara, mia preziosa compagna,
Ho voluto scriverti prima di dormire. (…)
(…) E ora, in questa notte, una di quelle notti calde e soffocanti di Diyarbakır, distesa sul materasso che ho srotolato a terra, ti scrivo queste righe. Ho considerato la prigione una eventualità. Per questo non sono crollata quando mi hanno arrestata. (…)
Purtroppo non mi danno i materiali per disegnare. Sto pensando come fare in alternativa. Per adesso, ho iniziato a scrivere racconti. Non permetto che nessuna giornata passi senza che io abbia fatto qualcosa. È anche per questo che non mi sono fatta prendere dalla disperazione.
Le mie amiche di cella sono belle persone. Siamo 28, dai 18 ai 50 anni. E abbiamo anche un bambino di due anni, che si chiama Robin. Noi lo chiamiamo ‘il piccolo Enki’1, come se lui portasse la nostra rabbia antica di 5000 anni. Questo bimbo è adorabile. Sua madre è stata condannata a 15 anni.
Abbiamo con noi anche una donna condannata all’ergastolo. Si chiama Sodzar. Ha 40 anni ed é in prigione da 22. Vivendo con lei, capisco meglio che la vita non si riduce tutta a me.
Ci sono anche altre madri. Ognuna di loro ha affidato i propri figli alle proprie famiglie fuori dal carcere. Ma la loro anima non smette mai di pensare a loro. Ci sono contadine, abitanti del Sur2, studentesse, sindache… tutto quello che puoi immaginare, qui c’è! Ci hanno messo tutte in questa gabbia.
Ma malgrado tutto, conserviamo alto il morale. Viviamo tutte insieme una vita in comune. Tutto quello che possediamo è in comune. E questo è quello che ci dà la forza.
Il carcere è soffocante. Sembra costruito tenendo conto della psicologia umana. (…) Di verde non c’è che l’infermeria. E niente che abbia un legame con un fiore o una pianta, niente in tutta la prigione. (…) Gli anni passano qui, nella nostalgia di un solo fiore. È difficile descrivere la nostalgia che si può provare per un fiore…”


“Finalmente ho una stella.” - 5 ottobre 2017
(…) Ho ricevuto le tue lettere oggi. Le tue frasi affettuose e cariche di amore mi hanno ancora riscaldato il cuore. Ti conosco e ti sento vicina. Come sono fortunata. La sorpresa che è uscita dalla busta mi ha riempita di gioia. Che bella idea hai avuto! Adesso ho una stella! Sai, solo ieri ho finalmente avuto un letto. Ho preso la parte sotto di un letto a castello. Ho subito incollato la stella sotto il letto superiore. Così adesso ho un cielo! …


7 ottobre 2017
Questi giorni mi addormento guardando la tua stella. Questo mi porta una incredibile serenità. Che bella idea hai avuto. Passerò con questa stella di plastica due anni. Vivrò con una stella artificiale fino al 24 febbraio 2019, come fosse un vero cielo. Convincersene è una cosa ma esserne condannata, o meglio punita, mi sembra assurdo…


“Queste terre…” - 12 ottobre 2017
(…) Queste terre si impregnano sempre più di sangue. Ma come una spugna non può assorbire più acqua del proprio volume, come le terre non possono sopportare più pioggia che la propria capacità permette loro. Così queste terre non hanno più forza di assorbire altro sangue. (…)
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“Come raccontarvi questa prigione, queste mura popolate di storia dove mi sento così piccola?”
"Il confinamento, l’isolamento hanno il preciso obiettivo di farti sentire come se fossi ormai morto. Qualcosa perciò ti impone l’azione, anche se sai che ciò che stai facendo verrà intercettato, esaminato, molto probabilmente distrutto. Quello che ho capito in prigione è che anche se l’oggetto finale è effimero, perfino se viene distrutto, ciò che conta è il processo con cui è creato, che è salvifico”.

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