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"L'oppio del popolo" di Goffredo Fofi (una recensione)

La cultura attuale evoca distrazione, imbonimento, acquiescenza, l’illusione di una qualche rilevanza personale ad uso e consumo del nostro narcisismo

Quando Karl Marx formula quella famosa definizione della religione non vuol fare l’anticristo, intende piuttosto denunciare una condizione di oppressione del popolo di cui la religione sarebbe il farmaco, inventato dall’uomo per lenire il proprio stato di infelicità: il grido di Marx contro la religione è per riportare la lotta in vista di quella felicità nel mondo reale, non nell’Aldilà.

 

Da allora però il mondo è cambiato parecchio, il capitale ha certamente vinto e ha incorporato l’illusione di felicità nel qui ed ora, cioè nel consumo, nell’abbondanza di merci che regalano a chi ha i mezzi la fantasia del Paradiso in Terra. E, per dirla con Luciano Gallino citato nel testo di Fofi, oggi gli unici rimasti a fare la lotta di classe sono i ricchi, contro i poveri.

 

 

 

Goffredo Fofi, nato nel ’37 e cresciuto fra i contadini umbri, da instancabile critico culturale, giornalista, direttore di riviste, agitatore di gruppi resistenti sparsi per l’Italia ha assistito alla grande mutazione di questo Paese: ha visto una civiltà agraria diventare prima industriale e poi terziaria, fino a illudere oggi i suoi giovani che si possa tutti vivere di arte; ha partecipato a lotte e movimenti delle minoranze oppresse, poi sconfitte o “recuperate” dal potere nelle loro istanze più vitali; ha visto gli intellettuali passare da guide spirituali a personaggi televisivi; ha conosciuto una scuola e una cultura capaci di riscattare un’intera popolazione prima di cadere nel declino attuale.

 

 

 

Oggi – questa è la tesi di Fofi – l’oppio del popolo è proprio la cultura. A mortificare Fofi, testimone della resa, è l’aver visto un prima e un dopo, l’aver conosciuto in tanti campi una stagione in cui era la cultura a guidare l’azione, a rivelare l’ideologia del presente, a criticare l’esistente per dire che un altro mondo era possibile. Mentre la cultura attuale gli evoca distrazione, imbonimento, acquiescenza, l’illusione di una qualche rilevanza personale ad uso e consumo del nostro narcisismo.

 

 

 

L’idea che la cultura sia al soldo del potere è ben nota, i regimi si sono sempre serviti dei mezzi di comunicazione e hanno sempre presidiato la lingua, il fatto che ci sia una “industria culturale” era la tesi della Scuola di Francoforte, che Fofi ricorda, ossia la constatazione che esista una fabbrica del consenso affidata proprio alla cultura, perché asservita agli interessi del capitale.

 

 

 

Com’è possibile che gli italiani votino e seguano chi mente loro ogni giorno come gli attuali governanti e i precedenti, che i giovani non si ribellino ad un mondo che li illude e li esclude, che ad ingiustizie e disuguaglianze crescenti non seguano reazioni direttamente proporzionali, che si cada tutti insieme nel fantasma dell’invasore, ecc.?

 

La cultura fa da filtro: giornali, serie televisive, discorsi pubblici, romanzi, libri di testo ecc. deformano, manipolano o distraggono rispetto al dato di realtà, ci rendono accettabile, normale o desiderabile ciò che dovrebbe suscitare vergogna o senso di colpa.

 

 

 

 

 

Fofi usa proprio questi due termini quasi scomparsi, e viene da pensare a quanto denunciato dalla psicanalisi più accorta – Simona Argentieri, ad esempio – sul declino del super-io, cioè di uno sfondo morale integratore con cui fare i conti, di una coscienza che dovrebbe vigilare sulla linearità fra quanto si pensa, si dice, si fa. È come se nel discorso pubblico e in quello privato fosse saltata la valvola: il premier o il vice premier si smentiscono il giorno dopo e il libero cittadino addita i ladri ma evade il fisco, se si fa appello alla coerenza per chiedere conto dei discorsi si agisce nel vuoto, non c’è presa, non c’è leva.

 

 

 

Il fatto è che la cultura siamo noi, Fofi fa i conti e mostra quanti addetti abbia oggi quel settore dell’economia: se si mettono insieme insegnanti di scuola e università, giornalisti e addetti alla comunicazione, pubblicitari e scrittori, mondo della televisione e mondo del cinema, artisti e aspiranti tali… ci si rende conto che si tratta di milioni di persone.

 

 

 

Proprio perché la cultura è parte del capitale ed è la nostra datrice di lavoro, siamo tutti ricattabili, “teniamo famiglia” dice Fofi, quindi asserviamo un’ideologia di volta in volta della paura o della distrazione, della retorica patriottica o della salvaguardia individualista, della colpevolizzazione dell’altro e dell’autoassoluzione personale.

 

È il vecchio tema degli “stupidi” – Fofi ricorda la critica di Bonhoeffer al popolo nazista – ma nella sua lettura c’è un dato nuovo rispetto alla denuncia del legame fra potere e cultura: non si tratta di smascherare un potere di pochi che confeziona messaggi manipolatori e li irradia via radio, come polpette avvelenate, perché siamo noi a confezionarli, anzi quasi a volerli.

 

 

 

Lo “scandalo” di Fofi non è contro il governo ma per quanto noi stessi facciamo e accettiamo, e basterebbe guardare l’orientamento di voto dei poveri verso i tiranni di oggi – gli “uomini forti”, i super ricchi, gli imprenditori disposti a tutto – per rendersi conto di una trasformazione che lui sottolinea, l’incapacità di riconoscere il nemico di classe.

 

Siamo stati prima l’audience che ha fatto la fortuna del premier televisivo, oggi siamo i navigatori del vicepremier dei social, insomma il capitale violerà la nostra privacy e spierà i nostri dati ma siamo noi a entrarci.

 

 

 

Mentre la terra è al collasso e alcuni popoli sono costretti alla migrazione di massa noi dibattiamo in tv, frequentiamo un’infinità di festival culturali – sconcerta il connubio italiano del record mondiale di festival e ultimo posto nelle graduatorie internazionali di competenze di alfabetizzazione nel mondo adulto – ci agitiamo in rete, seguiamo le conferenze del guru del momento, e così via, perché le attività culturali hanno il vanto di essere “buone” a priori, ci rassicurano e ci consolano, anziché destare in noi una reattività al presente, l’urgenza di rompere le ingiustizie, dare voce a chi non ce l’ha, denunciare il falso, prendere le difese dei deboli, ricreare legami sociali e comunitari.

 

 

 

Fofi è come sempre molto polemico, il libro appare come una collezione di appunti di questi anni relativi a diversi ambiti del lavoro culturale, ma va detto che da maestro nel fare riviste – oggi con “gli asini”, ieri con “lo straniero”, “linea d’ombra”, “la terra vista dalla luna”, “i quaderni piacentini”,… – il suo compito “costruttivo” l’ha sempre svolto egregiamente, cioè trovare e pubblicare chi aveva qualcosa da dire, nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nel fumetto, ecc.

 

 

 

Il libro ricorda i nomi che si salvano dal conformismo culturale, nomi di oggi e maestri di ieri, accomunati da una sorta di non accettazione del presente, dal non aver paura per essere solo una minoranza, da un’urgenza insieme di dire e di fare. Insomma la condanna non è per tutto e per tutti, è piuttosto la necessità di smontare il mito della cultura come bene assoluto: non dimentichiamoci che i gerarchi nazisti erano molto colti e Fofi a ragione ricorda analfabeti e contadini come alcune delle persone più sagge che lui abbia incontrato.

 

 

 

È un’allerta a vagliare con molta attenzione l’infinità di messaggi e di prodotti culturali che ci circondano, diffidando di tutto ciò che suona celebrativo, consolatorio, acquiescente, distraente: di questi tempi forse è l’inquietudine quello che dovrebbe regalarci una cultura non narcotizzante.

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