Sirene e altiforni
Intervista a Valeria Cademartori, artista
Sirene adagiate malinconicamente su superfici di materia asettica, dinosauri di archeologia industriale, dettagli ingigantiti di volti che si ribellano alla disumanizzazione, vortici monocromatici che prendono forma e tridimensionalità. Da questi elementi visivi si sviluppa il discorso artistico di Valeria Cademartori. Presente alla biennale di Venezia nel 2011, questa pittrice italiana ha vissuto tra Roma e Berlino realizzando opere nelle quali spesso vengono affrontati temi profondamente politici.
– Le tue opere non mi ricordano per niente Quarto stato di Pellizza da Volpedo, tuttavia mi sembrano permeate da spunti profondamente politici. Attraverso quale percorso il tema della guerra è finito nei quadri della tua ultima mostra “La musica di Aleppo”?
Dipingere per me è fondamentalmente dare forma a uno stato d’animo. La sfera politica ha una dimensione pensata, razionale, discorsiva, ma l’arte è legata molto al sentire. Questa mostra nasce quindi da uno stato d’animo, nero evidentemente, non a caso le opere sono nere, o meglio giocano sul rapporto bianco/nero.
Solo dopo averle realizzate mi è venuta in mente L’opera al nero, di Marguerite Yourcenar, in cui si parla della nigredo, che è la fase alchemica della spoliazione della forma, ma anche della purificazione della materia. In effetti nella sequenza di questi quadri avviene proprio una spoliazione della forma e della materia, attraverso l’uso del colore a olio e di materiali quali sabbia, carta e plastica.
– A cosa attribuisci il tuo stato d’animo nero?
È un sentimento pesante che ho cominciato a provare nel 1991 quando il presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush e la Nato decisero di bombardare l’Iraq. Per me che ero bambina ai tempi della guerra del Vietnam e del colpo di stato in Cile, fu il primo massacro vissuto in diretta televisiva. Non mi sarei mai aspettata che l’Europa, dopo la Seconda guerra mondiale e il ripudio della guerra come risoluzione delle relazioni internazionali, si potesse allineare così piattamente a quella aggressione militare. A fare le spese di tale crimine fu soprattutto la popolazione civile. Da allora la guerra non ha più avuto fine: l’11 settembre ha giustificato altri terribili conflitti che hanno alimentato esponenzialmente il terrorismo jihadista (il Califfo non a caso si radicalizza nelle prigioni irachene); sono seguiti nuovi bombardamenti sui civili, le torture di Abu Ghraib e di Guantanamo, intere popolazioni sono state ridotte a masse di profughi. Con questo mi spiego anche il perché del soffocamento reazionario delle primavere arabe che in Siria ha segnato l’inizio di una nuova guerra, in cui ultimamente, agendo al di fuori di ogni diritto internazionale, è entrata in gioco anche la Turchia con l’invasione del Kurdistan siriano.
Dunque è una guerra infinita e mondiale, di cui abbiamo grandi responsabilità, ma di cui non ci importa niente, se non quando arrivano gli attentati in casa nostra oppure quando ci preoccupiamo di tenere lontani i profughi dalle frontiere europee. In questo scenario mi ha colpito molto l’immagine del pianista siriano-palestinese Aeham Ahmad che irrompe tra le macerie con il suo pianoforte opponendo alla distruzione il linguaggio universale e unificante della musica. L’arte non può fermare la guerra, ma può ricordare alle nostre coscienze che esiste qualcosa che ci unisce di più alto, di più prezioso degli interessi geopolitici e economici, del petrolio e della sopraffazione.
– Uno dei quadri della tua ultima mostra, il più grande, raffigura una sirena adagiata su quello che a me è parso il tavolo di un obitorio. Come è nata l’idea di quest’opera?
Non so bene. Dopo averlo fatto mi è venuta in mente un’immagine che risale al 2001. Ero a Genova con decine di migliaia di altre persone venute da tutto il mondo. Portavamo istanze di pace, ma ci siamo ritrovati in un assetto di guerra, con tanto di carri armati, cecchini ed elicotteri. Dopo il primo giorno in cui fu ucciso Carlo Giuliani e migliaia di persone sono state picchiate, asfissiate con i gas Cs e arrestate senza motivo, mi chiusi in una scuola vuota. Avevo un mal di testa fortissimo, mi sono distesa su un banco e ho cercato di distaccarmi da quello che mi succedeva intorno. Forse quel quadro ha un po’ a che vedere con tutto questo. È stata la situazione di guerra più vicina che ho vissuto.
– Passiamo dal “nero” al “rosso”. Ricorrono i 200 anni dalla nascita di Karl Marx e tu hai realizzato, prima su tela e poi su plexiglass, un dipinto alto tre metri del filosofo tedesco. Che sentimenti ti ha suscitato misurarti con un soggetto così impegnativo e forse anche a rischio di apologia?
È una commissione che mi ha entusiasmata. La mia prima preoccupazione è stata proprio di individuare un’immagine che non fosse austera. Mi sono concentrata su una cromaticità in cui prevalesse il rosso e ho scelto di accompagnare l’opera con una frase che racchiudesse l’essenza dell’aspirazione libertaria del comunismo, di contro a tutte le aberrazioni occorse nel secolo scorso: “Da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni.”
È stato un lavoro commissionato dalla Cgil che ringrazio molto. Il sindacato possiede un ampio fondo di opere artistiche curato da Patrizia Lazoi. Si spazia dai quadri di Renato Guttuso a quelli di Ennio Calabria fino a molti lavori di autori contemporanei. Sono stata molto felice di aver avuto l’opportunità di misurarmi con Marx e alla Cgil abbiamo scherzato sul fatto che fossimo nati nello stesso giorno.
– Parliamo di alcuni tuoi lavori passati, mi riferisco a “Impronte” del 2003 e a “Dismissioni” del 2007.
Il primo nacque quando si iniziarono a prendere le impronte digitali ai migranti che sbarcavano sulle coste europee. In quel caso realizzai un ciclo di grandi quadri che ritraevano volti di migranti ingigantendo alcuni particolari. Usai provocatoriamente il titolo “Impronte” per focalizzare l’attenzione sul vissuto di queste persone, prima che le politiche securitarie le riducessero a numeri indistinti e deprivati di soggettività. Si tratta di opere ancora una volta quasi monocromatiche. Mi piace che la pittura sia materica, colore che prende forma. Questo è un elemento che in fondo la differenzia dalla fotografia, anche se le due forme espressive hanno cose in comune, come il rapporto luce/ombra, i volumi e i vuoti.
– Con “Dismissioni” hai affrontato un altro tema di grande attualità politica, quella della fine della società fordista. Quale è stata l’ispirazione iniziale in quel caso?
Tutto è partito da un cortometraggio di Ugo Capolupo, L’ultimo rimasto in piedi (2001), che traeva spunto dal romanzo di Ermanno Rea La dismissione. In questa pellicola si racconta la storia di un ex dipendente dell’Italsider di Bagnoli che raccoglie pezzi delle strutture metalliche in dismissione come gesto di opposizione alla cancellazione della memoria e dell’immaginario della comunità operaia. Il regista voleva realizzare un lungometraggio in cui vari artisti visitassero quei luoghi e ne traessero spunti di lavoro. Mi fu chiesto se volessi partecipare e accettai. Passai interi pomeriggi in quell’area di Bagnoli: rimasi colpita dall’ultimo altoforno sopravvissuto, arrugginito e bellissimo. Ormai non era più in funzione, non emetteva più fumi maleodoranti, sembrava la scultura di un dinosauro in una baia piena di sole. Realizzai degli schizzi, delle foto e poi in studio feci una serie di dipinti, ingigantendo i dettagli di quella fabbrica che è stata smantellata e venduta pezzo per pezzo ai cinesi.
di Luca Cangianti, su carmillaonline.com, 28 marzo 2018
Nessuno può chiamarsi fuori
di Valeria Cademartori
Ringrazio la redazione di Comune per citare spesso il mio lavoro con il quale cerco come posso di contrastare l’ondata razzista che invade il nostro paese e non solo. Un razzismo sia palese (quello per esempio di chi ha preso la pistola e ucciso a caso degli africani, perché di pelle nera e “invasori della razza bianca”), sia quello strisciante che nega di essere tale, ma che prende forza da una propaganda falsa e ipocrita di quanti diffondono odio contro “gli stranieri invasori”, che guarda caso sono sempre africani o migranti dei paesi del sud o dell’est, ritenuti dei poveri straccioni analfabeti che portano solo danno e criminalità.
Vorrei dire in particolare al Pd, alle piazze dell’arcipelago delle sardine di questi giorni, a tutti noi senza più rappresentanza forte, che se non contrastiamo concretamente questa lettura falsa non riusciremo mai a uscirne.
Non basta dire “no all’odio, no al razzismo”.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa avere il coraggio di fare una politica di giustizia sociale, non più parlare solo di “aiuto umanitario”.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa quindi andare con forza e determinazione contro le politiche europee sull’immigrazione, che con le frontiere chiuse e la negazione dei visti creano i presupposti di un’immigrazione senza tutele, senza diritti, creano i presupposti per i lager libici, per la tratta delle persone, per le migliaia di morti affogati. Creano i presupposti per un immigrazione “gestita” con la detenzione in massa nei centri dei paesi europei, con la conseguente creazione di ghetti disumani, e lo sfruttamento del lavoro al nero.
A queste condizioni è fin troppo facile dare adito a quanti rifiutano “gli stranieri” di poter dire che sono degli straccioni, che creano disordine e danni nei “nostri paesi” e che vanno ricacciati indietro. Di questo si alimenta il neofascismo, che poi tira fuori di nuovo l'”orgoglio” del suo passato antisemita e tutto il resto.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa abolire i Decreti sicurezza di Salvini subito, nonché le leggi Bossi-Fini, poiché quelli si che creano insicurezza. Significa abolire gli accordi con i libici, i turchi, i croati, subito, perché quelli sono la causa dei lager e dell’ammasso inumano alle frontiere. Aprire quindi la politica dei visti e le frontiere europee, i canali legali, perché così si che si evita il “disordine”, i traumi psicologici, i morti in mare. “Nessuno può chiamarsi fuori” significa attuare politiche del lavoro per tutti, autoctoni e non, politiche di inserimento e non di assistenzialismo senza alcuna visione futura. Significa attuare lo “ius soli” e lo “ius culturae” subito, perché è anche questo che divide le nostre società in “noi” e “loro”.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa contrastare l’industria bellica che vende armi a paesi dittatoriali, contrastare gli affari delle multinazionali che depredano le risorse dei paesi del sud del mondo, lasciando rifiuti, sfruttamento e povertà. “Nessuno può chiamarsi fuori” significa lottare contro le disuguaglianze del mondo create da un sistema neoliberale selvaggio in mano a pochi magnati della finanza e lavorare per una redistribuzione mondiale delle ricchezze, e per una eliminazione dei consumi esosi e superflui che distruggono ambiente, clima e popolazioni.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa avere una visione globale del mondo, in cui non possono esistere particolarismi, sovranismi, steccati, muri, perché siamo tutti interdipendenti. Ciò che accade apparentemente lontano da “noi” in realtà ha dirette conseguenze per “noi”, e viceversa le “nostre” politiche hanno diretta conseguenza negli altri paesi. Il mondo è interconnesso, le persone lo sono e bisogna cominciare a “chiamarsi fuori” da chi divide il mondo in “noi” e “loro”, per sfruttare, per cacciare via, per creare piccole “oasi di benessere” per pochissimi, per fare i propri miopi profitti e fregarsene degli altri.
Nessuno di noi può chiamarsi fuori, può solo “agire dentro”, per riuscire a fermare tra le altre cose questa orribile modalità di creare il “nemico” attraverso capri espiatori che non c’entrano niente.