I corpi dei poveri nella pittura eretica di Masaccio
Nel ciclo di affreschi della Cappella Brancacci si trovano i volti degli ultimi di Firenze del tempo. Un messaggio ai ricchi e ai potenti di oggi.
di Tomaso Montanari —
1 Gennaio 2023
Gli artisti sono eretici per definizione: quanto più sono grandi, tanto più sono eretici.
E siccome a furia di dire che Firenze è la culla del Rinascimento per svenderla meglio ai ricchi di tutto il mondo (quasi che l’arte sia appunto un balocco per sceicchi e potenti) torniamo allora a dare un’occhiata al nostro Masaccio.
Questo gigante, questo “Giotto reborn”, come diceva lo storico dell’arte Bernard Berenson, fu capace di rovesciare le sorti della pittura occidentale nel corso di una vita che non arrivò a durare 27 anni. Masaccio riuscì a far scorrere nei suoi colori il vivo e il naturale, diceva Giorgio Vasari. In nessun luogo questo è vero come sulle pareti della Cappella Brancacci della chiesa del Carmine, nel cuore dell’Oltrarno, a Firenze.
Michelangelo veniva qui a studiare, come uno scolaretto. Un’opera perfetta, disse Leonardo da Vinci.
Qui davvero la storia sacra si fa carne sotto i nostri occhi, diventa vicina agli uomini, si fa prossima come mai era accaduto nella pittura di nessun altro, nemmeno in quella di Giotto stesso. È una storia di corpi: vivi, interi (non fatti a pezzi dal potere, quello è il Rinascimento saudita). Masaccio rompe con tutta la pittura gotica. Volta pagina. Nella Cappella Brancacci entra tutta Firenze: lo spazio reale, abitabile, in cui i corpi hanno peso, spessore, gettano ombra. La città sale sugli altari: solo Caravaggio, poi, ne sarà capace.
Se lo spazio è quello riscoperto da Brunelleschi, si deve invece all’esempio di Donato, di Donatello, la credibilità degli umani. Il loro carattere, il rapporto psicologico che li lega e li fa vivi, più vivi dei vivi, più vivi di noi che li guardiamo.
Ma la scelta di Masaccio, e solo sua, è quella di usare quello spazio e quello spirito nuovo per innalzare sui muri di una chiesa la carne della vita più umile e quotidiana. Nei riquadri della Cappella Brancacci, san Pietro e gli apostoli si muovono, predicano, fanno miracoli nelle strade d’Oltrarno che circondano il Carmine e nella stessa piazza di fronte alla basilica.
Sono quelle le case, semplicemente imbiancate di calce, quelli i volti, quelli i poveri cristi a cui veniva distribuito il pane dai fornai della confraternita di Sant’Agnese, che proprio al Carmine aveva sede. È la carne di Firenze, glorificata per sempre in uno dei pochi angoli in cui ancora oggi si può sentire palpitare una carne viva e vera. Non per caso, poco tempo fa, al giardino Nidiaci (che si trova nello stesso grande isolato del Carmine) i cittadini hanno appeso proprio una riproduzione della Brancacci, ritenendola una perfetta rappresentazione di una comunità che si organizzava da sé e affrontava i propri bisogni in solidarietà, seicento anni fa come oggi. E non è una forzatura storica.
Commentando due scene della Brancacci (quella in cui San Pietro risana i poveri con la sua ombra e la distribuzione delle elemosine) si è scritto che: “al protagonismo dei miserabili, notando come, al livello sommo dei pezzenti, le cui teste frementi di dignità dolente nessun altro pittore del Quattrocento saprà mai eguagliare, non corrisponde la tenuta del gruppo dei santi”.
Era successo che, dopo la partenza di Masolino per l’Ungheria, Masaccio aveva assunto qualche aiutante, inevitabilmente non al suo livello (che era sommo).
E, contro l’ovvia gerarchia, aveva affidato a queste anonime mani le figure di san Pietro e degli apostoli, riservando alle sue mani perfette le figure degli imperfetti, degli storpi, dei malati, dei disgraziati, dei corpi sconfitti. Più eretico di così.
TOMASO MAONTANARI
è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
da:altreconomia.it - 1 gen. 2023