Le donne e la lotta di Liberazione dal fascismo (+video)
La scelta di entrare nelle fila della Resistenza per molte donne è anche un modo di portare avanti radicalmente quel percorso di emancipazione che la guerra aveva innescato
(...) Ad entrare nella Resistenza sono sia donne che avevano partecipato agli scioperi del ‘43, sia donne che nei confusi giorni dopo l’armistizio avevano cercato di aiutare, in diversi modi, prigionieri alleati, italiani presi dai tedeschi, ebrei e detenuti politici. Ci sono antifasciste di lungo corso e giovanissime che con le proprie scelte intendono spezzare ogni legame con l’educazione patriarcale imposta dal fascismo.
Va ricordato a questo proposito che negli anni del regime la donna era considerata una semplice incubatrice dei figli della patria; la sua stessa esistenza si regolava intorno all’accudimento dell’uomo e della prole. Nulla più che la custode della casa, essa rimaneva a vita imprigionata nel vestito sociale di madre e moglie che le veniva cucito addosso. Un abito che molte cercavano di rifiutare con scarso successo, visti i pregiudizi e le disposizioni legislative in materia di diritto familiare.
Allo scoppio della guerra le donne, con padri, figli e mariti richiamati al fronte, si fanno carico della gestione familiare ed entrano in alcuni settori di lavoro dai quali fino ad allora erano espulse. Fu in questa veste che esse si resero protagoniste dei primi atti di Resistenza al sempre più vacillante potere fascista, fino alle clamorose manifestazioni del luglio ‘43. Ma lungi dal terminare con l’armistizio, le attività di piazza delle donne proseguirono anche durante il biennio ‘43-’45. L’ostilità nei confronti degli occupanti e dei collaborazionisti si manifestò, oltre che con l’attività partigiana, anche tramite le proteste per i viveri, contro le deportazioni, per l'annullamento di provvedimenti ingiusti.
Insomma, la scelta di entrare nelle fila della Resistenza per molte donne è anche un modo di portare avanti radicalmente quel percorso di emancipazione che la guerra aveva innescato. Talvolta questo avviene in sintonia con il resto della propria famiglia, talvolta in opposizione ad essa. La decisione di prendere parte alla guerra partigiana comporta in molte occasioni anche la necessità del trasferimento, della clandestinità, dell’abbandono dei propri cari, compresi i figli. Scelte dolorose ma vissute con grande coraggio.
La donna partigiana, al di là dei luoghi comuni che la vedono impegnata semplicemente come staffetta, ricopre ogni ruolo possibile all’interno del mondo resistenziale: dalla combattente alla spia, dalla basista al commissario politico, dalla reperitrice di viveri alla dattilografa, dalla reclutatrice all’elemento di congiunzione tra i comandi e i distaccamenti.
(...) Oltre la guerra contro il nemico le donne partigiane combattono all’interno delle proprie formazioni per vedersi riconosciuta quella parità sul campo che sovente viene loro negata. Anche sul fronte resistenziale infatti riemergono alcune posizioni conservatrici sul ruolo delle donne (riportate anche da parte della stampa femminile legata alla Resistenza) e dei giudizi sommari sulla moralità delle resistenti.
(...) Dalle 40.000 alle 70.000 furono le aderenti ai Gruppi di difesa della donna, organizzazione promossa dai partiti antifascisti e inquadrata dal Comitato di Liberazione Alta Italia, nata con lo scopo di assistere la lotta partigiana e le famiglie dei ribelli. 35.000 furono le combattenti, 20.000 le “patriote” ( qualifica con cui si identificò a fine guerra chi aveva prestato un'attiva collaborazione alla Resistenza); 2.750 di loro vennero uccise dai nazifascisti, 3.000 deportate, 4.500 arrestate o torturate.
Numeri ufficiali che andrebbero sicuramente rivisti al rialzo poiché nel dopoguerra le qualifiche vennero perlopiù riconosciute sulla base di criteri strettamente partitici e militari, e molte donne non fecero richiesta per l’assegnazione di determinati titoli.
Le poche donne alle quali effettivamente fu riconosciuto l’onore di una decorazione furono messe al centro di una retorica che ne esaltava i cosiddetti “comportamenti maschili”.
Così, come già sottolineato per i continui rimandi ad un cieco patriottismo attribuito ai partigiani caduti, nelle commemorazioni delle donne combattenti si arriva ad esaltare la “virtù delle donne italiane” e il “virile coraggio”, segni inconfutabili dello sciovinismo e del maschilismo da cui erano afflitti i decoratori del dopoguerra.
Il mancato riconoscimento del contributo femminile si consuma anche sul piano visivo attraverso la loro esclusione o marginalizzazione nelle sfilate della Liberazione, nonché nella ridefinizione in senso limitativo della loro posizione (alle staffette, come ha raccontato Elsa Oliva, si metteva al braccio la fascia da infermiera); è il primo segnale di un profondo arretramento sul piano dei diritti e del ruolo sociale conquistato in guerra.
Se si esclude il diritto di voto (fatto non da poco ma sbocco minimo di una processo di lungo corso) e la partecipazione di poche donne alla vita istituzionale, molte delle aspettative delle partigiane saranno tradite. Tantissime donne comunque continueranno in varie forme e dentro vari soggetti politici, sindacali, associativi a mobilitarsi, non accettando passivamente di rientrare nei ranghi e tenendo viva la fiamma che avevano fatto bruciare nel corso della Resistenza.
In "Partigiani Contro - la Resistenza oltre la narrazione istituzionale", a cura di Cannibali e Re, 2021.
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