
LORENZO GUADAGNUCCI. Il fallimento dei luoghi della memoria

"..è difficile, impossibile, ricordare i morti di allora mentre, poco lontano da noi, su un’altra sponda del Mediterraneo, nella Striscia di Gaza, altre stragi, per mesi e mesi, vengono commesse anche in nostro nome..."
Una conversazione con Lorenzo Guadagnucci
24 Aprile 2025
È difficile ricordare le vittime della Liberazione dall’occupazione nazista e dal fascismo, mentre poco lontano da noi, su un’altra sponda del Mediterraneo, nella Striscia di Gaza o in Ucraina, per mesi e mesi, vengono commesse altre stragi. A che serve la memoria, che ruolo e che peso hanno i “luoghi della memoria”, se il corso degli eventi resta impermeabile alle lezioni che pensiamo di avere appreso dalla storia recente? Come è possibile ricostruire una memoria in modo diverso? Intervista a Lorenzo Guadagnucci, autore di Un’altra memoria (Altreconomia), da poco nelle librerie
Qual è lo scenario di fondo in cui nasce Un’altra memoria?
Il punto di partenza è un disagio profondo: trovarsi in un “luogo della memoria”, Sant’Anna di Stazzema, e sentirsi fuori posto, inadeguati a ricordare le vittime della strage nazifascista di ottant’anni prima. Fuori posto e inadeguati, perché è difficile, impossibile, ricordare i morti di allora mentre poco lontano da noi, su un’altra sponda del Mediterraneo, nella Striscia di Gaza, altre stragi, per mesi e mesi, vengono commesse anche in nostro nome, in quanto cittadini di una democrazia che osserva lo sterminio in atto senza intervenire, e anzi lo rende possibile con il sostegno militare, politico, mediatico.
A che serve la memoria, che ruolo e che peso hanno i “luoghi della memoria”, se il corso degli eventi resta impermeabile alle “lezioni” che pensiamo di avere appreso dalla nostra storia recente? C’è un difetto di memoria, evidentemente, o forse un equivoco sulla sua funzione: orientamento e guida per la comprensione e l’azione nel presente, o momento di conferma, schieramento e alla fine consolazione?
Ho scritto Un’altra memoria a partire da una crisi di senso, da quello che considero, a tutti gli effetti, un fallimento dei luoghi della memoria, che non sono riusciti a essere un baluardo morale e politico di fronte alle guerre del presente, nemmeno di fronte al genocidio a Gaza, o comunque vogliamo chiamare l’attacco militare di Israele.
Non hanno, questi luoghi, un peso politico significativo, e non riescono nemmeno a incidere sulla percezione pubblica della storia presente: sono relegati a un ruolo secondario, di fatto non sono un reale punto di riferimento quando si parla di conflitti, di guerre ai civili, di crimini contro l’umanità. Non sono stati in nessun momento un reale argine alle politiche di guerra e di riarmo. Perciò può accadere che le cerimonie, i discorsi sulla memoria e sull’antifascismo continuino a seguire il loro corso, senza che nulla di importante e di concreto avvenga, anche al cospetto di eventi estremi e insopportabili come le stragi compiute a Gaza.
La voce dei luoghi della memoria, del resto, è stata debole anche in altri contesti di guerre…
Sì, non c’è dubbio pensiamo all’Ucraina, ma anche alla sorte inflitta alle persone migranti, lasciate morire ai confini della Fortezza Europa. E dire che se c’è un insegnamento generale che ci arriva dalla memoria delle stragi nazifasciste, questo è un principio che mai si era affermato prima nella storia: l’idea che tutte le vite contino, nessuna esclusa. Un principio che ha ispirato, dopo il 1945, la Dichiarazione universale dei diritti umani, l’istituzione delle Nazioni Unite, la Convenzione contro il genocidio, le stesse Costituzioni delle democrazie europee. Un principio che ha cessato d’essere tale. Le stragi, i genocidi, ma anche gli abbandoni in mare o i respingimenti alle frontiere di individui stremati avvengono perché quelle persone sono considerate vite di scarto, vite con non contano. E se la memoria servisse davvero a qualcosa, dovrebbe almeno alimentare un’immediata ribellione contro queste pratiche, ovunque avvengano, da chiunque siano compiute; una ribellione contro la deriva avvenuta nelle stesse democrazie che ai valori di uguaglianza e pari dignità di tutte le vite umane dicono di ispirarsi.
C’è dunque una memoria da ricostruire. Coma è possibile farlo in modo diverso?
Nel mio piccolo ho cercato di esplorare nuove rotte, muovendomi in due direzioni. Una storico-geografica, rivolta al passato, ipotizzando che l’attuale difetto di memoria dipenda almeno in parte dal paradigma vittimistico che ha orientato la percezione pubblica della storia.
Ricordiamo le stragi nazifasciste, le deprechiamo, dichiariamo luoghi della memoria Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole, Civitella in Val di Chiana e così via, ma poco consideriamo il fatto che negli stessi anni di guerra altri eccidi avvenivano per mano nostra, ad opera cioè dell’esercito italiano: in Jugoslavia, in Grecia, in Albania… Perciò visitare i campi di concentramento di Gonars e di Arbe, dove morirono di stenti e malattie migliaia di slavi, può aiutare ad allargare lo sguardo, a uscire da una certa attitudine autoreferenziale. E così visitare Trieste e scoprire, accanto alla Foiba di Basovizza e alla Risiera di San Sabba, le quasi invisibili lapidi che ricordano i crimini dal fascismo di confine, la feroce repressione subita dagli sloveni triestini, un razzismo istituzionale che ha purtroppo fatto scuola, e dai gruppi antifascisti, formati per lo più da sloveni e croati, nati in quella zona ben prima che nel resto d’Italia. Forse, come collettività, non vediamo e poco consideriamo le vite di scarto ai confini dell’Europa, o gli eccidi di Gaza, perché troppo abituati a percepirci come vittime e a dimenticare quegli episodi storici di cui siamo stati protagonisti come carnefici.
La seconda direzione?
L’altra pista che ho seguito per immaginare un’altra memoria è un allargamento dello sguardo a nuovi soggetti: le persone migranti, i solidali, gli attivisti e i movimenti sociali. E anche a nuove fasi storiche, oltre il perimetro della seconda guerra mondiale, entro il quale si concentra, alla fine, il nostro calendario civile. Mentre assistiamo al tradimento delle classi dirigenti, tradimento di alcuni princìpi cardine della convivenza, germogliati dalla resistenza e dall’esperienza della seconda guerra mondiale, forse dovremmo fare tesoro, come un patrimonio storico acquisito, di quei momenti nei quali i movimenti sociali sono stati classe dirigente di fatto, dimostrando, seppure sul momento sconfitti, di saper indicare una strada da seguire per affermare il bene comune, secondo un ideale di giustizia sociale e di pacificazione.
Quando è accaduto?
Ad esempio intorno al 2001, con il movimento dei movimenti, fra Porto Alegre e Genova, e ancora nel 2003, con i pacifisti scesi nelle piazze di tutto il mondo contro l’annunciata guerra all’Iraq e descritti da osservatori imparziali come “seconda potenza mondiale”. I vincitori di allora, la repressione, il neoliberismo, la logica bellicista e imperialista, hanno condotto al disastro attuale. Un’altra memoria è possibile.
Fonte: comune-info.net - 24 aprile 2025