
LUANA PRONTERA/ANNIBALE GAGLIANI. Come comunicano le mafie oggi? I riti antichi e l’uso moderno delle parole

Difendere le parole, oggi, significa difendere la possibilità stessa di una società più giusta. E forse è proprio da qui che passa una delle battaglie più urgenti del nostro tempo - LUANA PRONTERA e ANNIBALE GAGLIANI
Le parole non sono mai neutrali. Possono raccontare, nascondere, sedurre, ferire. Possono diventare strumento di potere o di liberazione. È da questa consapevolezza che parte il lavoro di Annibale (Gagliani, NdR), studioso (salentino) dei linguaggi mafiosi, giornalista e docente, che ha scelto di stare nel punto in cui la ricerca incontra la responsabilità civile, dove l’analisi linguistica diventa una forma di presidio democratico.
Da anni, si occupa di ricerca sui linguaggi delle mafie per l’Università del Salento. Insegna anche Linguistica Italiana. In precedenza è stato cronista del Quotidiano di Puglia e docente di Lettere nella scuola pubblica. Oggi scrive per l’edizione pugliese del Corriere della Sera e per il sito dell’Enciclopedia Treccani.
Un percorso che tiene insieme mondi spesso separati ma anche uniti dall’urgenza del racconto e di una nuova narrazione sociale.
Il linguaggio delle mafie tra rito e tecnologia
Il linguaggio mafioso non è un residuo folkloristico del passato. È un sistema vivo, capace di adattarsi, di contaminarsi, di utilizzare tanto l’arcaico quanto l’ultramoderno. Annibale lo racconta con precisione, mostrando come le mafie sappiano tenere insieme simboli antichi e strumenti digitali avanzati, ritualità sacrali e piattaforme criptate.
«Alcune forme gergali resistono negli anni, come del resto la struttura comunicativa del “pizzino”, che poco tempo fa era utilizzata da Matteo Messina Denaro con una rete impensabile di postini- fiancheggiatori. Ma la cosa davvero interessante sulla lingua delle mafie oggi è vedere come si utilizzino indistintamente forme del passato, come i riti di affiliazione e di conferimento delle doti (spesso ritenuti arcaici dalle nuove leve criminali), e le ultimissime tecnologie per la comunicazione.
Le mafie tradizionali si servono del rituale di affiliazione dalla forte carica liturgica per permettere l’ingresso a un nuovo picciotto nella consorteria. Non è cambiato nulla rispetto al passato: ritroviamo il giuramento dalle sembianze massoniche, l’aspetto religioso della cerimonia e la puntura sul braccio dell’iniziato per fare cadere delle gocce su un santino (San Michele Arcangelo, la Santissima Annunziata o Santa Rosalia) da fare bruciare tra le mani per simboleggiare cosa spetta all’affiliato se tradisce l’onorata società.
Questo elemento di tradizione è ben presente nelle mafie che “funzionano” e hanno una struttura ancora consolidata (in particolare la mafia calabrese) e permette di affascinare soprattutto i giovani. Ma non bisogna pensare sia un rituale folcloristico, bensì ideologico, sacro, nelle intenzioni dei mafiosi. Un primo passo per non tradire mai i fratelli mafiosi: una volta entrati, non si può più uscire, se non attraverso una bara.
A questa forma simbolica, si affianca la capacità di utilizzare le nuove tecnologie. Per la comunicazione relativa al narcotraffico con broker e acquirenti si servono di social come Telegram, EncroChat e Sky-ECC o di social simili creati per gli scopi da ingegneri informatici al servizio della consorteria. Inoltre, i social network comuni diventano oggetto di propaganda per attirare nuovi sodali o per minacciare i pentiti. Per fare degli esempi, ricordo i casi della pagina Facebook “Onore e Dignità” gestita da uno ‘ndranghetista e il profilo Instagram “Pentiti brindisini”, che mette alla gogna i pentiti delle mafie, segnalando anche gli indirizzi dove poter trovare direttamente i soggetti».
Studiare questi linguaggi significa allora togliere loro l’aura di inevitabilità, restituirli alla loro natura costruita, ideologica, violenta. È un lavoro che riguarda tutti, perché quei codici parlano anche alla società, ne intercettano le fragilità, ne sfruttano i vuoti.
Difendere le parole, difendere la democrazia
In un tempo in cui il rumore sovrasta il senso, riflettere sui linguaggi è un atto controcorrente. Annibale individua una crisi profonda: la perdita di attenzione per le parole come sintomi del pensiero e come strumenti di futuro. Una crisi che non è solo culturale, ma politica.
«Perché viviamo in un mondo in cui ci viene imposto ogni giorno che il numero è più importante della parola e che la forma è più determinante della sostanza. Sono concetti davvero pericolosi che hanno portato all’inverno della democrazia, ormai imperante a ogni latitudine. Eppure, nelle parole risiedono tutti i sintomi del pensiero ed esse custodiscono l’intero patrimonio delle culture. Le parole ci fanno comprendere il passato, il presente, servendo da stampella per il futuro.
Poi, un’altra cosa che porta paradossalmente a una disaffezione nei confronti dei linguaggi è la quantità spaventosa di informazioni che bombarda la gente. Un macigno spesso costruito sull’effimero, vuoto, priva di qualità che possano favorire un cambiamento virtuoso nella persona. Perdiamo tanto tempo oggi ad ascoltare e a dire cose inutili.
Se non avremo la voglia di provare a fare la differenza attraverso le parole, ci accontenteremo di ingozzarci d’informazioni a portata di click, sfruttando l’intelligenza artificiale per non pensare più e consegnare definitivamente la nostra essenza di esseri umani ai numeri». Non è un caso che, alla fine, tutto si riduca a una scelta etica anche nel lessico quotidiano, nelle parole che decidiamo di abitare e in quelle che rifiutiamo.
«Te ne dico tre in un senso e nell’altro: mi piacciono molto “equilibrio”, “empatia” e “pazienza”, mentre odio “opportunismo”, “insensibilità” e “mafiosità”».
Difendere le parole, oggi, significa difendere la possibilità stessa di una società più giusta. E forse è proprio da qui che passa una delle battaglie più urgenti del nostro tempo.
Fonte: ARTICOLO 21 (https://www.articolo21.org/2025/12/come-comunicano-le-mafie-oggi-i-riti-antichi-e-luso-moderno-delle-parole/) - 13 dic. 2025
Verso il linguaggio settoriale delle quattro mafie
24 luglio 2023
Fin dall’Ottocento – secolo nel quale i codici della Camorra raggiungono una sistematizzazione che avrebbe ispirato le altre mafie –, gli antropologi, i giuristi e i linguisti qualificano scientificamente il linguaggio della criminalità organizzata come gergo. La matrice stessa della comunicazione mafiosa, che si serve di trasformazioni convenzionali del lessico italiano e dialettale allo scopo di garantire l’identità e lo spirito di coesione della consorteria o di celare cripticamente il senso dei discorsi agli uditori esterni, lascerebbe propendere ancora oggi verso la primordiale classificazione linguistica. I gerganti sperimentano un’antilingua che li determina parlanti marginali in netta contrapposizione ai parlanti normali della lingua neostandard, compiendo un esercizio di controcultura nei confronti delle norme linguistiche istituzionalmente e socialmente riconosciute. Osservando il codice di una determinata mafia, attraverso i parametri della sociolinguistica, possiamo studiarne differenti marcature: la varietà diatopica, ovvero l’estrazione geografica; la varietà diafasica, ossia in base all’impiego nelle situazioni comunicative; la varietà diastratica, poiché manifesto identitario di un gruppo sociale; la varietà diacronica, seguendo il mutamento e l’evoluzione del lessico in relazione alle epoche storiche.
Il gergo mafioso fonda una serie di neologismi semantici in virtù di un processo fonomorfologico che permette la rilessificazione del vocabolario di base acquisito, ravvivato da figure retoriche – come metonimie e sineddochi – e simboli pregni di pathos, stilisticamente non sempre adeguati (il malapropismo è dietro l’angolo visto il basso livello d’istruzione degli affiliati), ma egualmente evocativi, parabolici e dall’intenso impatto emozionale. In questo frangente storico, si può ipotizzare una rinnovata classificazione della lingua della criminalità organizzata, intesa come unione dei dizionari linguistici ed extralinguistici della Camorra, della mafia siciliana fino a Cosa Nostra, della ’Ndrangheta e della Sacra Corona Unita.
L’idea di un linguaggio settoriale delle mafie italiane ha insita nel proprio sviluppo una necessaria funzione sociale: comprendere profondamente il pensiero, i legami e l’azione di una consorteria, partendo dal fondamento filosofico e normativo: la lingua. La storia delle mafie è inevitabilmente la storia del nostro Paese con l’inesorabile evoluzione o involuzione socioeconomica dei territori. In uno scenario nazionale che vede i clan assumere una liquidità invisibile, sommersa, legata a doppio nodo ai rapporti con l’alta impresa e agli appalti con la politica di comando, è fondamentale cambiare la prospettiva, passando da una metodologia «aut-aut» a quella «et-et»:
«L’ipotesi definitoria sopra riassunta permette di considerare le organizzazioni criminali nella loro concretezza (uomini in carne e ossa, boss e gregari, e non mafiosi da romanzo e da sceneggiato televisivo spacciati per idealtipi) e il contesto sociale in cui esse operano, sottraendolo alle gerarchiche criminalizzazioni di sapore più o meno razzistico o lombrosiano e individuando al suo interno un blocco sociale egemonizzato dai gruppi criminali o in sintonia con essi» (Santino 1995, pp. 130-131).
Nomenclature e simbologia ricorrente
Le consorterie dispongono di un ordinamento autonomo in antitesi a quello dello Stato, evidenziando originali elementi del repertorio linguistico che rimandano a una tradizione lunga quasi duecento anni. Alla stregua delle lingue speciali, il linguaggio della criminalità dispone di precise nomenclature: la prima da poter vagliare è la scala gerarchica del potere, coi gradi guadagnati sul campo, definiti ‘dote’, la carica d’importanza nei battenti dell’organizzazione. Partendo dall’alto verso il basso ritroviamo: padrino; trequartino; quartino; vangelo; santista; sgarrista; camorrista; picciotto d’onore; giovane d’onore. I ruoli per la divisione delle cariche interne e per la gestione dei territori sono invece suddivisi come segue: capomafia, il leader dell’intera consorteria; colonnello, amministratore della provincia; capozona o capobastone, amministratore di un comune; capofamiglia, al vertice di una famiglia mafiosa; capoclan, al vertice di un clan mafioso; campomandamento, al vertice di un gruppo di famiglie; crimine, figura responsabile della pianificazione e dell’esecuzione delle attività delittuose; cuntaiolo o tesoriere, responsabile delle attività economiche illecite e del fondo comune per i carcerati della consorteria, detto ‘bacinella’; mastro, messaggero della consorteria; sorella d’omertà, donna deputata a dare assistenza ai latitanti.
Un ruolo centrale per la gestione disciplinare degli affiliati lo svolge il lessico delle colpe, finalizzato alla punizione degli inadempienti ai comandi della ‘società’. Le colpe si dividono in trascuranze, ovvero sgarbi di lievi entità alla consorteria che prevedono sanzioni pecuniarie, smacchi in pubblica sede o l’espulsione, e sbagli. Quest’ultima categoria determina la condanna a morte del sodale e si articola in tre fasce di gravità: tragedia, colpire uno o più affiliati fino a scatenare una faida; macchia d’onore, atto irrispettoso nei confronti della consorteria, come l’approdo in un gruppo rivale; infamità, alto tradimento a causa della denuncia delle azioni criminali alla giustizia, condizione che scioglie il patto di fratellanza.
Il linguaggio mafioso non manca di un numero consistente di simboli per la comunicazione. Si può spaziare dai pittogrammi utilizzati in luoghi pubblici come messaggi in codice, passando da elementi per l’autodeterminazione, quali tatuaggi evocativi, oggetti e vestiario identificativo, fino allo ‘sfregio’, cicatrici che rappresentano i segni delle proprie battaglie. La simbologia, in particolare quella sacra, assume un’importanza certale nell’espletamento delle cerimonie d’ingresso degli affiliati nella consorteria – le icone religiose si alternano al codice cinesico e agli atti del cerimoniere, che porta il battezzato a bere il sangue di un affiliato anziano o a mischiarlo col proprio, per poi lasciare bruciare il santino della Madonna o di San Michele Arcangelo tra le mani. Il giuramento d’affiliazione, in tale sede, riflette i modelli sociali, storici e culturali che il sodale deve emulare, incarnandone nella quotidianità l’ideologia.
Un aspetto linguistico originale e ricorrente nel verbo della malavita riguarda l’onomastica. Ritroviamo il valore metonimico assunto dai nomi delle organizzazioni e delle famiglie – ‘la Sacra Corona’ che comprende i differenti clan, ‘i Bellocco’ che comprende più nuclei familiari imparentati e affiliati ed estende il proprio raggio ai soldati e ai collaboratori esterni. Senza dimenticare il valore per antonomasia assunto da boss celebri – ‘Totò Riina’, ‘Don Raffaè’, ‘Al Capone’ – e l’utilizzo dei soprannomi, che possono essere espressi in italiano o in dialetto e che citano mestieri, provenienza, caratteristiche fisiche o psicologiche degli affiliati, non trascurando talvolta riferimenti ad animali, oggetti o personaggi famosi – ’O Professore, Americano, Capu Ruessu, U Siccu, Il Vecchio, Canarino, Bullone, Scarface.
Un’identità linguistica tra codici e particolarità espressive
Il punto di partenza documentario, ritenuto modello normativo per le mafie italiane, è il Codice Frieno della Camorra, risalente al 1842, apparso, insieme alla parola camorrista, nella legge Pica del 15 agosto del 1863 – che prende il nome del deputato abruzzese Giuseppe Pica –, emanata dal Regno d’Italia per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle province in cui dominavano i territori. Il primo articolo del Frieno richiama ai concetti fondanti dell’organizzazione criminale: l’omertà, il vincolo associativo e il mutuo soccorso tra affiliati.
Articolo 1
La società dell’umirtà o bella società rifurmata ha per scopo di riunire tutti quei compagni che hanno cuore allo scopo di potersi in circostanze speciali aiutare sia moralmente che materialmente.
Il codice camorrista ispira quelli successivi della ’Ndrangheta: il Codice di Nicastro del 1888 e negli anni seguenti il Codice di Rosalì, il Codice di Pellaro, il Codice di San Giorgio Morgeto e il Codice di Lamezia – serie di diritti e doveri per gli adepti che ispirano, nel 1983, il fondatore della Sacra Corona Unita, Pino Rogoli.
Le radici ’ndranghetiste si scorgono già nel 1825 con la setta segreta Carboneria Riformata, composta da affiliati conosciuti come «berretti storti», che riunisce i criminali calabresi nel carcere di Favignana, prendendo spunto dal baccaglio, il frasario dei camorristi, in circolazione tra gli ambienti criminali prima del Codice Frieno: «Un medico riesce a catalogare i «lemmi» del baccaglio, l’astruso e intricato frasario dei camorristi […] «È un incontro di fondamentale importanza per l’evoluzione organizzativa delle mafie» spiega lo studioso della camorra Isaia Sales in Storia dell’Italia mafiosa, senza il quale «non ci sarebbero stati i codici, i vari gradi di affiliazione, in gran parte copiati dagli statuti delle società segrete massoniche e carbonare di cui facevano parte i cospiratori antiborbonici» (GRATTERI, NICASO 2018, pp. 11-12).
Riguardo ai codici della mafia siciliana, questi si sono tramandati solo oralmente, salvo il Codice Provenzano, ovvero la raccolta dei pizzini del boss di Cosa Nostra ai propri adepti. Oltre al mix di italianismi e dialettismi che i mafiosi-emigranti siciliani portano negli Stati Uniti d’America dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, un aspetto interessante a livello linguistico è rappresentato dall’origine del nome mafia. Nel 1863, il termine appare all’interno della pièce teatrale di Giuseppe Rizzotto, I mafiusi de la Vicaria:
«La parola ‘mafia’ compare per la prima volta, nel 1863, in una commedia popolare siciliana di grande successo, I mafiusi de la Vicaria, e già nel 1865 viene proposta in un documento ufficiale firmato dal prefetto di Palermo […] ‘Mafia’ è termine polisemico, che si riferisce a fenomenologie differenti a seconda dei contesti, delle circostanze, delle intenzioni e dell'interesse di chi lo usa» (LUPO 1996, p. 5).
In particolare, assistiamo a un neologismo semantico per l’epoca, poiché mafia e mafioso detenevano significati differenti: «Un tempo nel dialetto palermitano l’aggettivo “mafioso” significava “bello”, “ardito”, “sicuro di sé” […] La parola “mafioso” cominciò ad assumere connotazioni criminali a causa di una pièce teatrale scritta in dialetto siciliano – I mafiusi de la Vicaria (la Vicaria era un carcere palermitano)» (DICKIE 2007, p. 67).
Concentrandoci sul Codice Provenzano, ritroviamo una fitta rete di messaggi brevi, zeppi di malapropismi. Le scelte lessicali del superlatitante ricercano toni equilibrati, attraverso i quali dare la sensazione ai propri sodali di un basso profilo. Il capomafia richiama spesso al senso del dovere nei riguardi dell’organizzazione i più acerbi soldati. In un pizzino al suo più stretto collaboratore, Antonino Giuffrè, esprime i tratti distintivi dei suoi diktat, pervasi di deminutio capitis, ridimensionandosi nel significante – ma non nel significato – a umile servitore della consorteria:
«Vogliono sapere da me, come si devono comportare? Io chi sono x poterci dire come si devono comportare? Io a fin di bene, dicevo a B n. come comportarsi, è in parte tu, ne sei testimone, e non mi dava ascolto, e io ci speravo nella tua comprenzione, ma purtroppo non l’ho avuta. […] x ordine io non posso dare ordine a nessuno, cerco accui le può dare a me […] ecco ora mi fermo tutto questo servi solo x te e ti prego di non farni partecipi annessuno. Mi dispicirebbe» (Provenzano in Palazzolo, Prestipino 2008, pp. 185-186).
Nel pizzino spiccano una serie di tratti ascrivibili all’italiano popolare: uso inadeguato della punteggiatura, insicurezza nel rilevamento dei confini della parola, tangibile attraverso il fenomeno dell’univerbazione di elementi lessicali autonomi, ‘affin’ invece di a fin, ‘accui’ invece di a chi e ‘annessuno’ invece di a nessuno. Non mancano errori ortografici, indice di una bassa scolarizzazione e interferenza della pronuncia vernacolare sulla grafia, ‘comprenzione’ (Cfr. Paternostro 2019, p. 99).
Stereotipi, opere di riferimento e sfide future
Cesare Lombroso, nella sua opera più celebre, L’uomo delinquente, categorizza le caratteristiche fisiche e psichiche del criminale in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie. Un saggio che scatena ancora oggi innumerevoli polemiche nel mondo accademico e nel popolo italiano, per via della tesi principale: si è criminali per nascita, esponenti «di prava malvagità», che evidenzia la differenza biologica fra cittadini normali e cittadini devianti, ritenuti primitivi e arretrati a causa di elementi atavici, legati alla conformazione del cranio e alla fisionomia deforme (Lombroso 1876, p. 11). Sulla falsariga del Lombroso sono le teorie razziali dell’antropologo Alfredo Niceforo – che asserisce la congenita superiorità del cittadino settentrionale su quello meridionale –, portando all’attenzione il legame tra crimine e bassa scolarizzazione.
Nel 1898, Napoleone Colajanni, deputato in dieci legislature del Partito Repubblicano Italiano e docente di lettere nella provincia di Enna, disarciona dal piedistallo dell’opinione pubblica le teorie lombrosiane, attraverso l’opera Per la razza maledetta (Sandron, Palermo). Dopo la confutazione delle tesi razziste sui mafiosi, a dare la stura agli studi scientifici sulla lingua criminale, nella fattispecie dei camorristi, è Marco Monnier, poligrafo italosvizzero, autore del lavoro di ricerca La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate (pubblicato nel 1862 dall’editore fiorentino Barbera). Quest’ultima fatica ispira diverse opere specialistiche: il glossario di Emanuele Mirabella, Mala vita – gergo camorra e costumi degli affiliati (Arnoldo Forni Editore, Sala Bolognese, 1984 [rist. anastatica]; prima ed., Napoli, Francesco Perrella editore, 1910), composto da 45.000 lemmi; i saggi di Giovanni De Paoli, Riti e gergo dei camorristi (1888) e Gergo dei camorristi, (1889); i lavori trasversali di Abele De Blasio, su tutti Usi e costumi dei camorristi (Tipografia di M. Gambella, Napoli, 1897). Dopo il glossario di Mirabella, nascono dizionari e saggi con la Sicilia al centro: U baccagghiu, dizionario comparativo etimologico del gergo parlato dai bassifondi palermitani di Calvaruso Giuseppe Maria (Libreria Tirelli di F. Guaitolini, Catania, 1929), I gerghi della malavita dal ’500 ad oggi di Ernesto Ferrero (Mondadori, Milano, 1972) e U parrari cummigghiatu, vocabolario del gergo della malavita con appendice su usi, riti, curiosità della mafia di Giuseppe Mannino (Tipolito Bellanca, Palermo, 1986). Nell’ultimo decennio, un’opera saggistica che parte dal linguaggio e dai riti della ’Ndrangheta e si estende alle altre mafie è Male Lingue: Vecchi e nuovi codici delle mafie (Gratteri, Nicaso, Trumper, Maddalon, Pellegrini editore, Cosenza, 2014), mentre un’impresa enciclopedica che allarga l’orizzonte all’antimafia è il Dizionario enciclopedico di mafie e antimafia di Manuela Mareso e Livio Pepino (Gruppo Abele, Torino, 2013).
I tempi sono maturi per creare un dizionario della lingua delle quattro mafie d’Italia. Poiché parliamo di cerchio massonico in costante relazione con la società civile e la classe dirigente, dalle quali assorbe in maniera parassitaria il proprio sostentamento. Le contaminazioni sono da quasi duecento anni regolari e dimostrano come sia prematuro licenziare la lingua della criminalità organizzata come un gergo per pochi intimi, avulso dall’intero blocco sociale. Per comprendere il fenomeno mafioso, bisogna analizzarlo a partire dal linguaggio fondante. È il momento di accogliere la sfida lanciata ai linguisti da Nicola Gratteri e Antonio Nicaso in Dire e non dire. Dieci comandamenti della ’ndrangheta nelle parole degli affiliati (Mondadori, 2012, Milano): tracciare il linguaggio settoriale delle mafie italiane.
«Finora il linguaggio della malavita è stato tecnicamente definito gergo, ma ci chiediamo qui se quelli della criminalità organizzata non debbano essere classificati addirittura fra le lingue speciali: la criminalità organizzata – nelle sue varie articolazioni (mafia, ’ndrangheta, camorra, ecc.) – si presenta infatti come dotata di un ordinamento specifico e contrapposto a quello dello Stato, che appunto si esprime con particolari elementi del repertorio linguistico. Proprio come le lingue speciali il linguaggio della criminalità è dotato di proprie e ben definite nomenclature» (Gratteri, Nicaso 2012, p. 37).
Riferimenti bibliografici
Santino 1995 = U. Santino, La mafia interpretata – Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1995, pp. 130-131.
Gratteri, Nicaso 2018 = N. Gratteri, A. Nicaso, Storia segreta della ’Ndrangheta – Una lunga e oscura vicenda di sangue e potere (1860-2018), Mondadori, Milano, 2018.
Lupo 1996 = S. Lupo, Mafia, Treccani, 1996, Roma.
Dickie 2007 = J. Dickie, Cosa Nostra – Storia della mafia siciliana, Laterza, Bari, 2007.
Paternostro 2019 = G. Paternostro, Il linguaggio mafioso – Scritto, parlato, non detto, Aut aut edizioni, Palermo, 2019.
Palazzolo, Prestipino 2008 = S. Palazzolo, M. Prestipino, Il codice Provenzano, Laterza, Bari, 2008.
Gratteri, Nicaso 2012 = N. Gratteri, A. Nicaso, Dire e non dire. I dieci comandamenti della ’ndrangheta nelle parole degli affiliati, Mondadori, Milano, 2012.
Altri testi consultati
A. Apollonio, Storia della Sacra Corona Unita – Ascesa e declino di una mafia anomala, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2016.
E. Ciconte, F. Forgione, I. Sales, Atlante delle mafie – Storia, economia, società, cultura, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017.
Fonte: TRECCANI (https://memoria.cultura.gov.it/w/il-linguaggio-delle-mafie-tradizionali-italiane) - 24 lug. 2023