
MOSCUFO è Antifascista

L’Italia deve avere il coraggio di scriverlo sotto ogni monumento del regime - ALEKOS PRETE
di Alekos Prete
A Moscufo, piccolo comune abruzzese, è accaduto qualcosa che dice molto più di quanto sembri. Un docente e attivista antifascista di Pescara, Andrea D’Emilio, ha preso una scala, una bomboletta rossa, e sotto il volto di Mussolini ancora esposto su un muro di piazza Umberto I ha scritto: «Moscufo è Antifascista». Non ha distrutto nulla, non ha coperto nulla. Quel volto è ancora lì, come lo era da decenni. Ha semplicemente aggiunto ciò che mancava: una frase che restituisce senso a un’immagine altrimenti lasciata muta e celebrativa.
La reazione del Comune, però, è stata netta: atto di vandalismo, gesto che “non rappresenta la comunità”, che “semina divisione e ostilità”. Ma qui non c’è divisione, c’è semmai un tentativo di ricomporre la verità: ricordare che la Repubblica italiana, per Costituzione e per storia, è Antifascista.
Parlare di vandalismo è non solo fuorviante, ma ipocrita. Vandalismo è distruggere, deturpare, cancellare. Qui non è accaduto nulla di simile. Qui si è tentato di aggiungere una cornice critica che le istituzioni non hanno mai voluto apporre. Perché quel volto del dittatore fascista, rimasto lì senza alcuna spiegazione, senza un pannello che ne ricordi la natura di propaganda, è di fatto una celebrazione. Non memoria, ma monumentalizzazione.
Il vandalismo semmai è lo stato d’abbandono, il silenzio che avvolge i simboli del regime e che li lascia parlare ancora la loro lingua originaria.
È la fotografia perfetta del rapporto dell’Italia con il proprio passato: non abbattere, non contestualizzare, semplicemente lasciare che tutto resti dov’è, sperando che il tempo dissolva il significato. Ma il tempo non cancella, anzi. Così capita che un volto di Mussolini, in piena piazza, senza didascalie, diventi un “simbolo storico” da rispettare, come si sente dire nel video che documenta il gesto di D’Emilio. Simbolo storico, certo: ma senza spiegazione, senza un “qui c’era il regime, qui parlava la propaganda”, quel simbolo resta un altare vuoto, pronto a essere rivendicato. La verità è che sotto ogni monumento del fascismo dovrebbe esserci scritto, a chiare lettere: “L’Italia è Antifascista”. Non per cancellare, ma per storicizzare. Non per distruggere, ma per impedire che l’omissione diventi complicità.
E invece in Italia si continua a rimuovere, o meglio a non dire. Così, quando qualcuno rompe il silenzio, la reazione è sempre la stessa: ridicolizzare, neutralizzare, criminalizzare.
È accaduto a Milano, durante la Prima alla Scala, quando un loggionista ha gridato “Viva l’Italia Antifascista” ed è stato raggiunto e identificato dalla Digos, come se quella frase fosse una provocazione e non la semplice ripetizione della Costituzione.
È accaduto ad Ascoli Piceno, quando Lorenza Roiati, una panificatrice, ha appeso per il 25 aprile uno striscione con scritto “Buono come il pane, bello come l’antifascismo” ed è stata identificata due volte. Tre storie, tre gesti diversi, stessa dinamica: trattare l’antifascismo come disturbo dell’ordine pubblico, ridurlo a fastidio, a gesto eccentrico, a capriccio.
Non è un caso: già durante il regime chi si opponeva veniva bollato come pazzo, come squilibrato. Oggi, chi compie azioni eclatanti per riportare l’antifascismo nello spazio pubblico viene etichettato come vandalo, estremista, matto. Il meccanismo è lo stesso: togliere dignità politica a un gesto di resistenza civile, depotenziarlo riducendolo a marginalità. Ma è esattamente questa riduzione a raccontare quanto fragile sia ancora la nostra democrazia, quanto l’Italia non abbia mai metabolizzato fino in fondo il proprio passato.
In Germania i simboli del nazismo sono stati rimossi o contestualizzati, i luoghi della dittatura trasformati in musei, in moniti permanenti. In Spagna, dopo decenni di rimozione, i resti di Franco sono stati spostati dal Valle de los Caídos, con una scelta simbolica e politica netta. In Italia no. I sacrari e le architetture del regime restano disseminati, muti. Persino il Sacrario di Redipuglia, opera colossale di retorica mussoliniana, resta oggi un luogo celebrativo senza una narrazione che ne spieghi la genesi. Ogni lapide, ogni motto, ogni facciata che porta inciso il linguaggio del Ventennio rimane lì, non come memoria storica, ma come monumento alla reticenza.
Dentro questo vuoto si alimenta il clima odierno: un Paese polarizzato, attraversato da nuove radicalizzazioni, dove l’antifascismo rischia di apparire un’espressione partigiana, anziché il fondamento stesso della convivenza repubblicana. Dove gridare “Viva l’Italia Antifascista” ti rende sospetto, e scrivere “Moscufo è Antifascista” sotto il volto di Mussolini ti fa bollare da vandalo. È un capovolgimento culturale che dice molto: come se l’antifascismo fosse il problema, e non il fascismo che continua a riemergere sotto traccia, nei linguaggi, nelle nostalgie, nei simboli mai del tutto spenti.
Il gesto di Andrea D’Emilio, allora, non è follia, non è vandalismo, non è un capriccio individuale. È un atto di dignità. È un tentativo di ricordare, a tutti, che una Repubblica che teme la parola antifascista è una Repubblica che smarrisce se stessa. È una scritta che restituisce verità a un muro che, da troppo tempo, parlava soltanto la lingua della propaganda. È il segno che il compito di contestualizzare, spiegare, storicizzare non è stato compiuto. E che, se lo Stato e le istituzioni non lo fanno, spetta alla coscienza civile colmare quel silenzio.
Non si tratta di replicare il gesto, ma di comprenderne il senso. Ogni monumento del fascismo dovrebbe essere accompagnato da un chiarimento: che quel segno appartiene a una dittatura e che la Repubblica nata dalla Resistenza è antifascista. Sarebbe la cosa più ovvia, e invece è la più rimossa. Finché non accadrà, gesti come quello di Moscufo continueranno ad apparire come provocazioni. Ma la vera provocazione è l’assenza di parole, è il vuoto lasciato attorno a simboli che non smettono di pesare.
In un Paese che davvero avesse fatto i conti con il proprio passato, quella scritta sarebbe superflua. In Italia, invece, è ancora necessaria. Per questo non è vandalismo: è memoria viva, è resistenza civile. È il promemoria che l’Italia intera dovrebbe avere il coraggio di incidere sotto ogni monumento del regime: l’Italia è Antifascista.
Fonte: articolo21.org 22 agosto 2025