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Napoli, la città che scompare. Napoli invisibile. Il volto meticcio della città

REPORTAGE. Dopo aver resistito a secoli di invasioni straniere, traballa sotto i colpi del boom turistico. Un reportage in 3 puntate sulla città di Napoli, vista sotto più punti di vista, tra loro diversissimi ma convergenti.
A cura di ENRICO CARIA e LUCA MUSELLA

Napoli che scompare


Enrico Caria, Luca Musella

9 marzo 2024


REPORTAGE. Prima puntata.



Napoli divide. Dal boom turistico iniziato cinque anni fa e amplificato l’anno scorso dal suo primo scudetto senza Maradona (in campo) fino alla vittoria «scippata» a Geolier pochi giorni fa a Sanremo, Napoli divide gli italiani, ma divide soprattutto i napoletani: con i primi storicamente suddivisi tra odiatori e adoratori, e i secondi fatalmente spartiti tra fanatici identitari e insoddisfatti cronici.


Ma a ben vedere è storia vecchia: già quarant’anni fa Domenico Rea raccontava della distanza siderale (non solo economica e culturale ma quasi antropologica) del napoletano di Forcella da quello del Vomero, di quello dei Quartieri da quello di Posillipo…. divisioni geografiche «orizzontali» alle quali vanno ultimamente aggiunte anche quelle «verticali»: chi vive in un basso con poca luce e poca aria e chi vive ai piani alti e magari vede pure il mare.


Già, perché, da qualche anno, in parallelo alla «riqualificazione» del ventre di Napoli, una parte della borghesia s’è trasferita nei piani alti di vicoli fino a un paio di lustri fa decisamente off-limit e oggi meta di un turismo solo apparentemente caotico e fuori controllo. Perché a Napoli più cresce il caos, più cresce chi il caos lo ha sempre controllato.


Piero, persona colta e attenta, fa la guida turistica da venti anni, professione che svolge con sobrietà e intelligenza. La sua parabola esistenziale è fortemente simbolica: laureato brillantemente all’Orientale di Napoli ha quasi subito trovato lavoro in Francia. Ma vuoi la mamma, vuoi la fidanzata, non ha retto ed è tornato a Napoli con le carte in regola per dirigere un giornale o insegnare all’Università. Invece ha trovato solo un posto come contabile presso una ditta del Cis di Nola, enorme no-luogo per la vendita all’ingrosso. Depressione. Perdita di interessi per il mondo. Divorzio e infine licenziamento per scarsa redditività. Allora si è dato questa chance turistica, facendo e vincendo il concorso: «prima l’esame era su base regionale, una guida della Campania non poteva lavorare a Venezia, poi siamo diventati guide nazionali… già mi sembra una stupidata che uno come me possa guidare una comitiva in Piemonte e ora che con le nuove norme europee i gruppi possono portarsi le guide direttamente dal paese loro, noi siamo costretti a proporci anche a metà prezzo». Ha uno sguardo dolente ma l’indignazione gli fa alzare i toni: «guardati intorno, i turisti aumentano in modo esponenziale ma non il mio guadagno, anzi. Turismo povero che danneggia i luoghi, li impoverisce, li degrada. E gli itinerari sono spesso eterodiretti dai social: chi vuole andare a Scampia a vedere le Vele di Gomorra, chi a Pizzofalcone per i «bastardi», chi la Ferrante, questi guardano la televisione e pretendono di ritrovare Ciruzz’ o’ milionario al bar».


Quando l’immagine di una città è incentrata sulle sue budella non è mai un fatto buono. «A volte», continua Piero accendendosi l’ennesima sigaretta, «quando incrocio un angolo molto sporco tento di cambiare strada e invece loro sono proprio attratti dalla munnezza. Ieri, pensa, una comitiva voleva andare a Santa Lucia per vedere gli scafi blu dei contrabbandieri: ho dovuto spiegare che Mario Merola è morto da un sacco di tempo e le sigarette si comprano dal tabaccaio… qua a furia di luoghi comuni e stereotipi finisce che diventiamo uno zoo». Camminando camminando siamo arrivati all’imbocco di via Toledo con i suoi negozi eleganti assediati, quasi murati, da bancarelle volanti di paccottiglia d’imitazione tra le quali fanno lo slalom torme di turisti fai da te. Ma è dagli striscioni, dai cartelli e dalle luci dei vicoli dei Quartieri Spagnoli che si affacciano su via Toledo che la massa umana viene risucchiata come posta pneumatica.


E qui, tra cartonati Osimhen formato 1a1, murales di Troisi e Pino Daniele, caricature di Totò&Peppino, edicole sacre con foto di Maradona, panzarotti, paste cresciute, pizze cotte male, spritz in bicchieri di plastica, bassi-casevacanza e terranei-b&b, siamo bruscamente catapultati nel Truman Show della Napoli tanto al chilo: «li vedi tutte questi ristoranti? Bar? Pizzerie? Friggitorie? Pescherie? Salumerie? Qui dappertutto si lavora al nero a venti euro a giorno e nessuno controlla. Andate a Firenze o Venezia, pure loro sono altrettanto travolte dal turismo mordi-e-fuggi di massa ma solo a Napoli, soltanto a Napoli trovi un barista a 120 euro a settimana! No, così non crei opportunità di lavoro vero, sviluppo condiviso… ma solo qualche furbo o camorrista che diventa imprenditore… ma vogliamo palare della casa? Qua non si trova più una casa in città da affittare manco sparàti. Niente! Tutti i figli dei miei conoscenti sono andati via. Tutto questo turismo crea pure un giro di soldi, certo, ma poi, dove vanno a finire? La verità è che a Napoli non si è migliorati in niente: ospedali, scuole, sicurezza, infrastrutture, pubblica amministrazione…» quella di Piero è l’analisi spietata ma anche terribilmente lucida di chi il territorio lo conosce come le sue tasche, «vuoi sapere una cosa? per come la vedo io qua basta un nulla, una capa pazza, un primo cadavere eccellente… e questa pax mafiosa salta: senti a me, un paio di morti giusti e questi pellegrini scompaiono per un secolo».



Dove Greci, Romani, Ostrogoti, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Francesi, Austriaci, Borboni e Piemontesi hanno fallito, ossia nella conquista del ventre molle della città e del suo specifico antropologico, ci stanno ora riuscendo gli affittacamere. Degenerazione dell’endemica incapacità dell’élite di sviluppare politiche economiche che vadano oltre una forma edulcorata dello strozzo. La Napoli risorta, quella narrata con superficialità da chi si accontenta d’un folclore guasto, in realtà non esiste. Si avvia piuttosto la Napoli reale a essere triturata dalla globalizzazione, complice il cedimento di quelle resistenze umane che la rendevano città unica.


Persino la nostra bella lingua, traviata da banalità e sottoculture tanto deviate quanto esaltate, va mutando in uno slang gutturale e senza poesia. Una Piedigrotta morta, perché trasforma l’istinto popolare, la sua imprevedibilità, in una recita compulsiva e standardizzata di cliché tetri. E Napoli scompare in un’autorappresentazione malata, stantia, adatta a vendere calamite cinesi col Vesuvio grigio-topo a turisti sciatti per 0,50 euro. Ma non solo calamite: in Cina sono ormai prodotte borse, scarpe griffate, orologi… spazzato via quello che era una volta il falso d’autore local dietro al quale c’era un know-how fuorilegge sì, ma almeno di eccellenza, fatto di sarti, calzolai, pellettieri… con la conseguenza che grande fetta di questa transumanza turistica sbarca ormai sotto al Vesuvio anche per fare shopping criminale.


Su via Marina, trasformata in un deposito di bus turistici, la vendita avviene quasi sulla porta del bus: chilometri di falso importato dalla Cina gettato lì per terra. Nel contempo cresce una genìa di giovani senza ne’ arte ne’ parte, posta davanti a un bivio: venditori ambulanti di calzini in giro per l’Italia o manovalanza per una criminalità post-moderna che nelle sue camaleontiche trasformazioni finanziarie potrà sempre e comunque contare su un esercito di disoccupati?


Gennarino ha una faccia senza età, che è una cartina geografica della nostra terra. Dentro ci sta tutto e il contrario di tutto. Un balordo con una adolescenza e poi una giovinezza vissute con regolari intervalli tra detenzione e criminalità. Il rumore. Il rumore dei cancelli che si aprono e si chiudono: è questo che Gennarino ricorda dei suoi tanti ingressi in carcere: non luoghi, facce, parole di biasimo o di incoraggiamento, stati d’animo; ma il rumore dei metalli che si sovrappongono. Ma Gennarino a un certo punto ha capito che la marginalità è un ergastolo e che per uscirne fuori, doveva rompere quelle catene.


Fu così che una mattina uscì dal carcere di Poggioreale senza nessunissima fretta di rientrare nel suo mondo. A Piazzetta Augusteo ci stavano dei volontari che regalavano cani, se ne prese uno e lo chiamò Nicolino. E insieme a Nicolino, andò a occupare abusivamente una stanza in una struttura abusivamente occupata in Sedile di Porto. E così, con una sua «famiglia» col tetto sulla testa, doveva ora procurarsi di che vivere tenendosi lontano dai guai. «Prima della pandemia avevo creato un piccolo business con i B&B: vendevo materiale per la pulizia e casalinghi vari a sette/otto strutture qui in zona. Una cosa in nero, che però mi faceva mettere il piatto a tavola e i croccantini per terra. Poi col covid si è tutto fermato, ma anche adesso che tutto è ripartito e la città è piena di turisti, i miei clienti si sono abituati a comprare con il telefonino. E così mi arrangio: qualche bancarella, piccoli servizi a qualche amico che ha bisogno di una mano. Voglio stare lontano dai guai, ma poi come si dice… se hai fame, mangi».


Già, con la pandemia tutti abbiamo imparato ad acquistare online, a fare call, a interagire attraverso i social. Noi stessi, prima della pandemia, pensavamo che Facebook e Tik-tok servissero solo ad insultare l’allenatore del Napoli o il suo presidente dopo ogni sconfitta. Oggi chattiamo con persone che non abbiamo mai visto. In questo clima da day after non ci dividiamo più sulla realtà, ma su proiezioni astratte della stessa. E così anche la tipica predisposizione dei napoletani ad aprirsi con gli sconosciuti diventa un tratto più caratteriale che antropologico.


«Mi fate troppe domande alle quali non so rispondere…», Elena, che non si chiama Elena, ha un negozio di strumenti musicali artigianali nella via dei turisti: putipù, scetavaiasse, tammorre e tutto fatto a mano. Non è paura quella che gli fa celare la sua identità, piuttosto un conformismo. «Dopo il terremoto» dice, «qui era un far-west: camminavi e capitava di trovare un morto ammazzato a terra. Poi tra rinascite vere e quelle inventate abbiamo fatto un po’ di soldi. I primi turisti erano come pionieri e quando trovavano un negozio come il mio spendevano pure mille euro. Oggi… oggi reggo, perché non saprei cosa altro fare, ma oramai mi passano davanti e non mi vedono: un fiume umano che però mi rende invisibile. Farei più soldi a vendere le bottigliette di acqua minerale. Quello che non capiscono i nostri politici è che questa specie di pace mafiosa reggerà fino a che tutti avranno da mangiare. Adesso, senza casa, senza lavoro, senza sussidio e senza arte né parte, si riprenderà il cammino verso la delinquenza. Ma questa volta teniamo di fronte pure una microcriminalità… come dire?… fulminata, ragazzini che ti ammazzano per uno sguardo sbagliato o per una banconota da dieci euro. Guardateli ‘sti ragazzini, strafatti e violentissimi. Sono poco più che bambini, ma cresciuti a pane, odio e abbandono: sono pericolosissimi. Che fare? Non saprei».


Chi sa fare non si muore mai di fame, si diceva a Napoli una volta: ma se non si sa fare più niente? I residenti che resistono nel centro storico si lamentano della movida: uno sciame di ragazzini sbandati e alterati che urlano tutta la notte. Nessuno però sottolinea che questo fenomeno è, almeno in parte, dovuto al connubio tra criminalità organizzata (che spaccia) e imprenditoria di intrattenimento (che l’ingozza di alcol): un mix dove si urla di indignazione solo quando scappa il morto. È il modello del consumismo dilagante che abbinato alla povertà culturale e alla scarsezza di riferimenti positivi – dalla scuola, ai cinema, allo sport – spinge questi ragazzini verso un buio della mente. A trascinarsi fino all’alba tra un drink e una sniffata, fino a spappolarsi il cervello. Per il resto certa borghesia cittadina si astiene dal prendere posizione sul lavoro nero, sul «neo-schiavismo» e sulla deportazione di massa dei residenti verso periferie ignote e mal servite. Si limita a difendere il diritto al sonno. Poi, passata la nottata, bene o male, ecco che arriva l’alba. L’alba che cancella la città, brucia lo sguardo di una nostalgia torbida, pornografica. L’alba con la sua processione delle anime morte dei nostri ragazzini strafatti, sconfitti, abbandonati.


Una processione di fantasmi che sfiora altri fantasmi: sono i raccoglitori di monnezza. Molti di questi altri zombi che vagano tra i cassonetti sono extra-comunitari ma c’è anche qualche italiano a cercare il tesoro nascosto. Due processioni quindi, che si incrociano senza guardarsi, con i ragazzi che non sospettano o non vogliono sospettare che col passar degli anni potrebbero pure passare all’altra processione a cercare nella monnezza la sola speranza di sopravvivenza. Poi, con il sole che sorge, i raccoglitori di monnezza diventano venditori e si incontrano in un misterioso flash mob dietro la stazione centrale oppure tra Porta Nolana e Porta Capuana, dove ogni mattina va in scena il mercato della monnezza; una compravendita degli avanzi della notte che assume valore quasi filosofico di nuove identità post produttive. Un Uomini&Topi livido, che trasforma lo scenario napoletano in un Quarto Mondo senza armonia.


E la memoria torna a un passato tutto sommato recente e per molti versi indecente: la Napoli di Achille Lauro, dove però alla cultura delle «mani sulla città», alla scarpa destra prima delle elezioni e quella sinistra dopo, si contrapponeva il nascente sogno operaio e la vivacità di élite mai prone al potere. Una città che, da Gianturco a Bagnoli, voleva disperatamente un futuro che la facesse uscire dal presepe del plebeo con la mano davanti. Tutto perduto, tutto cancellato e di quei distretti industriali restano solo rovine abbandonate e magazzini per i discount di paccottiglia. Una resa incondizionata, senza che ci siano le voci ferme degli Eduardo De Filippo o dei tanti intellettuali resistenti napoletani di allora: solo rappresentazioni autocompiaciute di sottoculture criminali spacciate per autenticità identitaria.

(continua)


da: ilmanifesto.it - 9 marzo 2024



Napoli invisibile, nei quartieri orientali


Enrico Caria, Luca Musella

16 marzo 2024


REPORTAGE. Seconda puntata, nell'ex zona industriale da Ponticelli a Poggioreale



Assai lontana da quei cliché di Gomorra catapultati dalla Napoli nord di Secondigliano e Scampia sui divani dei teleturisti virtuali, come dalle cartoline iperrealiste d’un ventre di Napoli siliconato per turisti reali… ecco a voi: l’immensa periferia della Napoli orientale!A prima vista i quartieri di Napoli est (Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, Poggioreale…) hanno gli stessi tratti somatici d’ogni altra periferia d’occidente, con una non sottile differenza: qui, nella ex zona industriale dei curcumvesuviani, l’ascensore sociale che ha trasformato l’Italia nel dopoguerra non s’è mai davvero messo in moto. Col risultato che una troppo rapida ascesa e declino del mondo operaio, non ha fatto in tempo a sostituire realtà agresti e non ha generato realtà nuove.


Persa così l’identità contadina e mai acquisita quella operaia, questo lembo di terra è rimasto in sospeso, a mezz’aria, ne’ carne ne’ pesce. Siamo nella terra del «de», deindustrializzazione, delocalizzazione, decrescita, abitata in prevalenza da una piccola borghesia divorata da una doppia paura: quella fisiologica di vivere in una sorta di far west abbandonato a sé stesso e quella grottesca di volersi sentire altro dal contesto in cui s’alberga. Una patologia emotiva dove allo scivolamento progressivo verso l’indigenza, si aggiunge il giogo nevrotico del mantenere le apparenze. Costi quel che costi.


Giorgio (che non si chiama Giorgio) è disoccupato ma per sua fortuna sua moglie è benestante e hanno una casa di proprietà. Potrebbe quindi mettersi l’anima in pace trovarsi un hobby o passare il tempo a guardare lavori in corso, invece: «papà è nel suo studio a lavorare, non fate rumore…» raccomanda sua moglie al figlio e ai suoi amici, patetica mess’in scena per nascondere una verità fatta, oltre quella porta chiusa, di parole crociate, giornali sportivi e siti porno, col povero Giorgio che ogni mattina si veste come un dirigente aziendale e siede immobile alla scrivania fino a ora di pranzo; quindi breve pisolino pomeridiano e di nuovo in «ufficio» fino a ora di cena.


Allo stesso modo capita che vai da un barbiere, bottega vuota, lui rigorosamente sfaccendato, ma per darsi un tono i capelli non te li taglia perché riceve solo su appuntamento… e quando ci ripassi te lo ritrovi chiuso perché è fallito. Così.


A Napoli est le saracinesche chiudono a ritmo vorticoso e su interi pezzi di strada il deserto del commercio al dettaglio è totale, in uno scenoagrafi che da Stazione Centrale a Poggioreale non vede un filo d’erba o un lampione che faccia abbastanza per vederci a un palmo dal naso, coi mezzi pubblici che passano a ogni morte di Papa e sono stipati come carri-buoi.


A spingersi poi più su, da Poggioreale ai confini nord della Città Metropolitana, non un’area verde, solo vuoto, sale slot e centri commerciali. E così, schiacciata dalla brutalità del sotto proletariato con i suoi codici e i suoi riti dalla quale tenta di non essere ingoiata, questa parte residuale di piccola borghesia ancora aggrappata a Napoli orientale come un naufrago a un rottame di legno, prima si fa in quattro per far studiare i figli e poi si fa in otto per spedirli al nord Italia o direttamente all’estero.


Per dirla col vecchio Trockij che pur non conoscendo le vie Lattee di queste periferie napoletane ne aveva ingarrato il destino: «la classe media è un tragico, sfortunato relitto del passato, incapace d’estirparla del tutto il capitalismo è riuscito a ridurla al punto più estremo di degradazione e sofferenza…».


Ciro è nato e cresciuto a Ponticelli. Sessantatré anni, ipovedente, percepisce un indennizzo di invalidità così micragnoso che alla fine del mese proprio non ci arriva. E così da una parte non può guidare un’auto, dall’altra lavora a un tornio come meccanico di precisione. Ogni mattina si fa venire a prendere da un altro operaio a cui paga la benzina e finché oltre alla vista non ci perde pure una mano, lui non smette di faticare; ma dalla sua, Ciro, ha che col tornio è così avviluppato in un rapporto quasi sensuale, che anche se non ci vede una mazza la macchina la «sente» e i pezzi che realizza sono ancora i più precisi. Tiramm’ annanz’.


Il prossimo incontro avviene su un bar dell’Asse Mediano, la statale che si allunga sulla faccia dell’area a nord di Napoli come una smorfia: siamo nei pressi di Marcianise dove sull’oceano grigio del cemento sbocciano bar californiani dai nomi esotici. A quest’ora poco traffico, entriamo e usciamo da cittadine e frazioni senza manco accorgercene. Un tempo ci stava Napoli e ci stavano tanti paesi attorno, ma la città che poi scompare si porta appresso pure la periferia in una poltiglia di nulla dove ogni identità si perde. Cosa che però non vale per Salvatore.


Salvatore Iasevoli, che nel suo profilo social scriverà pure nato a New York ma lui è nato a Mariglianella, frazione tra Pomigliano d’Arco e Marigliano: «quattro famiglie in tutto», ricorda fissando un punto nell’aria, «poco più che una masseria, quando mio padre fu assunto all’Alfasud andammo a vivere a Pomigliano che a me pareva Parigi…» poi l’incontro con il mitico Marcello Colasurdo, voce storica degli «Zezi», la febbrile partecipazione all’underground napoletano degli anni ‘90, l’artigianato d’autore e la vita che si mette a correre.

Oggi Salvatore è uno splendido cinquantenne che canta col Gruppo Popolare Terra e Lavoro e continua a produrre strumenti musicali artigianali. Nella sua esperienza culturale e di vita, somma e sintetizza tante Napoli diverse: agricole, operaie e infine liquide: «Ricordo la tuta di mio padre, le sue mani… oggi come oggi gli operai sembrano tanti programmatori di computer.»

La musica, quella che riscopriva tradizioni e formava coscienze politiche, trasfigurata in ritornelli folk alla moda, le sue lotte decomposte dalla pigrizia telefonica delle nuove militanze. «Una volta, per solidarietà con quattro operai in difficoltà,» rammenta, «Marcello Colasurdo rimase fuori dai cancelli dell’Alfasud sette giorni di fila e alla fine lì eravamo in migliaia! Oggi l’ultima protesta alla quale ho partecipato ci stavano due disoccupati su un campanile e io solo che me li guardavo assettàto ‘ncopp’a ‘na seggia.» Salvatore è un vulcano di energia positiva e mentre ripercorre l’ottusa danza di questo tempo, lui rimane sereno e quelli turbati siamo noi. Ci salutiamo in fretta, quasi con pudore.


Poi ci ributtiamo su quell’Asse Mediano che unisce tanti puntini del niente nell’hinterland napoletano, ma a un certo punto ci perdiamo fino a ritrovarci intrappolati in una specie di check point sotto al cimitero di Poggioreale assediato da eterni lavori in corso. Un budello di lamiere oltre il quale scorgiamo strani movimenti di bare spostate da una parte all’altra… pompieri? Racket del caro estinto? Sia come sia, pare che ai circumvesuviani non sia garantito manco l’eterno riposo.


E mo’ basta! dirà qualcuno, scrivete a quattro mani ma co’ ste dita sempre nella stessa piaga, beh, allora al Calvino delle Città Invisibili l’ultima parola: «l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, è quello che è già qui, che abbiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.


Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso, esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio». Altro che passerelle a Caivano che al sistema gli fanno un baffo.

(continua)


da: ilmanifesto.it - 16 marzo 2024



Napoli migrante, il volto meticcio della città


Enrico Caria, Luca Musella

16 marzo 2024


REPORTAGE. Terza puntata di un lungo reportage partenopeo, qui il volto di chi a Napoli è arrivato da lontano, sperando in un posto nel mondo



Numeri: Milano ne ha 5 volte tanti, Roma quasi 4, Torino 1 e mezzo e perfino Firenze con i suoi 380.000 abitanti ne ha qualche migliaio in più di Napoli-Napoli che di abitanti ne conta il triplo. Eppure l’impatto che hanno qui è del tutto particolare e assume forme impensabili per qualunque altra città europea. Parliamo di immigrati che com’è normale che sia, vorrebbero tutti volare al Nord. Lì il lavoro c’è. Lì il flusso della storia passa veloce. Qui no. Chi qui ci resta impigliato finirà col sedimentarsi in un meticciato che a Napoli – da ventuno secoli crocevia di etnie e colori – ha caratteristiche rese uniche dalla sua storia.


Un mescolarsi di vite scaraventate su questa terra gravida di nostalgie, dove la speranza di migliorare il proprio destino cozza con l’incapacità cronica di sviluppare una teoria praticabile di esistenza. Dove la nostalgia per una casa perduta per sempre viene rimodellata dalla ruvidità del precariato come dalla leggerezza del «chi ha avuto, ha avuto, ha avuto/ ha dato, ha dato, ha dato». Che è poi quel che rende questa parte di umanità migrante, poetica e universale.


Altri numeri: dei migranti stanziali a Napoli il 39,9% proviene dall’Europa, il 37,5% dall’Asia, il 17,5% dall’Africa. Questi ultimi sono quelli che si notano di più perché hanno in gran parte messo radici nei pressi della stazione. Oppure ci calano dalla sterminata periferia ogni giorno, nella speranza di sbarcarci un lunario qualunque. Come la piccola Katy, un’identità sospesa tra Casalnuovo e Mogadiscio, né italiana e manco più somala; lei, ogni mattina sale sul 169 per Piazza Garibaldi dove ci sta tutto e il contrario di tutto. A suo modo diversa dalle altre stazioni, perché allo sfascio della marginalità mischia la speranza ottusa di essere la porta dell’Europa.


Riaperta al pubblico dopo anni, i lavori hanno sfigurato la dignità di questa piazza dai palazzi umbertini con goffi aneliti di modernità, così la vasta area davanti alla stazione è in breve ripiombata in un degrado peggiore del precedente. Qui, tutto un su e giù di fraveca e sfraveca, vènnere o accattà, proprio come prima, solo che prima tutto scorreva nei vicoli intorno alla piazza, mentre ora si srotola all’ombra di enormi, misteriosi cubi di metallo di cui ai più (noi inclusi) sfugge la futura funzione e nelle more fungono da toilette all’aperto per diseredati e senzatetto.


Sia come sia quella di Katy per Piazza Garibaldi è un’ossessione che la donna coltiva quotidianamente: qui vende cibi strani in bustine coloratissime per lo più acquistate da altri africani. Al pomeriggio gira tra Porta Nolana e Porta Capuana e la notte attraversa nuovamente le galassie lontane con il 169. Di parlare con noi non ha molta voglia, a che serve? Ma comprando qualcosa le diamo un piccolo motivo per farlo: «da voi la morte si sente, da noi si vede…» ripete come una nenia, poi spiega, «mio padre era generale, anche i miei fratelli erano nell’esercito. A me m’hanno fatto scappare via che ero una ragazzina… sono tutti morti ma io non li ho visti. Mia madre, invece, era di un’altra tribù e io, quindi, non appartengo a nessuna delle due. Sono clandestina anche a casa» continua Katy mordendosi un labbro «un cugino potrebbe ammazzarmi o vedermi nemica. Non torno per mio figlio e per mantenere vivi i miei cari. Perché restando a Napoli non vedo la loro morte: sono tutti vivi».


Piazza Garibaldi. La guerra lasciata alle spalle che rispunta dai telefonini dei viandanti, il peccato fatto di sesso a cottimo e devastazione, ma anche tante idee di redenzione con moschee e chiesette di culti misteriosi che sbucano dai garage. Il figlio di Katy. Se le identità della madre sono sospese tra Casalnuovo e Mogadiscio quelle del figlio sono graniticamente napoletane, con quelle sue movenze da guappo dei Quartieri Spagnoli, lui rappresenta alla perfezione quel meccanismo identitario avvolgente che chiamiamo meticciato. Ed è, il figlio di Katy, paradossalmente più straniero alla sua stessa madre che a noi. Sedimentato in questa terra dove l’illegalità la fa da padrona, il ragazzo va progressivamente scivolando verso una microcriminalità che con lo sfilacciamento dei clan di camorra in seguito alla pandemia, vede ora una progressiva apertura di spazi di marginalità alla nuova delinquenza di extra-napoletani. Alieni che non hanno una diversità razziale, nel senso di bianchi, rossi o neri, ma un unico comun denominatore: la fame. E lo stesso dialetto diventa lingua madre per molti di loro, come in un paradosso di una maternità incerta. Sul pianeta Napoli, per poter reggere alle tante sue vergogne, bisogna pure reinventarsi le condizioni che rendono possibili nuove forme di vita.


Così, sia le piccolissime cose che i valori universali, si frullano in un anelito alla sopravvivenza che esclude, a priori, ogni razzismo; meglio, lo identifica in due uniche razze: chi mangia e chi è mangiato. Nel dedalo dei vicoli intorno a Piazza Garibaldi persino i moralismi borghesi si scompongono nello sguardo furbo delle tante bambenelle africane, qual tragico destino di non aver altro che il proprio corpo per sopravvivere. Il sorriso come unico baluardo ad uno scuorno che renderebbe la stessa vita impraticabile, perché sprovvista di aria, luce, cibo. Quella ricerca dunque di un «Pane Quotidiano» possibile, che crea legami, a volte violentissimi, ma a tratti capaci di scatenare solidarietà orizzontali. Così scopri che anche la fuga dei migranti, il suo evolversi, acquista significati di volta in volta diversi e mentre c’è chi corre per paura di non mangiare, c’è chi corre per scappare dalla propria paura. Le migrazioni, sia quelle che arrivano da noi, tanto le nostre, hanno nella paura un motore infernale. Si scappa da una guerra, da una miseria certa e inevitabile, ma si scappa anche per evasione, per la fuga da troppi sé scamazzati dai vuoti. Così questa umanità immensa e varia si disperde indistinta nella paura, ma misteriosamente scopre anche la dolcezza di un’ibrida e inspiegabile autenticità. È la vertigine del nulla che spinge a mischiarsi, a stare insieme, a vedere i goal di Osimhen come preghiere esaudite.


«A voi sembrano tutti uguali ma gli africani sono tra di loro, non solo diversi per origini ma anche per destino… i senegalesi hanno il commercio nel sangue, i tanzaniani sono gran lavoratori, ai nigeriani piace ostentare… » a parlare è Luca, quarant’anni, cappelletto verde marcio con visiera, tatuaggi tribali sugli avambracci: più del comboniano che ha vissuto in una baraccopoli africana per dieci anni, sembra un gangsta-rapper. Luca adesso lavora per la Caritas e alla stazione di Napoli ci passa spesso per occuparsi di qualche caso particolare: «una volta arrivati a Napoli la maggior parte degli africani prende un treno per Caserta e di lì a Castelvolturno, la Soweto d’Europa, da dove poi si disperdono per tutt’Italia a spaccarsi la schiena con la vendemmia o a raccogliere arance, pomodori… il tutto rigorosamente al nero. Castelvolturno dove mediamente stazionano 20, 30mila migranti venuti fin quì da Mamma Africa nell’illusione di sfuggire all’inferno, finiti incastrati in un altro inferno fatto di clandestinità, camorra, caporalato, cantieri abusivi, prostituzione, pastori pentacostali, connection-houses… ma questa è un’altra storia. Quella che Io Capitano non ha fatto in tempo a raccontare.


da: ilmanifesto.it - 30 marzo 2024

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