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TEATRO. "VORREI UNA VOCE". Tindaro Granata la dà, attraverso Mina, alle recluse del carcere di Messina

Ispirato dal percorso teatrale realizzato al Teatro 'Piccolo Shakespeare' della Casa Circondariale di Messina, ideato da Daniela Ursino con la sezione femminile di Alta Sicurezza.
di MARIO BIANCHI

di Mario Bianchi

klpteatro.it


Dopo l’enorme successo del suo primo spettacolo, “Antropolaroid“, creazione dolorosamente autobiografica ambientata nella sua terra natale, Tindaro Granata, questa volta assistito alla regia da Alessandro Bandini, è tornato in scena da solo, a Lugano, con un altro spettacolo, “Vorrei una voce”, costruito intorno a Mina, vero e proprio monumento non solo della canzone italiana, ma della cultura popolare del nostro Paese.


Ma non sarebbe corretto né esatto dire “da solo”, perché insieme a Granata abbiamo fortemente sentito, vicine e indissolubilmente legate a lui e alla sua vita, anche le detenute della Casa Circondariale di Messina, in cui l’artista ha tenuto un lungo ed intenso laboratorio teatrale denominato “Il Teatro per Sognare”, ideato e organizzato da Daniela Ursino, direttrice artistica del “Piccolo Shakespeare”, la struttura teatrale costruita dentro il penitenziario, durante il quale la cantante cremonese è stata al centro del progetto, con tutto il variegato immaginario che la concerne.


“Mina per me è sempre stata un punto di riferimento, fin da quando ero ragazzino: attraverso le sue canzoni ho analizzato, raccontato, pianto; mi sono disperato per i miei tormenti d’amore e, in generale, della vita. Ho realizzato che, ogni volta che facevo i conti con me stesso, li facevo sempre con una colonna sonora di sottofondo, e questa era la voce di Mina” ha confidato Tindaro Granata.


E’ per questo che l’artista siciliano ha deciso di condividere questo suo sentire con le detenute: “Mi è sembrato che la mia femminilità interiore e quella inserita nelle canzoni di Mina fosse la chiave giusta di accesso per entrare in contatto con quelle donne che in carcere avevano perso la loro, vestite tutte allo stesso modo e costrette a vivere una vita che non era più la loro”.


Ed è così che la colonna sonora di quelle canzoni, con le loro significanti parole, molte delle quali impresse nella nostra memoria, è stato il filo che ha legato l’artista siciliano alle detenute: quelle canzoni, quelle parole che interpretano benissimo i sogni, le passioni disilluse e nel medesimo tempo le aspirazioni di anime costrette dalla vita ad essere rinchiuse in una prigione.


Ovviamente le sbarre reali sono anche quelle simboliche con cui ci troviamo ogni giorno a fare i conti, e che limitano i nostri desideri, le nostre ambizioni e speranze. Ed è in questo senso che Tindaro Granata, rifacendosi idealmente al precedente assolo “Antropolaroid”, ne amplia in modo personale il senso, collegando lo spettacolo ancora una volta sia alla sua infanzia, al suo essere estraneo, in una regione in qualche modo a lui arcaicamente ostile come la Sicilia, sia all’esistenza amara e piena di prospettive tradite di Assunta, Vanessa, Gessica, Sonia e Rita, a cui l’artista dona vita attraverso il suo teatro.


Lo fa, interpretandone a mo’ di cunto, spesso intriso di ironia, le vicende umane piene di difficoltà e di amore vilipeso e, nello stesso modo, mettendo in scena il pudore di queste donne, diverso uno dall’altro. Senza che quasi ce ne accorgiamo, le canzoni di Mina, con le loro parole, si raccordano perfettamente al racconto delle protagoniste, che vediamo vive e reali sul palco in tutta la loro forza, attraverso la verità teatrale di Granata, che senza veli mette a nudo anche le proprie di difficoltà, da quando era bambino fino a quelle che lo assalgono ancora oggi quando deve andare in scena.


Con il loro espressivo “accento” siciliano, percepiamo le ritrosie, il sentimento d’amore ferito, ma soprattutto la pena di vivere in un mondo dominato dai maschi.


I testi di Mina diventano per le detenute una specie di nuova educazione sentimentale, un nuovo approccio di amore alla vita, alla ricerca di una nuova identità, questa volta intrisa di felicità.


SULLE NOTE della tigre le donne del gruppo si sono raccontate, affidando poi all’attore la missione di portare in giro la loro esperienza, con tutta la forza del loro coinvolgimento in quel percorso coscienziale. È stato il figlio stesso di Mina, Massimiliano Pani, discografico, a farlo sentire alla cantante, che si è entusiasmata dando loro libero uso del suo repertorio. E quelle note sono ora percorso e controcanto delle storie che l’attore, solo sul palco (per ovvi motivi di sicurezza le donne del carcere di Messina non hanno potuto seguirlo) propone (e appassiona) ogni sera al pubblico, nello spettacolo Vorrei una voce. Un percorso di racconti e sentimenti che è come un flusso coscienziale, di cui Tindaro Granata si riveste, e commuovendosi quasi, tra storie e canzoni e ricordi, guida il pubblico in un viaggio tanto intimo quanto «scandaloso», quanto può esserlo ogni umanità se raccontata sinceramente.


Il piccolo palco dello Studio Foce viene vestito di volta in volta con i costumi scintillanti pensati da Aurora Damanti, gli stessi che le detenute hanno indossato nell’esito finale del laboratorio. E mentre il palco viene inondato dalle luci di colore rosso scuro e giallo pastello di Luigi Biondi, che si rifanno a uno degli ultimi concerti di Mina, quello tenutosi nel 1978 alla Bussola, Tindaro Granata rende ancora una volta un omaggio al teatro e alle sue infinite possibilità di redenzione. Assunta, Vanessa, Gessica, Sonia e Rita, girate di spalle al nostro sguardo, guardano dall’altra parte, verso una platea immaginaria, ma molto più reale di quella in cui siamo seduti noi, riconoscendo tra quel pubblico tutti i volti che le hanno accompagnate nella loro vita reale, fiere e commosse di essere su un palco a riconquistare attraverso il teatro la loro dignità perduta.



IL VIDEO



  • Vorrei una voce

di e con Tindaro Granata con le canzoni di Mina

ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del teatro Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina nell’ambito del progetto Il Teatro per Sognare di D’aRteventi diretto da Daniela Ursino

disegno luci Luigi Biondi

costumi Aurora Damanti

regista assistente Alessandro Bandini

amministratrice di compagnia e distribuzione Paola Binetti

tecnica di compagnia Roberta Faiolo

sarta Elisa Ortelli

produzione LAC Lugano Arte e Cultura in collaborazione con Proxima Res

durata: 1h 15′

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