top of page

TEATRO. Ci ha lasciato Enzo Moscato, il poeta del teatro fra rinascita e tradimento

"Forse il più straordinario poeta che Napoli abbia espresso negli ultimi decenni. La sua voce, dalla cavità della Napoli più antica e popolare, ha toccato le zone profonde delle vite di chiunque lo abbia ascoltato." (Mario Martone)


Addio all’artista, riferimento della nuova scena partenopea, narratore in profondità del presente. Il rapporto con la tradizione, «Rasoi», Napoli e le sue culture, la canzone


Gianfranco Capitta

16 gennaio 2024


Se ne è andato così, con la sua solita elegante discrezione di sempre, Enzo Moscato, il gran signore della scena napoletana (e non solo, ovviamente) che lui è stato in grado di far rinascere e fiorire, fuori dagli stereotipi della tradizione, ma a questa saldamente avviluppato, e a cui è andato applicando tutte le chiavi e le profondità del presente. Senza mai rinnegare nulla del suo passato, nel bene e nel male, ma ogni volta facendone rinascere ricchezza e possibilità. Un grande artista Moscato, e un grande reinventore di tutti quegli aspetti, in bocca ad altri potenzialmente imbarazzanti, ma di cui lui scovava e scavava la spinta creativa.


DIFFICILE definire il suo campo di azione: la musica e il teatro, di cui individuava o faceva scaturire l’energia profonda, anche quando appariva compromessa dall’abuso e dal gusto incerto, spesso a un passo dal kitsch: dalle canzonacce come dal deterioramente della sceneggiata, da cui riusciva a far riemergere vitalità e poesia. Era attore, autore, cantante e fine dicitore, poeta, e severo fotografo di una realtà sempre in bilico sul degrado (o sul facile consumismo). Gli stereotipi con lui diventavano forza storica su cui lavorare per rileggere in profondità il presente.


AVEVA 76 ANNI Moscato, e negli ultimi tempi appariva provato da malessere e malattie. Ma manteneva una forza da leone, nella sua piccola corporatura capace sempre di giganteggiare in scena. O nel confronto col pubblico. Solo un pugno di mesi fa, invitato a raccontarsi davanti agli spettatori di un teatro decentrato a Roma, il Lido di Ostia, aveva sedotto, quasi ipnotizzato una platea che pure non era a lui abituale.


La forza del pensiero, e la conoscenza profonda di cultura e linguaggi, alti e bassi, formalizzati o «ruspanti», erano la sua via maestra. Senza mai assuefarsi al dominio selvaggio della tradizione, ma senza mai rinnegarla: era capace di inventare ogni volta vie di uscita che sul palcoscenico calamitavano lo spettatore, in un territorio complesso di alto e basso, in cui lui trovava il bandolo di creatività per condurre il pubblico ad un esercizio sempre più delicato e difficile: intravvedere il nuovo senza moralistici rifiuti del vecchio.


Coltissimo in diversi ambiti, era capace di mixarne le vie e i valori, per raggiungere, assieme allo spettatore, una intesa rassicurante e «gradevole, anche sull’orlo del precipizio di kitsch e faciloneria cui siamo ormai abituati.

Enzo Moscato: "La tradizione ha in sé il concetto del tradimento. Come ci insegnano Viviani, Beckett, Artaud, il teatro non si misura con la realtà ma è piuttosto il suo doppio."

Era un grande poeta in questo, un maieuta capace di far emergere ricordi ed esperienze (da una sceneggiata a una canzone del festival di Napoli) che erano punti di partenza per prese di coscienza poco usuali oggi a teatro (e non solo, naturalmente). Un «imbonitore» discreto e signorile di mete altissime, che ciascun spettatore poteva raggiungere grazie a lui: poesia e lucidità, godimento e pensiero.


Non a caso è stato maestro (renitente e modesto, non volendo e schermendosi ogni volta) di intere generazioni di artisti della Napoli di oggi, e non solo. La sua prima uscita pubblica fu opera dell’acume assai rimpianto di Franco Quadri, che aveva preso, per rinnovarlo, le redini del Premio Riccione, istituzione teatrale di drammaturgia in relativo declino a metà degli anni ’80. Il colpo da maestro fu proprio la «scoperta» della scrittura di Moscato. Il testo presentato al concorso, Pièce noir, fu un materiale esplosivo per l’intera scena italiana. E non solo. A interpretarlo, nel 1987, fu chiamata una delle massime signore, se non la più grande e complessa, del teatro italiano, Marisa Fabbri. E dopo di lei la crème della scena, napoletana e non solo, cominciò a contendersi testi e presenza di Enzo Moscato. Basta ricordare Isa Danieli, Cristina Donadio, Fulvia Carotenuto, Angela Pagano, Imma Villa. D’altra parte assieme a lui un altro giovane autore aveva preparato nuovi testi sfolgoranti, Annibale Ruccello, ma la morte prematura gli impedì poi di testimoniare e allargare il proprio lascito artistico.


Proprio all’inizio degli anni ’90, Moscato è stato padre nobile, con un suo testo (cui lui partecipava in scena) della rinascita della nuova scena partenopea, destinato a un successo internazionale. Il suo Rasoi segna un cambio epocale: quell’esperienza unisce in scena la pratica e la ricchezza artistica di Moscato con quella di Mario Martone e di Toni Servillo (oltre a Iaia Forte, Licia Maglietta e molti altri) che proprio da allora partirono verso la grandezza e il riconoscimento universale della loro maestria nella regia e nella recitazione. Oggi sembra quasi facile nel ricordo tutto questo, ma a fine millennio fu una sorta di «rivelazione divina». Tra la sorpresa della critica sempre distratta, e l’entusiasmo popolare del pubblico che poi ha segnato e indirizzato la carriera nel proprio campo dei due artisti.Moscato, sempre schivo e sempre modesto ha continuato con metodo il proprio lavoro: magnetico in scena nel «racconto» di un rapporto costante con le culture diverse che da Napoli si intrecciano verso il mondo.


HA INCISO, ad esempio, un disco che ha fatto storia, Embargos, di cui non era solo interprete ma patron di un’operazione culturale (che è poi continuata ininterrotta) di ripescare nella canzone napoletana fili, percorsi, sentimenti e approdi del tutto inimmaginabili prima. Canti e parole meravigliose da sentire, eppure dense delle problematiche che in scena portavano, all’attenzione affascinata di ogni ascoltatore.


L’artista ha continuato (fino a ieri si potrebbe dire, nonostante il limiti della salute fragile) il suo percorso che era il rapporto col pubblico. Senza mai negarsi, unica discriminante l’intelligenza e la libertà del pensiero e della ricerca. E della poesia, se è vero che non avendo mai smesso di andare in scena (gli ultimi titoli al glorioso San Ferdinando eduardiano) ha continuato a inventare, elaborare, dare corpo scenico ai fantasmi di una cultura, di un modo di vivere, di leggere poeticamente il mondo, nelle sue glorie e nelle sue oscurità.

Mario Martone: "Dobbiamo ricordare Enzo Moscato non solo come grande artista di teatro, ma come poeta. Forse il più straordinario poeta che Napoli abbia espresso negli ultimi decenni. La sua voce, dalla cavità della Napoli più antica e popolare, ha toccato le zone profonde delle vite di chiunque lo abbia ascoltato. È stato il nostro grande poeta orale, che ha ricongiunto il passato col presente. Moderno, postmoderno, e oltre. Un uomo magico, un mistero. La sua opera resterà, come quella di Eduardo De Filippo e Raffaele Viviani."


fonte: ilmanifesto.it - 16 gen. 2024


 

Enzo Moscato, a piedi nudi sul palco


ANNIVERSARIO. Nato il 20 aprile ’48: a tre mesi dalla scomparsa, un ricordo di un grande del teatro

Enzo Moscato, foto di Fiorenzo De Marinis


di Domenico Sabino

20 aprile 2024


Giesù, Giesù!/A morte, ccà, è ssulo festa a mmare,/nu rinfresco,/un giro pirotecnico/cchiù terribile ’e n’invasione.» Scheggia tratta da Partitura (’88) che con Rasoi (’91) incarna una scrittura poetica tra le più labirintiche, rapsodiche, irregolari che Enzo Moscato (Napoli, 20 aprile 1948/13 gennaio 2024) abbia scritto, ovvero, messo sulla pagina e poi messo sulla scena. Perché il lavoro di Moscato germina, sin dai primi scritti, innanzitutto sulla pagina.


L’Orfeo-Moscato canta e dis-canta una Lingua ibrida immaginifica che amalgama suoni dialettali, ricordi, antiche nenie, lingua colta, linguaggio dei mass media, linguaggio ancestrale degli avi, immagini, sensazioni, filosofia, meta-storia, espressioni idiomatiche e che palesemente si distanzia dal dialetto della tradizione. Una parlata della differenza, per dirla con Derrida, che si autonomizza radicalmente dalla mise-en-scène attraverso un processo lacaniano che privilegia il rapporto con la Lingua. È interessante evidenziare che tra il linguaggio orale – appreso da bambino tra vicoli e slarghi dei Quartieri Spagnoli dov’è nato e vissuto fino al ’61 – e il linguaggio scritto, quest’ultimo è considerato una forma contaminata e appestata del primo.


Si può dunque affermare che è una Lingua-drammaturgico-filosofica in cui convivono modelli espressivi e culturali differenti e dove Moscato fa emergere il suo essere filosofo che filtra lo sguardo de-narrandolo attraverso il pensiero di Lacan, Deleuze, Artaud e Foucault.


A Lacan, infatti, dedica La psychose paranoïaque parmi les artistes, andato in scena nel ’93 al Teatro Galleria Toledo di Napoli. A tal proposito si ricorda che Moscato si laurea in filosofia all’Università Federico II di Napoli con una tesi sui «Rapporti conflittuali tra i nascenti movimenti di liberazione omossessuali e femminili e le dinamiche psicanalitiche». Conseguita l’abilitazione in Scienze Umane e Storia, inizia a insegnare nelle scuole superiori di Napoli. Nel contempo intraprende l’attività di drammaturgo. La mattina insegna e la sera è in scena. Tale ‘scissione’ fisico-mentale durerà fino alla seconda metà degli anni Ottanta.


Il primo testo – scritto e interpretato – è Carcioffolà (’79), allestito a Roma al Convento Occupato. È una rivisitazione disarmonica, dissacrante e anticonformista di alcune drammaturgie classiche napoletane, in primis della sceneggiata attraverso la figura di un travestito.


Nel ’74 ai corsi abilitanti conosce Angela Putino (Napoli, 1946/2007), filosofa, femminista della differenza sessuale, docente di Bioetica all’Università di Salerno. Ne nasce una fraterna e sincera amicizia, una condivisione di molte passioni – letteratura, poesia, filosofia – durata più di trent’anni. Su Simone Weil, Julia Kristeva, Roland Barthes s’imperniano i loro discorsi, che negli anni Settanta a Napoli sono frequentati da pochissimi teorici. Con lei collabora presso la facoltà di Filosofia dell’Università di Salerno alle ricerche semiologiche di analisi del testo, ricerche che si concretizzano nel ’77 con il saggio L’acqua senza sponde della trasgressione pulsionale – «Mémoire» di Rimbaud.


La casa di Angela, donna molto ironica e divertente, è una piazza, un’agorà frequentata «dai suoi amici, che erano tutti variopinti, irregolari, fuori dalle righe. Lei è stata la prima a darmi fiducia sulla scrittura. Naturalmente io già scrivevo, però era un rapporto tra la scrittura e me, è stata lei a dirmi quando le capitarono le mie cose tra le mani che trovava straordinarie. Io avevo scritto delle poesie di cui alcune dedicate a lei – poesie che non ho intenzione di pubblicare, perché le vedo come cosa mia – e lei nel restituirmi la copia dattiloscritta, mi aveva scritto in tedesco ’siamo clown l’uno dell’altro’. C’era infatti una sorta di specularità tra di noi», dice Moscato. È lei, difatti, a incoraggiarlo a proseguire col Teatro, a mettere in scena le scritture poetico-drammaturgiche.


Per Scannasurice (’82) il ruolo di Angela è determinante: tutto comincia a casa prima con la lettura dei frammenti, poi con le prove e la messa in scena. Partecipa intensamente e c’è un assiduo confronto su regia e composizione. Il monologo debutta nello stesso anno a Napoli allo Spazio Libero. Scannasurice è una sorta di discesa agli inferi – locus sempre presente nelle sue scritture – nella dissestata geografia urbana e morale dopo il terremoto dell’80. Il fulcro è la solitudine, la marginalità de-narrata in un monologo delirante, frammentario e sconnesso da un travestito «i cui abiti femminili non hanno alcuna preziosità, anzi sono quasi sbrindellati, laceri, al limite della pezzenteria», dove ricordi personali, episodi collettivi, illogiche digressioni si tessono con accenni di canto.


Sempre nell’82, a Venezia – Basilica di San Lorenzo – nell’ambito del Carnevale del Teatro debutta con la pièce Signurì, Signurì…, liberamente tratta da La pelle di Curzio Malaparte e messa in scena col Gruppo Teatrale del Liceo ‘Giuseppe Mercalli’ di Napoli. Al Teatro Sancarluccio presenta nell’83 Trianon, testo che strizza l’occhio a Genet, nell’86 Occhi gettati, opera dove affiora tutta la sua dirompente potenza drammaturgica e poetica, e Tiempe sciupate (’88), un canzoniere messo in scena con Pina Cipriani e in cui è anche chansonnier.


In qualità di cantante realizza varie meta-performance come Embargos (’93), Cantà (2000), Hotel de l’univers (2005), Toledo Suite (2012), Modo minore (2020). Con la consacrazione in ambito teatrale conseguita nell’85 con la vittoria del Premio Riccione/Ater con Pièce noire (Canaria) – debutto Teatro Bonci di Cesena, 1987 – s’impone all’attenzione della critica nazionale e non solo e del pubblico collocandosi tra gli esponenti più influenti della cosiddetta ‘Nuova Drammaturgia’ ovvero del ‘Dopo Eduardo’. A questa corrente drammaturgica, definizione che Moscato non ha mai condiviso, convergono anche Annibale Ruccello e Franco Autiero, uniti oltre che da una fraterna amicizia anche da un’intensa collaborazione artistica e da battaglie politiche tese a un rinnovamento radicale delle strutture amministrativo-culturali della gestione teatrale a Napoli.


Tuttavia, se ‘Dopo Eduardo’ è errata come categoria temporale – giusta sarebbe Post De Simone –, è azzardata dal punto di vista concettuale, perché sembra riesporre quell’idea edipica e oleografica di tradizione, imbalsamata dal principio di ereditarietà e filiazione che questa generazione di autori ha rifuggito.


Le drammaturgie di Moscato, Ruccello, Autiero richiamano piuttosto a un «teatro dell’orfananza» scevro di padri da imitare e/o ricordare. Moscato, infatti, con Orfani veleni – Esercizio di de-mascherazione da Fuga per comiche lingue, tragiche a caso (’90), debutto Leuciana Festival 2002 – oltre a omaggiare ‘L’Orfano Veleno’ sua prima Compagnia Teatrale, evidenzia e rivendica il profondo desiderio d’apocrifia, «di una scrittura finalmente senza padri, senza storia, orfana e anti-edipica», i cui percorsi nomadi, libertari, coscientemente antitetici e marginali rappresentano il tossico poetico ossia il ‘venenum’. Una poetica caratterizzata dai lutti-manifesto: Ruccello, Neiwiller, de Bernardis, Autiero, Bene.


Il negare, abiurare i padri – in primis Eduardo – è la genesi del suo Teatro. Con Eduardo raggiunge un’apparente pacificazione con Tà-Kài-Tà – debutto Teatro Nuovo di Napoli, 2012 – che, seppur non imperniato su dati biografici o consuete mummificazioni agiografiche al naftalene, ripercorre le fasi della sua vita, con uno squarcio su un evento tragico: la prematura morte della figlia Luisella.Un rituale – com’è tutto il suo Teatro – dalla struttura poetica polisemica, un periplo immaginifico e metateatrale che fa riferimento anche al rapporto di Eduardo con Pasolini e al film Porno – Teo – Kolossal, che li avrebbe visti insieme se nel ’75 Pasolini non fosse stato massacrato.


Un Teatro segnato dalla perdita, dall’assenza, su cui incombe sempre la Nera Signora: «Morte, chi or’è? Songh’’e nnove, e papà nun vène!». Dove i Morti che con-vita in scena non schiudono solo «Buchi, faglie, crepe» ma svelano «legami, suture, catene» creando relazioni rigorose di philia. È il caso di Mal-d’-Hamlé – debutto Santarcangelo dei Teatri, ’94 – ma soprattutto di Cartesiana – prima rappresentazione Sala Assoli, Napoli, ’86, – la versione definitiva sarà Compleanno, delirante party noir in forma di tragico cerimoniale scritto per rielaborare la prematura morte di Ruccello, complice e compagno di scena in diversi allestimenti tra cui Ragazze sole con qualche esperienza – debutto Teatro Ausonia di Napoli, ’85 –, che con Festa al celeste e nubile santuario – debutto Teatro San Carluccio di Napoli, ’84 –, Bordello di mare con città (’87) – prima versione all’interno della rassegna ‘Teatri alla radio.


Europa oggi’, Rai Radio 3, 2000 – e Pièce noire costituiscono il primo nucleo compositivo di Moscato – dove si registra un’anomalia strutturale nella scrittura drammaturgica che è connessa solo formalmente alla es-tradizione, poiché segue una traccia di tradimento, trasgressione – in cui la lingua teatrale ovvero la Parola/Verbo ritrova tutto il valore semantico e si fa carico di storie i cui dispositivi de-narrativi estremamente complessi focalizzano e mettono a nudo le immagini più torbide e oscure di una Napoli dominata dall’irrazionale, dalla follia e dalla morte.


Durante la direzione artistica di Leo a Santarcangelo dei Teatri presenta Lingua, Carne, Soffio (’96) Tragitto-Epidemia per Antonin Artaud, Aquarium Ardent (’97) dedicato a Rimbaud e Recidiva (’95) omaggio a Copi che mette in scena nello stesso anno a giugno alla Biennale di Venezia e a luglio a Santarcangelo. Tra le innumerevoli opere necessita annoverare Co’stell’azioni (’95), Sull’ordine e il disordine dell’ex macello pubblico (2000), Kinder-Traum Seminar (2003), Il Sogno di Giruzziello (2007), Raccogliere & Bruciare (2017), Ronda degli Ammoniti (2019).Ha partecipato a diversi film, Morte di un matematico napoletano (’92) di Mario Martone, Viaggio clandestino – Vite di santi e di peccatori (’94) di Raúl Ruiz, I racconti di Vittoria (’95) di Antonietta De Lillo, Mater natura (2005) di Massimo Andrei, Annibale Ruccello – Assoli (2006) del sottoscritto, Quijote (2006) di Mimmo Paladino.


Il Teatro per Moscato è un rituale. Basti notare il suo essere scalzo in scena come i fujenti della Madonna dell’Arco. Teatro che si fonda su un tragitto epistemico del delirio linguistico, della babele: «Bell’è Babbele, bella e senz’uocchie», e che si rifà alla folgorazione che aveva già trafitto Artaud, in cui il Teatro ha valore metafisico.


In tale visione il Teatro concorre a una sorta di ‘traumatismo dello spettatore’, nel senso che la messa in scena non è uno svago sedativo, bensì un mezzo che mette in discussione l’etica dei partecipanti, divenendo cerimonia iniziatica. Un tragitto poetico in cui antropologia, filosofia, semiologia procedono congiuntamente con la scrittura poetico-drammaturgica. Peculiarità che si ritrova in tutto il percorso de-lirico dell’Orfeo-Napolitano, che si eclissa, privo né di Vita né di Essenza, in un triste sabato di gennaio sussurrando ai non-vivi: «E mò tutto è fernuto;/Tutto cantato è stato./Nun t’avutà, nun t’avutà!». E now? RE-CORDARE: Un altro Compleanno a lutto, n’ata festa ’e chiante. Ammèn.


fonte: ilmanifesto.it - 20 aprile 2024

bottom of page