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TUTTE LE ANIME DEI NOSTRI DUE CORPI

DALLA LOTTA PARTIGIANA (1943-1945) ALLA 'LINEA D'OMBRA' MIGRANTE

« 10/1/45 - 7/2/45 - 11/2/45 - Date tristissime per la mia famiglia: la prima ricorda la carcerazione di papà; la seconda quella di Eliseo; la terza gli insulti fascisti rivolti alla mamma e gli schiaffi dati a Erminio da quelle orribili canaglie) »





dal libro "Tutte le anime del mio corpo", quaderno di guerra di


MARIA ANTONIETTA MORO


la partigiana garibaldina "Nataša" ma anche "Anna"




Friuli 1943-1945: una giovane donna, Maria Antonietta Moro, entra nella Resistenza e partecipa prima alle attività dei gruppi antifascisti jugoslavi nel goriziano e poi a quelle italiane. Durante i lunghi mesi prima della fine della guerra, costretta a nascondersi, scrive un diario di cui nessuno finora conosceva l’esistenza. Il documento è stato ritrovato dalla figlia, Lorena Fornasir, solo dopo la morte della madre nel 2009. Accompagnano il diario alcune lettere scambiate dall’autrice con il comandante partigiano Ardito Fornasir, “Ario”, medaglia d’argento della Resistenza, che dopo la fine della guerra diverrà suo marito.






Giovane infermiera di stanza all'ospedale di Gorizia, decide di abbracciare gli ideali della Resistenza semplicemente perché le sembra la cosa più giusta da fare. Carpire informazioni dai malati a tutti i costi, sottoponendoli addirittura agli effetti delle droghe. Questo è stato il compito assunto spontaneamente da Maria Antonietta all'interno dell'ospedale. Salvare prigionieri feriti e in attesa di venir giustiziati. Orari, luoghi degli spostamenti: incessantemente chiedeva e interrogava, per poi annotare tutto e redigere un lucido piano di assistenza a 360 gradi, prodigandosi a far evadere i condannati a morte. Senza smettere di raccogliere di nascosto materiale sanitario da far pervenire alla Resistenza, tutto con una doppia identità: Nataša, insieme ai partigiani sloveni prima e Anna poi, dopo l'8 settembre, quando si unirà a quelli garibaldini.





Nell’ospedale di Gorizia impara ad estorcere informazioni, per salvare i condannati a morte, somministrando psicofarmaci; in Italia, invece, farà iniezioni letali ai tedeschi e ai repubblichini, a cui avrebbe dovuto prestare soccorso. In una lettera Ario la redarguisce: non può fare così, i malati vanno curati, deve rispettare il giuramento di Ippocrate. Lei gli risponde stizzita. Da credente si è già confessata con un sacerdote di Gorizia: lui le ha dato la sua benedizione; ma, anche senza, avrebbe fatto lo stesso. La guerra è guerra.







Maria Antonietta Moro ha tenuto tutta la vita queste carte nascoste nel suo comodino. Le ha scoperte, solo dopo la morte, la figlia LORENA FORNASIR.






Regia: Erika Rossi


Anno di produzione: 2016


Durata: 52'


Tipologia: documentario


Genere: sociale


Paese: Italia


Produzione: Quasar Multimedia


Distributore: n.d.


Data di uscita:


Formato di proiezione: DCP, colore


Titolo originale: Tutte le Anime del Mio Corpo


Altri titoli: Every Soul Of My Body - Women on the Border - Donne al Confine







« La lingua materna non ha bisogno di narrazioni eroiche, sa semplicemente essere là dove serve. La sua perdita si è manifestata in modo sorgivo: nella morte, arretrando per sempre, mi ha lasciato il dono di una trasmissione affettiva e generazionale, una consegna tutta femminile del prendersi cura, in un gioco di parole, proprio di quella cura che serve per amare e mettere al mondo la vita. »

 

(Lorena Fornasir, 18 gen. 2022)





C'è anche


LORENA FORNASIR


figlia di MARIA ANTONIETTA MORO e ARDITO FORNASIR, tra le “100 donne che cambiano il mondo” nel numero speciale di D di Repubblica in edicola il 14 agosto dell'anno scorso. Dodici le sezioni: dalla politica alla cultura, passando per ecologia, impresa e diritti umani.


Lorena Fornasir, 64 anni, psicoterapeuta, è stata segnalata dalla rivista in quanto fondatrice con il marito GIAN ANDREA FRANCHI dell'associazione Linea d'Ombra ODV (Organizzazione di Volontariato) a Trieste.


Ogni giorno la coppia, insieme ad altr* volontari* aiuta e si prende cura dei migranti che giungono in città dopo aver percorso la Rotta Balcanica.




T INTERNATIONAL MAGAZINE




INTERVISTA DEL WALL STREET INTERNATIONAL MAGAZINE A

 LORENA FORNASIR

 (24 gen. 2019)


Da anni sei impegnata in prima persona nella causa dei profughi. Come hai iniziato, cos’è successo?

Per caso, vedendo giungere i primi profughi dalla prima rotta balcanica. Sono arrivati in massa: venti, trenta al giorno, era il 2014. Nessuno era preparato, era un’emergenza che poi è diventata strutturale. Erano denutriti, i piedi piagati, le scarpe a brandelli, avevano attraversato a piedi l’Iran, la Turchia, la Bulgaria, la Serbia, la Croazia. Non potevo voltare la faccia dall'altra parte e dirmi "ci penserà qualcun altro", andare a casa e dormire nel mio comodo letto mentre decine di ragazzi che erano fuggiti da guerre e persecuzioni, e che avremmo dovuto accogliere, erano invece costretti a dormire per strada al gelo, sotto la pioggia.






Immagino che più di qualcuno si sia stupito a vedere un’affermata psicoterapeuta che decide di passare le sue serate in strada a fianco dei rifugiati che la città non riesce ad accogliere. È un' esperienza forte, e al contempo un messaggio forte.

Per una vita intera sono stata testimone della sofferenza e del disagio. Ho imparato molto da chi sta male ma, soprattutto, ho imparato a stare al cospetto del dolore. In quest’epoca della mia vita mi sono trovata non a curare il trauma, ma ad essere dentro al trauma, fisicamente, corpo a corpo, provando un sentimento di impotenza e chiedendomi ogni volta cosa posso fare. Oggi, la guerra che i rifugiati si portano addosso nella loro pelle e nei loro corpi, ha attraversato anche la mia pelle. E anche quella di mio marito, perché in questa esperienza siamo sempre stati assieme.







Ci sono due parole che tu usi in modo ricorrente quando parli della realtà dei rifugiati: confine e corpo.

I confini sono un archivio coloniale che agisce attribuendo o togliendo soggettività a partire dai corpi. Il mio primo impatto è sempre stato con la massa dei corpi dove i singoli individui spariscono nella loro singolarità. Ma prima di tutto vengono loro, i corpi: corpi feriti, denutriti, segnati da piaghe, corpi spezzati, ridotti a muscoli, occhi, braccia, gambe, pensieri. La solidarietà nasce da qui, da questo incontro con la vulnerabilità dell’Altro. L’altro sono io – dicevano le madri di Plaza de Mayo – e l’altro per me è colui che non ha quello che io ho. Se io sto male posso curarmi, se l’Altro ha un’influenza può morire. La preoccupazione per il rifugiato, la cura nel chiamarlo per nome, il tè portato nelle notti fredde dell’inverno, le coperte, i sacchi a pelo procurati con fatica, è un gesto politico perché restituisce soggettività. Ecco quindi che la solidarietà è per me, per noi due, una forma di resistenza, cioè una costruzione di socialità e di legami di cura. L’attacco alla solidarietà è invece l’espressione di un progetto negativo di società fatto di individui solitari e impauriti che s’identificano nel potere e nell’uomo forte.







Un’altra parola chiave, solidarietà. È una parola che implica un relazione fondata sul sostegno reciproco, sulla condivisione.

Il mio sguardo è quello del “testimone”, cioè di colei che in virtù di coincidenze casuali, quali ad esempio lo stare in strada, condividere il freddo o interminabili attese al pronto soccorso, diventa depositaria di un tratto di verità. In quei momenti il rifugiato mostra la sua parte vulnerabile, quella debolezza che non può confessare neppure a sé stesso, altrimenti perderebbe la speranza. È da questo incontro tra vulnerabilità, speranza e donazione di senso che sorge il piacere di una condivisione profonda, più vicina alla vita e al desiderio di trasformazione che non alla disperazione. Poter condividere con i tanti volontari come me un pensiero sulla cura, mi ha fatto sentire che la cura è ovunque e che in tante/i siamo ancora capaci di dirigere il nostro sguardo, la nostra attenzione, verso l’unicità del soggetto e verso quell’ordinario microcosmo di bisogni, desideri e legami spesso opachi e invisibili alle nostre menti.








COMUNICATO di LINEA D'OMBRA ODV - 2022

 

Un altro anno di Linea d’Ombra è trascorso. Un altro anno in piazza: dall’affollamento estivo, fino a punte di sessanta, settanta e anche più migranti, ai piccoli gruppi invernali o ai giorni in cui non arriva nessuno. Negli ultimi mesi, sembra essere alquanto diminuito il numero dei migranti lungo le rotte balcaniche, non solo quella dalla Grecia alla Bosnia via Albania e Montenegro, ma anche quella più a Nord: Bulgaria, Romania, Serbia verso Ungheria Austria.

 

In piazza, inoltre, incontriamo anche chi viene a trovarci perché vuole conoscerci o aiutarci. La piazza davanti alla stazione di Trieste è diventata un luogo d’incontri: possiamo dire il tentativo di una pratica di socialità alternativa in mezzo a una città indifferente.

 

Un altro anno di vita intensa per noi perché un impegno di questo tipo è un coinvolgimento completo fisico, emotivo e mentale. È l’impegno politico come impegno di vita, più precisamente come forma di resistenza nei confronti di una deriva esistenziale e sociale che sembra inarrestabile. È un modo di far politica che parte dall’incontro con i corpi, corpi feriti, affamati e soprattutto umiliati, attiva nei termini di una solidarietà basata sulla cura in senso insieme generale e concreto: politica come cura dell’altro.

 

Nel nostro caso, questo altro è figlio della politica occidentale, europea e anche italiana, nel cosiddetto Medioriente – nome che ne rivela tutta l’origine coloniale -, politica che ha letteralmente devastato questo vastissimo territorio: afgani e pakistani, in prevalenza, ma anche iracheni, siriani, iraniani e anche bengalesi e nepalesi; e poi gruppi di magrebini: marocchini algerini tunisini, che preferiscono questa rotta di terra a quella più pericolosa del Mediterraneo.

 

I migranti della Rotta balcanica, che meglio sarebbe chiamare Rotta Europea, come dicono le nostre amiche bosniache Azra e Nidzara, ci fanno toccare con mano tutti i giorni gli effetti di ciò che la freddezza delle statistiche mostra e insieme nasconde: un mondo dominato come mai prima dal denaro come valore supremo, in cui la vita umana non conta proprio nulla.

 

Concretamente, questi corpi in cammino ci fanno toccare con mano la politica dell’Unione Europea nei confronti di un tipo di fenomeno migratorio iniziato nel 2014-15: una politica di campi dalla Turchia alla Bosnia, pagata a suon di miliardi di euro, che è insieme una politica di contenimento e di filtraggio di forza lavoro a prezzo irrisorio e di favoreggiamento delle organizzazioni di trafficanti di corpi; cui va aggiunta la Rotta Mediterranea che ha trasformato questo mare turistico e mercantile in un mare di morte.

 

In piazza noi incontriamo quasi soltanto giovani uomini, anche molti minori, pochissime famiglie, perché queste devono affidarsi alle organizzazioni clandestine per affrontare la durezza del viaggio.

 

Diamo alcune indicazioni più precise, quali segni del nostro impegno quotidiano nella piazza circolare fra le panchine, sotto l’impassibile monumento a Sissi, in mezzo allo svolazzar di gabbiani e piccioni affamati: circa quattromila persone da gennaio a dicembre 2021. Fra questi almeno 500 minori e oltre una decina di gruppi familiari con bambini.

 

Come è noto, il nostro intervento patisce i limiti dell’invisibilità di questi migranti, voluta perché transitanti (oltre il 90%) ma anche duramente sofferta. Oltre a un primo intervento sanitario, cibo, scarpe, vestiario e sacchi a pelo, noi non possiamo offrire altro: un decente tetto notturno, una doccia… Questo è per noi un problema molto difficile da affrontare, ma che tuttavia teniamo ben presente.

 

Non possiamo non ricordare, a questo punto, che la nostra attività quotidiana impone un costo notevole che riusciamo a esaudire grazie alla formazione di una rete importante di donatori, i quali ci hanno consentito finora di far fronte alle esigenze quotidiane. Questa rete non si esaurisce nel gesto donativo, che può essere un modo per sgravarsi la coscienza, ma è importante anche come mezzo di sviluppo di consapevolezza politica.

 

Oltre alla piazza, come è noto, noi andiamo periodicamente in Bosnia, dove agiamo con volontari locali e internazionali attraverso acquisti di ciò che serve ai migranti in jungle o in fabbriche e case abbandonate, in procinto di gettarsi in game: l’ultimo viaggio è stato dall’8 al 14 ottobre. Ne era programmato un altro per il gennaio 2022, cui abbiamo dovuto rinunciare per questioni relative alla sindemìa.

 

Naturalmente, in Bosnia ritorneremo sempre: è importante incontrare i migranti in questo momento fondamentale del cammino per avere con loro un rapporto più intenso e consapevole, senza sovrapporre il nostro bisogno di ‘aiutare’ ai loro bisogni e alle loro esigenze. Così, è importante avere un rapporto con i volontari locali e internazionali nella convinzione di essere parte di una rete europea di solidarietà, una sorta di Europa alternativa a quella che siede a Bruxelles. Il punto centrale di questa diffusa e spesso poco visibile attività deve essere il concetto che i migranti, ben al di là della loro consapevolezza, sono portatori di un diritto fondamentale non riconosciuto da nessuno Stato: il diritto ad una vita degna di essere vissuta e che questo ‘diritto’ deve essere il cardine di un cambiamento dell’ordine sociale.

 

Questo motiva la nostra attività, ben oltre l’orizzonte umanitario e al di là delle enormi difficoltà concrete in tempi che sembrano racchiusi in un orizzonte di morte.

 

Siamo consapevoli che il nostro impegno cammina sul filo della legalità; che siamo tollerati perché svolgiamo una funzione di scorrimento che aiuta le istituzioni a liberarsi di un problema. Tuttavia, ogni tanto c’è una pietra d’inciampo, come la denuncia per Lorena e Gian Andrea, in febbraio, conclusasi in ottobre con l’archiviazione in base a una sentenza del G.I.P. di Bologna, interessante perché afferma la non punibilità dell’aiuto a migranti entrati illegalmente nel territorio dello Stato purché entro i confini del territorio stesso.

 

I rapporti con gruppi o attivisti di altre città e luoghi sono necessari per accompagnare in qualche misura il tragitto dei migranti. In questa direzione importanti sono anche gli incontri, i dibattiti, i viaggi, come il viaggio in val di Susa alla fine di aprile, gli incontri a Trento a Verona, a Bologna, a Padova, a Milano e poi molti altri via internet (purtroppo!)

 

Abbiamo avuto diverse interviste, anche con giornalisti noti della televisione e una menzione all’interno di un Premio nazionale dell’organismo che raccoglie numerose Onlus di area cattolica (FOCSIV).

 

È assolutamente necessario camminare insieme verso la costituzione di una rete permanente di solidarietà diffusa. Il nostro impegno quotidiano ha senso politico solo in un contesto dinamico di solidarietà attiva in grado di crescere, di organizzarsi. In tale direzione vogliamo ricordare tre eventi significativi cui ha attivamente contribuito Linea d’Ombra.

 

I primi due hanno in comune il tentativo di realizzare un desiderio fondamentale: portare i nostri corpi su quel confine fisico e simbolico che pratica il violento rifiuto europeo dei migranti.

 

Il primo, il Ponte di corpi, lanciato da Lorena, ha cercato di mandare, il 6 marzo, un intenso messaggio a partire dal confine di Maljevac con la Bosnia, moltiplicato in diverse piazze italiane e anche europee. A Maljevac è andato un piccolo gruppo di donne per manifestare la contrapposizione della qualità generativa del corpo, di ogni corpo in senso simbolico non solo di quello femminile, alla violenza del corpo poliziesco contro i corpi migranti.

 

Il secondo evento, la Carovana Migrante, ha visto la realizzazione, in due tempi, del tentativo di costruire sui confini italo-sloveno e, ancora, croato-bosniaco una manifestazione di protesta contro il confine. Il 17 aprile a Pesek, sul confine sloveno, e il 19 giugno sul confine croato-bosniaco. A Maljevac, oltre un centinaio di attivisti, italiani ed europei (sloveni, austriaci e cechi), dopo aver attraversato la Croazia con un corteo di auto, è riuscito a manifestare per tre ore di fronte al confine. Lo sforzo, cui hanno partecipato diverse organizzazioni e gruppi internazionali, è stato notevole e ha richiesto un lungo lavorio di incontri on line e non solo. In seguito, gli organizzatori hanno dovuto constatare di non esser più in grado di dar seguito ad altre iniziative, indicando così un grave limite di quelle capacità di camminare insieme, alle quali non dobbiamo assolutamente rassegnarci.

 

Infine, l’ultimo evento dal carattere più simbolico, il Cammino della Speranza, che dal 14 al 22 dicembre ha riunito diverse organizzazioni di volontari, in un cammino a staffetta di atleti da Pesek ad Oulx in val di Susa, passando per la nostra piazza, dove c’è stata una conferenza stampa, con manifestazioni e incontri lungo tutto il percorso, che è quello dei migranti, con lo scopo di mostrare nella luce pubblica il tragitto che i migranti devono percorrere nell’ombra dell’illegalità.

 

Concludendo questo messaggio, la sintesi del nostro impegno può essere questa: far politica è vivere, vivere è resistere, resistere è produrre centri espansivi di cura reciproca, di socialità solidale.





COMUNICATO di LINEA D'OMBRA - 21 gennaio 2022

 

#BalkanRouteEurope  ##solidarietà

 

E' arrivato un camion di solidarietà dalla Germania di Hermine Net:

 

un bancale di pacchi  per le persone approdano a Trieste dalla disastrosa rotta balcanica.

 

Fra la nostra piazza del mondo e altre realtà o gruppi in Europa, si continua così a stabilire un ponte, un legame che tiene unita la Bosnia a Trieste, all'Europa, in termini di solidarietà e non di disprezzo delle vite migranti.

 

La nostra gratitudine va a tutti i donatori di questa magnifica associazione tedesca che da tempo ci sta accanto sostenendoci nei bisogni più impellenti.

 

Linea d'Ombra

 




 



 

 

 

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