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MEMORIA e ETICA: i conti con il grigio in noi.

Riflessioni per un’integrazione etica della memoria.

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di Martina Merletti - 27 gennaio 2021

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Si è pensato che l'istituzione del Giorno della Memoria fosse di per sé sufficiente a scongiurare il ripetersi della storia. Oggi rigurgiti di xenofobia e antisemitismo emergono ubiquitari e molteplici. Esiste un modo per far sì che centinaia di voci, ore di scuola e investimenti pubblici contribuiscano in maniera più efficace alla formazione di una coscienza pensante, che argini attivamente i linguaggi, i pensieri e le azioni che hanno creato le condizioni per il verificarsi della Shoah?

Mitläufer: gli altri siamo noi

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Prima metà degli anni Cinquanta. Germania sud-occidentale, Mannheim, una città affacciata sul Reno. Alla porta di una famiglia borghese bussa un uomo. Il suo nome è Julius Löbmann, ed è venuto a chiedere un risarcimento.

 

Quando, molto tempo dopo, la giornalista franco-tedesca Géraldine Schwarz scopre che suo nonno ha beneficiato dell'arianizzazione dei beni ebraici per acquistare un'azienda di prodotti petroliferi a un prezzo decisamente inferiore al suo valore reale, l'instabilità identitaria che ne deriva è tale da portarla a dedicare un intero libro, I senza memoria. Storia di una famiglia europea (Einaudi, 2019), allo svisceramento e alla contestualizzazione storica di quanto accaduto.

Dalle favole dell'infanzia fino alle grandi narrazioni dello show business, siamo abituati a riconoscere nei racconti tre ruoli principali: eroi, vittime e carnefici. E poi rimangono gli altri, i personaggi minori, le comparse; tutti coloro che creano il mondo entro il quale i protagonisti possono essere tali. Gli altri, fosse anche per una mera questione statistica, spesso siamo noi.

 

La memoria della Shoah, dell'intera guerra, e non solo, in Italia funziona allo stesso modo: c'erano i carnefici - ed erano i nazisti -, le vittime - ed erano gli ebrei -, gli eroi - ed erano coloro che compiendo gesti più o meno eclatanti salvavano le vittime. E noi tutti, nel chiederci - quando ce lo chiediamo - che panni avremmo ricoperto, siamo portati a considerare unicamente questi tre scenari. Eppure esistono altre sfumature della realtà e, di conseguenza, dei risvolti più complessi della memoria stessa, di ciò che siamo stati e di ciò che potremmo essere.

 

"Erano semplicemente Mitläufer", scrive Géraldine Schwarz a proposito dei suoi familiari, "persone «che seguono la corrente», conformisti, gregari. Semplicemente: nel senso che il loro atteggiamento era stato quello della maggioranza del popolo tedesco, un accumulo di piccole cecità, piccole viltà che, messe l'una accanto all'altra, avevano creato le condizioni necessarie al compiersi di uno dei peggiori crimini di Stato organizzati che l'umanità abbia conosciuto".

 

La maggioranza di cui scrive Schwarz è una categoria di rado evocata nei programmi scolastici, nelle celebrazioni istituzionali e nelle rappresentazioni mainstream della memoria pubblica italiana. E la sua assenza, nonostante il suo essere maggioranza, è degna di nota. Vale dunque la pena partire da qui per aprire il complesso discorso della memoria pubblica. Non prima, però, di aver provato a mettere a fuoco la crisi in cui la memoria stessa sembra versare.

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La promessa mancata.

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Aleida Assman distingue tre modalità di trasmissione della memoria. La trasmissione identificativa, di chi "si sente erede diretto delle vittime e rivendica il trauma di seconda generazione"; quella empatica che si basa su formule ricorrenti, spesso sentimentali, che puntano all'immedesimazione emotiva con la vittima; e quella etica "di chi si assume le sue responsabilità storiche e scava nel rimosso delle generazioni precedenti". Le trasmissioni empatiche hanno come obiettivo "commuovere, far sentire l'ingiustizia, suscitare emozioni" - scrive Valentina Pisanty riferendosi alla produzione cinematografica sulla Shoah - imprimere le storie dei perseguitati "nella memoria 'incarnata' di chi per novanta minuti ne ha condiviso affetti e speranze, paura e dolori". Sono probabilmente le stesse che portano Primo Levi a notare come, con il passare degli anni, gli sia parso "di cogliere una deriva nel modo in cui vengono intese queste memorie [...] C'è in loro una partecipazione emotiva anche violenta; non storica" che finisce non solo con il proiettare lo sterminio all'indietro ma sembra addirittura spingerlo fuori dal tempo. Risulterebbe dunque auspicabile affiancare alla componente emotiva della trasmissione della memoria quella etica, che promuoverebbe non tanto la comprensione dell'odio nazista in sé quanto piuttosto "di dove nasce" e la conseguente possibilità di "stare in guardia".

 

È con questo proposito che nel 1996 Furio Colombo si fa promotore della legge italiana sull'istituzione del Giorno della Memoria - allora ipotizzato per il 16 ottobre, data del rastrellamento del ghetto di Roma - definendo la Shoah "un delitto italiano". "Il giorno della memoria", afferma Colombo, "non è un giorno dedicato ai perseguitati, è un giorno dedicato a coloro che avrebbero potuto essere persecutori". Una lotta permanente a quello che Eco definisce Ur-fascismo.

Il dibattito della scelta di una data è sui tavoli dell'Unione Europea dal 1994 e, più seriamente, con l'istituzione dell'osservatorio europeo sulla xenofobia e il razzismo, dal 1997. L'Italia è dunque tra i primi a recepire il suggerimento europeo della commemorazione. Con la legge 211/2000 la divergenza tra 16 ottobre e 27 gennaio viene sciolta optando per l'adesione alla proposta europea del 27 gennaio (e l'accesso ai fondi per essa preposti) inserendo nel testo di legge, accanto alla Shoah, la formula che ricorda "le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte". Il Giorno della Memoria diventa ufficiale in tutta l'Unione Europea con la risoluzione 0018/2005, alla quale segue la 60/7 dell'ONU. La data prescelta a livello internazionale è dunque quella della liberazione del campo di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa. Una data europea, che apre la strada al ricordo, sì, ma anche alla celebrazione simbolica della fine delle atrocità, spostando il focus sulla loro cessazione - da onorare - e non sulle loro cause - da comprendere. Prevale così una linea destinata ad alimentare gli aspetti commemorativi a scapito di quelli di indagine e contestualizzazione (anche delle singole responsabilità nazionali). Una linea che promuove la priorità pedagogica della partecipazione emotiva su quella logico-cognitiva tipica dell'argomento storico, che trovava invece tra i suoi più grandi sostenitori Primo Levi. Proprio lui, infatti, sottopose le sue memorie a un vaglio costante, sottolineò che i suoi non erano libri di storia e che occorre "essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con capi carismatici [...] È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco, senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate".

 

Gli aspetti celebrativi che trionfano con l'istituzione del Giorno della Memoria nascondono alcune insidie. Prima tra tutte l'adozione dell'equazione never forget = never again, che presume che il solo fatto di ricordare e immedesimarsi nel dolore delle vittime sia garanzia di immunizzazione collettiva rispetto al verificarsi di tragedie analoghe alla Shoah. Vero è, come scrive Luca Rastello, che la memoria è preziosissima, fondamentale, ma "a condizione che sia sussunta nella fatica della storia, la fatica cioè di mettere molte interpretazioni, molte 'memorie', su un tavolo - come ha fatto, ad esempio, Nelson Mandela - e di negoziare tra interpretazioni diverse, accettando anche di arrivare a un accordo artificiale, perché l'obiettivo, per certi versi impossibile, è di capire il passato. Il culto feticistico della memoria rivela i suoi piedi di argilla non appena se ne rovesci l'assunto di base. Non è vero che il passato si ripete se non lo si ricorda. È vero purtroppo che il passato si ripete se non lo si capisce". Non a caso lo stesso Primo Levi sostiene sia doveroso meditare su quanto accaduto.

 

Ed è infatti proprio la promessa del 'mai più' - che parla della Shoah come del genocidio archetipico, dimenticando che i genocidi furono e possono essere plurali - a vedersi sbugiardata nell'estate del 1995, quando agli occhi del mondo i massacri di Srebrenica sanciscono il definitivo fallimento immunizzante della memoria commemorativa (pochi mesi prima, in realtà, c'era stato il Rwanda, ma quella era una faccenda 'lontana').

 

Srebrenica è uno shock. Si era stati abituati a pensare che l'istituzione stessa della data e le sue celebrazioni bastassero a scongiurare il ripetersi della storia. Tanti più testimoni sarebbero stati portati nelle scuole, tante più occorrenze istituzionali sarebbero state dedicate, tanto minore sarebbe stato lo spazio per l'insorgere non solo di rigurgiti di antisemitismo ma anche dell'odio xenofobo in tutte le sue forme. Non è andata così.

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La fabbrica della memoria.

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Nel suo I guardiani della memoria (Bompiani, 2019) Valentina Pisanty profila l'ipotesi secondo la quale l'insorgere di nuovi razzismi e nazionalismi non si stia verificando a dispetto dello scudo della memoria, ma anche per via delle forme che la memoria stessa ha assunto. Un ruolo importante in questo senso rivestirebbe la tipizzazione dell'oggetto storico, frutto di un intersecarsi di cause tra le quali la monopolizzazione della memoria e la combinazione di interessi educativi con interessi commerciali. Una congiuntura che genera un fabbisogno annuale di memoria standardizzata, la quale produce a sua volta l'Holocaust fatigue, che porta a una progressiva perdita di senso della commemorazione stessa. È un perno molto delicato, questo, di difficile soluzione, attorno al quale finiscono con il ruotare molti temi a cui si è esposti sistematicamente e che, indipendente dalla loro importanza, rischiano di trasformarsi in formule vuote.

 

La tipizzazione riguarda anche il canone di vittima, che si espande ben oltre il tema concentrazionario. L'appiattimento delle coscienze sul paradigma vittimario è trattato in maniera diffusa ne La Repubblica del dolore (Feltrinelli, 2011) di Giovanni De Luna, il quale sottolinea come a tenere insieme il patto fondativo della nostra memoria siano "il dolore e il lutto che scaturiscono dal ricordo delle 'vittime'. Della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, delle catastrofi naturali, del dovere, vittime, sempre solo vittime. Per emozionare, commuovere, suscitare consenso, [...] quasi che le emozioni siano merci e che sia il mercato a imporre le sue regole. [...] Ma non è al mercato che si può chiedere di costruire una forma di bene comune".

 

Proseguendo con le argomentazioni di Pisanty, altro elemento da considerare nel presunto fallimento della promessa commemorativa è la sacralizzazione del testimone e della memoria stessa. Questa avrebbe portato il principio di autorità di chi "ha vissuto" a esautorare la scienza storica, fattore cardine per ancorare l'esperienza emotiva trasformandola in etica:

 

Il filtro olocaustico si dimostra palesemente inadeguato qualora lo si sovrapponga a situazioni moralmente ambigue e politicamente complesse, e cioè alla stragrande maggioranza dei contesti in cui capita di imbattersi, dove è raro che il male si concentri in un unico soggetto con la stessa incontrovertibile evidenza con cui allora si concentrò nell'azione dei nazisti ai danni delle minoranze perseguitate

 

E anche allora, potremmo aggiungere, nonostante l'"incontrovertibile evidenza", la maggioranza non si scandalizzò neppure quando diventò molto difficile non capire cosa stesse accadendo ai propri vicini di casa. Intervistata da Il Manifesto, a proposito della pratica di acquistare mobili appartenuti agli ebrei appena deportati da parte dei tedeschi non ebrei, Géraldine Schwarz dice:

 

Ciò che è particolarmente scioccante è che la maggior parte di queste vendite aveva luogo negli stessi appartamenti degli ebrei subito dopo la loro deportazione: gli acquirenti sapevano benissimo che quegli oggetti erano appartenuti ad un vicino, al fornaio locale, al loro medico. Questa condotta smentisce inoltre la scusa principale evocata da molti tedeschi di allora che sostenevano di non aver saputo nulla del destino che attendeva gli ebrei: le persone che si dividevano «il bottino» non avevano la sensazione che i proprietari non sarebbero mai tornati, perché morti?

 

 

Tendiamo, per imprinting culturale, a separare e semplificare. La distanza aiuta a dipingere un mondo in bianco e nero. È bene invece sapere, e quindi riconoscere, che il mondo allora era prevalentemente composto di grigi, di uomini e donne che hanno compiuto atti contraddittori, che hanno girato la testa dall'altra parte, oltre che di delatori di ogni appartenenza politica e religiosa. Di fronte a queste realtà - ben documentate da Gli specialisti dell'odio di Amedeo Osti Guerrazzi -, una memoria che non ammette debolezze è una memoria che non consente di prendere atto della nostra fallibilità, ed è dunque una memoria che perde il senso di essere ricordata.

 

Come è accaduto? Strumentalizzare, stigmatizzare la memoria, assurgerla a oggetto sacrale rende molto più facile smettere di imparare da essa. Ma se il ricordo della Shoah non serve a evitare che altre atrocità, di qualsiasi ordine e grado, abbiano a ripetersi, a che pro commemorarla? Per lavarci la coscienza? Per mitizzare testimoni destinati a scomparire? Per promuovere progetti identitari? Camuffare portatori di nuove forme di razzismo legittimando comportamenti profondamente discriminatori - partitici e istituzionali - di chi giustifica qualsiasi tipo di posizione xenofoba dietro il paravento di una presenza celebrativa ormai obbligata, di facciata, a un evento commemorativo degli orrori del lager nazisti? C'è da chiederselo e non in termini retorico-polemici, ma molto seriamente, perché ne va della dignità e della strumentalizzazione di milioni di persone che hanno sofferto l'indicibile.

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Tenere insieme i pezzi.

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Mentre a partire dagli anni Sessanta le nuove generazioni tedesche iniziarono a chiedere conto ai loro padri di quanto era accaduto, ad affacciarsi su quella "zona grigia", sulle azioni, i linguaggi, i pensieri quotidiani di cui si erano nutriti e dove quindi andrebbero combattuti i presupposti che permisero l'inimmaginabile, gli italiani riuscirono a tenersi fuori da questo processo scaricando il barile sulla Germania nazista, "recependo i film sull'Olocausto con il distacco di chi aveva la coscienza a posto".

 

Il modo in cui l'Italia si rapporta con il suo passato è distorto. La memoria pubblica ha edulcorato vent'anni di dittatura tramandando uno scenario di uomini e donne impegnati per la libertà contro la "svolta" tirannicida di un fascismo tutto sommato accettabile prima dell'alleanza con Hitler - niente di più errato, come chiunque può facilmente approfondire leggendo gli agili saggi di Francesco Filippi. Il terrore però di perdere territori, non rientrare nei tavoli delle trattative ed essere assoggettati dagli Alleati generò una certa fretta nel mettere a tacere ogni sfumatura di complessità a favore di questa narrazione vignettistica. Così, dato che l'identità è un costrutto narrativo, la memoria ufficiale ha lasciato i Mitläufer e i loro discendenti orfani di un racconto in cui rispecchiarsi, in balia di una retorica polarizzata priva di un orizzonte di significato entro cui collocare ed elaborare la loro esperienza storico-biografica. È stata cancellata l'ipocrisia di uno stato che non ha mai portato a termine la defascistizzazione delle sue istituzioni, l'analisi dei suoi crimini. "Ma la repressione", scrive ancora Eco, "provoca nevrosi", e il risultato, infatti, è un paese schizofrenico, dove la contrapposizione dicotomica del bene e del male in lotta senza sfumature di complessità è incapace di promuovere una coscienza attiva e dinamica, atta a produrre e coltivare valori plastici in grado di riconoscere la loro radice e, dunque, guidare l'azione e il pensiero anche, e soprattutto, al mutare delle condizioni storiche.

 

Quando, al contrario, la memoria diventa a suo modo totalitaria, tipizzata, si apre lo spazio per la teoria del complotto, per il negazionismo, per la rivalsa rabbiosa di chi da quella memoria sente di essere tagliato fuori. Per questo il diritto di elaborare l'eventuale trauma del discendere da complici (come accaduto a Schwarz), quando non dai carnefici, deve essere garantito nello spazio della sfera pubblica. Non solo perché un oggetto dialogico è, come insegna Primo Levi, un oggetto pensante e dunque vivo, ma anche perché garantire questo spazio permette l'emancipazione da uno stigma che, se costretto nella sfera privata, nutrendosi del risentimento e dell'esclusione, può passare dalla vergogna a una radicalizzazione della propria posizione, lasciando che questa assuma la pretesa qualitativa della discriminazione. Occultare l'esperienza fascista, poiché da subito si è preferito negare la propria complicità di popolo non solo alla Shoah, ma anche a un modello di colonialismo in cui l'esperienza concentrazionaria era stata largamente sperimentata, per non parlare delle leggi razziali e della persecuzione delle minoranze tutte durante vent'anni di regime, significa nutrire risentimenti pronti ad appropriarsi, anche violentemente, del titolo di vittime, andando a competere direttamente con lo statuto di coloro che l'esercizio della memoria vorrebbe, oltre che commemorare, tutelare.

Invece di appiattirsi sul paradigma sacrale e semplificatorio della memoria, si sarebbe potuto affermare, ad esempio, che pur essendo figlia/o di fascisti si aveva il diritto di condividere la propria storia, ed era anzi importante, per la salute stessa della memoria, che lo si facesse. Sembrano posizioni scomode ma non siamo di certo i primi a proporle. Già nel 1933, come riporta Carlo Greppi in L'antifascismo non serve più a niente (Laterza, 2020), Leone Ginzburg, riflettendo sulla progressiva necessità dell'iscrizione a Partito nazionale fascista per poter lavorare, diceva:

 

Per molti giovani l'iscrizione, avvenuta o prossima, comunque praticamente inevitabile, è stato il primo compromesso con la propria coscienza, e sarà il primo rimorso. Noi vogliamo essere vicini a questi giovani, e a tutti coloro - di ogni età - che hanno anch'essi il cuore puro: noi che abbiamo scelto vie più difficili, e cerchiamo di lavorare per tutti, abbiamo il diritto di manifestare l'immensa pietà di loro, che ci ha presi, e il dovere di soccorrerli, per quanto possiamo.

 

Per sgombrare il campo da ogni possibile dubbio è importante sottolineare come si sia qui molto lontani dall'argomento garantista della libertà di parola incondizionata, e cioè dal considerare meritevole di attenzione pubblica qualunque tipo di testimonianza o esperienza a scapito della tutela dei principi democratici. Nello specifico, non si intenda come degna di cittadinanza pubblica la testimonianza fascista, antisemita o neofascista, aperta o sotto mentite spoglie, e dunque in malafede (in merito a questi temi segnaliamo il dibattito che Pisanty lascia aperto rispetto all'efficacia di un perseguimento legale del negazionismo che rischierebbe di alimentare "il fenomeno che si propone di combattere").

 

"La tentazione dell'odio", scrive Levi nella prima appendice di Se questo è un uomo, "la provo, ed anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all'odio antepongo la giustizia. [...] Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonare alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico". Sempre Levi risponde così, nel '59, alla figlia di un fascista che domanda se le immagini proposte a Palazzo Carignano, in occasione della mostra itinerante sulla deportazione a Torino, fossero autentiche: "È la lettera che attendevamo". La attendevamo perché "la mostra non è stata dedicata ai padri, bensì ai figli, e ai figli dei figli, allo scopo di dimostrare quali riserve di ferocia giacciano in fondo all'animo umano, e quali pericoli minaccino, oggi come ieri, la nostra civiltà. [...] Non è strano che molti, anche innocenti, provino vergogna davanti ai fatti, e preferiscano il silenzio. Ma il silenzio è un errore, quasi un delitto [...]. Si ha fame di verità, nonostante tutto: dunque la verità non si deve nascondere". Se storicamente contestualizzata, ogni testimonianza in buona fede può servire a meglio comprendere la realtà e a esercitare il pensiero critico. Abbiamo già visto, però, come le immagini di per sé non siano sufficienti a garantire ciò che Levi auspica, tant'è che lui stesso "attraverso ogni sua risposta sollecitava i ragazzi a scoprire in concreto le mille strade utili a conquistare singoli frammenti di verità. Non li trattava come contenitori di cui fosse eventualmente necessario sostituire il contenuto, e neppure come soggetti che dovessero essere resi consapevoli di verità già intimamente possedute: puntava a stimolare l'esercizio del ragionamento e, insieme, a introdurre nuove informazioni sulla realtà cui fosse possibile per loro applicare la propria intelligenza. Chi aveva fatto la domanda doveva essere messo nella condizione - dopo la risposta - di confrontare il se stesso di ora con quello che era stato prima, arrivando così a dubitare delle sue convinzioni di partenza. L'obiettivo era chiaro: con il dialogo, aiutare gli interlocutori, a dialogare con se stessi", scrive Fabio Levi in Dialoghi (Einaudi, 2019).

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Il paradigma della complessità e l'etica della cura.

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C'è, nonostante tutto, una porzione della memoria che tende a rimanere oscura; quella che Pisanty riassume così:

 

Come sia avvenuta la metamorfosi da SS a fornaio (e viceversa) non è mostrato, né raccontato e forse neppure pensato, quasi non ve ne fosse bisogno. Eppure è proprio questo il punto della trasmissione etica della memoria: capire come sia stato possibile che nelle stesse persone convivessero anime così discordanti e riuscire a vederle entrambe sotto la lente dell'umanità.

Dovremmo a questo punto essere consapevoli del fatto che in ognuno di noi, compresi eroi, vittime e carnefici, risieda un Karl Schwarz che spinge all'astensionismo, alla preservazione di uno spazio egoistico di pace, allo sfruttamento della propria condizione di privilegio e si oppone strenuamente al rischio che assumere una posizione comporterebbe. Diventa dunque fondamentale riconoscerlo e averne cura, accoglierlo, non negarlo o colpevolizzarlo, bensì rassicurarlo per evitare che prenda il sopravvento. In quest'ottica può essere interessante approfondire il concetto di educazione ecologica proposto da Luigina Mortari, in merito al quale si fa riferimento a un'etica della cura delle parti che compongono il sé e gli altri. Dal momento in cui le persone con cui ci si confronta sono in buona fede, una sfida da raccogliere potrebbe essere quella di adottare un'ottica dell'accoglienza, sistemica e dialogica che, attraverso il confronto, renda possibile l'emergere socratico dell'affezione a concetti di equità e benessere. Una postura non dissimile da quelle di Primo Levi che, nelle scuole, "mostrava il proprio rispetto verso l'interlocutore, immedesimandosi nel suo punto di vista, suggerendo se necessario un'angolatura diversa da cui guardare alla questione".

 

Praticare l'etica della cura e una postura dialogica non significa essere permissivi o elusivi nel prendere una posizione, abbassare la guardia rispetto alle storture del mondo. Significa, piuttosto, che il processo che conduce a una presa di posizione, anche molto netta, non è mai autoritario, ma aperto e autoriflessivo, frutto di un dialogo e della pratica del ragionare, di modo che la tesi che si arriva a difendere non sia aprioristica e non manchi di essere sottoposta al vaglio storico ed etico che prevede, ad esempio, il porsi della semplice domanda: se lo facessero a me, alla mia compagna, al mio giardino, come mi sentirei?

Ammettere, peraltro, che non c'è nulla di esente da luci e ombre significa accettare l'essenza stessa dell'essere umano e, di conseguenza, dei suoi prodotti, mettendone a fuoco la costante perfettibilità senza tuttavia privare di valore l'oggetto in sé. Essere consapevoli, ad esempio, accanto agli innumerevoli pregi, delle aporie della Resistenza - una per tutte il maschilismo - non ne depotenzia il merito, ma, al contrario la rende un oggetto di studio reale, calato in un contesto storico e sociale che aumenta le nostre capacità, come studiosi, di comprensione e, come esseri umani, di conoscenza dei limiti e di tensione al miglioramento, in un atteggiamento di sorveglianza di noi stessi e delle cornici etiche all'interno delle quali ci auspichiamo o pensiamo di agire. L'etica che Edgar Morin chiama della comprensione, vale a dire che il condannato a morte comprenda perché chi lo sta giustiziando voglia ucciderlo, non significa nel modo più assoluto che egli lo giustifichi. Allo stesso modo, conoscere le sfumature e le dinamiche complesse delle vicende storiche può aiutare non solo a comprenderle e a spiegarle meglio, ma anche a capirne i meccanismi profondi e a contrastare le posizioni giudicate inaccettabili con maggiore acutezza, a radicare profondamente i valori che la memoria vorrebbe promuovere, proprio perché sviscerati e vissuti nella loro complessità. Tutti gli esseri umani hanno in sé tensioni all'autoritarismo, al razzismo o alla xenofobia (intesa qui in un'accezione più ampia della paura del "diverso"), nelle dinamiche e nelle occasioni più disparate, tutti, però, possono compiere delle scelte consapevoli e agire per arginarle o meno. A questo dovrebbe servire la memoria: armare le coscienze, e non preconfezionare ruoli rispetto ai quali schierarsi senza esercitare il pensiero critico ed etico, dove mondarsi gli animi continuando più o meno consapevolmente a perpetrare quegli stessi disvalori che la memoria vorrebbe estirpare.

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Narrare il vuoto lasciato dai testimoni.

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Ricordare è l'atto attraverso cui si perpetra l'esistenza, la traccia del nostro vissuto. Ora, preso atto del valore profondamente formativo della testimonianza, soprattutto quando affiancata a una disamina storica dei fatti in cui si colloca, il terribile senso di vuoto che l'ineluttabile morte dei testimoni in carne e ossa sta lasciando dietro di sé sembra mettere a dura prova la macchina della postmemoria che, tesa allo stremo, produce soluzioni quali "farsi tatuare sul braccio il numero assegnato a Nedo Fiano" e leggerne le testimonianze in prima persona. Soluzioni che rimangono di dubbia efficacia rispetto a una lunga tradizione di donne e uomini che hanno deciso di rendere pubblico il dolore vissuto sulla loro pelle.

È dunque il momento di chiedersi: come riempiamo questo vuoto? Portare la nuova generazione di storiche e storici nelle scuole, in televisione e nei luoghi istituzionali può certamente costituire una valida risposta, ma così come la sola empatia non produce il cambiamento sperato, anche l'impiego di un principio pedagogico esclusivamente cognitivo è da ritenersi insufficiente per una trasmissione formativa della memoria. Potrebbe essere dunque interessante domandarsi, poiché la letteratura custodisce in sé il duplice dono dell'immedesimazione e dell'indagine di sfaccettature e dilemmi morali, che ruolo possa rivestire la narrativa nell'efficacia della memoria. La letteratura prodotta dai testimoni, come sottolinea Giovanni Tesio, è senza dubbio un ottimo luogo in cui la memoria preserva, e può dunque essere in grado di tramandare, la sua forza esperienziale, ma è una produzione che non sempre indaga la zona grigia andando a sviscerare la composizione della maggioranza di cui parla Géraldine Schwarz. La lettura di testi come il graphic novel Heimat di Nora Krug (Einaudi, 2019), Veniva da Mariupol di Natascha Wodin (L'orma editore, 2018), L'interprete di Annette Hesse (Neri Pozza, 2019), ma anche, estendendo il campo, l'importantissimo Sangue giusto di Francesca Melandri (Rizzoli, 2017), potrebbe in questo quadro risultare una risorsa preziosa. Ancora più importante sarebbe, lo abbiamo accennato, affiancarle un dibattito condotto da storici, o quantomeno che gli storici avessero l'opportunità di raccontare la complessità e risiedere nelle vicende più spinose e dolenti anche al di fuori del perimetro accademico, dove purtroppo l'arena risulta sovente incendiata dalla polarizzazione, pronta al linciaggio, e ci si deve armare di grande pazienza se si vuole tentare di ricondurre il dibattito al confronto, alla disamina dei fatti e delle loro interpretazioni.

 

Le narrazioni complesse possono fungere da bussole morali, veri e propri strumenti a cui tornare in momenti di crisi. Ci sarebbero decine e decine di titoli con cui l'elenco sopra potrebbe continuare: queste storie non sono del tutto inedite, ma inedita potrebbe essere la volontà politica di renderle prioritarie a detrimento di una narrazione archetipica che, oltre a semplificare il dato storico, allontana le annose questioni delle responsabilità politiche e individuali, limitandosi ad avere fede nell'antidoto che un'immedesimazione emotiva possa costituire. Ora, però, che il paradigma della complessità sembra affermarsi in vari campi della società - dai prodotti audiovisivi di massa sulle piattaforme online, alla necessità imprescindibile di una riconversione ecologica - è forse importante ricordare che il potere di queste narrazioni, accompagnate da una disamina storica, può iniziare a spostare il perno su cui la memoria pubblica rischia sterilmente di avvitarsi. Si tratta di rispondere a una domanda cruciale nel promuovere un esercizio del ricordo utile al realizzarsi di una cittadinanza attiva: i conti che non abbiamo mai fatto - e che tutt'oggi non facciamo - con il grigio che è in noi, possiamo iniziare a farli ora?

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