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Sep 13, 2023
La classe è l'elefante nella stanza del femminismo: una relazione sociale intrecciata inevitabilmente con altre relazioni sociali diverse come il genere e la razza
di SARA R. FARRIS
8 Settembre 2023
Il concetto di classe è l’elefante nella stanza di ogni femminismo. È sempre presente ma raramente se ne parla. In molti modi e fin dall’inizio, i movimenti femministi sono stati dei tentativi di andare oltre le divisioni di classe, riunendo sotto uno stesso tetto le donne delle più disparate origini sociali. Ogni donna, in fondo, vive forme di violenza e oppressione, dentro e fuori delle mura di casa, che colpiscono le donne in quanto donne, o coloro che si identificano come tali.
Eppure, i modi in cui possono affrontare, rispondere e reagire alla violenza e all’oppressione sono molto diversi a seconda della loro posizione sociale e appartenenza di classe. Basti pensare a quanto sia difficile per le donne povere lasciare una situazione domestica abusante non avendo la stabilità economica necessaria per vivere da sole, soprattutto se con figli a carico. Oppure a quanto sia complicato per una donna working class partecipare ad assemblee e collettivi femministi, vista la durata della giornata lavorativa e il costo dei servizi per l’infanzia.
Queste differenze di classe hanno attraversato le tre cosiddette «ondate femministe». Nonostante la «metafora dell’onda» associata alla storia delle mobilitazioni delle donne sia problematica – anche perché è ristretta all’Occidente e tende a diluire l’eterogeneità dei movimenti femministi – è comunque utile per riassumere le tensioni di classe che hanno caratterizzato questi movimenti nel corso degli anni.
Le differenze di classe nelle tre ondate femministe
Durante la «prima ondata», tra la fine del Diciannovesimo e l’inizio del Ventesimo secolo, il fulcro della lotta del nascente movimento delle donne era il diritto di voto e l’uguaglianza politica. In effetti, in Occidente come in molte altre parti del mondo, nessuna donna godeva di diritti politici, non poteva eleggere democraticamente i propri rappresentanti in parlamento né candidarsi alle elezioni. Tuttavia, quando le donne inglesi ottennero finalmente il diritto di voto con il Representation of the People Act del 1918, le donne proletarie ne rimasero escluse fino al 1928. Ciò accadde, per molti versi, perché la gran parte delle prime suffragette erano donne borghesi, poco sensibili alle rivendicazioni delle donne di classe operaia.
C’è molta letteratura sulle tensioni di classe nella «prima ondata» del movimento femminista, in particolare di quello inglese. Lo storico Joe Vellacott in Pacifists, Patriots and the Vote mostra come le spaccature tra le principali organizzazioni suffragiste in Gran Bretagna dal 1915 in poi le hanno portate a essere controllate da un gruppo ristretto di donne di classe medio-alta, principalmente londinesi, escludendo le donne di classe operaia e il Nord industrializzato. La storica femminista Laura Schwartz nel libro Feminism and the Servant Problem (2019) ha esplorato le relazioni e i conflitti tra il movimento per il voto alle donne e le nascenti organizzazioni di lavoratrici domestiche, che erano spesso le «servitrici» impiegate dalle stesse suffragette.
La «seconda ondata» del movimento femminista, quella delle grandi mobilitazioni degli anni Sessanta e Settanta, si è concentrata soprattutto sui diritti riproduttivi ed economici delle donne. Fino alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta, l’aborto era illegale nella maggior parte dei paesi occidentali ed è diventato legale (pur se con delle restrizioni) solo dopo questi grandi movimenti femministi. Allo stesso modo fino agli anni Settanta la maggior parte delle donne (bianche) occidentali non partecipava attivamente al mercato del lavoro al di fuori della famiglia, era esclusa da diverse possibilità occupazionali e non aveva sul posto di lavoro gli stessi diritti degli uomini. Soltanto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, grazie, ancora una volta, ai movimenti femministi, un numero crescente di donne ha iniziato a ottenere l’indipendenza economica tramite il lavoro. Anche in questo caso, però, le distinzioni di classe hanno determinato pesantemente i modi in cui le donne hanno potuto beneficiare di queste importanti battaglie, o persino la stessa possibilità di fruire di queste conquiste.
Per quanto riguarda l’aborto, mentre in Gran Bretagna la maggioranza delle donne che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza appartiene alle fasce più povere della società, negli Stati uniti sono le donne working class a incontrare i più gravi ostacoli nell’accesso alla pianificazione familiare, cosa che aggrava la loro marginalizzazione economica. La posizione di classe è in entrambi i casi la ragione principale per cui le donne esercitano o meno la propria «libera» scelta di abortire.
Per quanto riguarda l’accesso delle donne al mercato del lavoro, sebbene sia stata una vittoria femminista molto importante che ha permesso a moltissime donne di diverse estrazioni sociali di ottenere l’indipendenza economica, il tipo di lavoro e le condizioni lavorative a cui le donne possono accedere sono in larga parte determinate dalla loro appartenenza di classe, che influisce sui modi in cui la tanto sudata indipendenza economica può essere sfruttata. Per molte donne working class, avere un impiego in settori scarsamente retribuiti come il commercio al dettaglio, la sanità o l’educazione primaria significa avere salari molto bassi, giornate lavorative molto lunghe e contratti precari che impediscono la propria indipendenza e realizzazione personale.
La «terza ondata» femminista inizia convenzionalmente negli anni Novanta, ed è caratterizzata da almeno due importanti evoluzioni: la rielaborazione del concetto di genere dopo l’intervento decisivo di Judith Butler; l’imporsi del termine intersezionalità – secondo le parole della femminista Kathy Davis – come nuova «parola d’ordine» del femminismo. Quest’ultima infatti non ha solo attirato l’attenzione di un gran numero di studiose, ma è divenuta la parola chiave dell’attivismo femminista contemporaneo, e gli sforzi di integrare l’approccio intersezionale nelle leggi anti-discriminazione nazionali e internazionali hanno avuto sempre maggior successo.
L’intersezionalità, ovvero l’attenzione specifica verso le forme di oppressione subite dai corpi non bianchi, non eterosessuali, non di classe medio-alta e non abili è stata una reazione a quella che era percepita come una tendenza omologante della seconda ondata femminista, che faceva coincidere il concetto di donna con le sofferenze e le teorie di donne bianche di classe medio-alta.
Anche se la preoccupazione per la questione di classe è sempre stata parte del concetto di intersezionalità, questo schema interpretativo è stato criticato per aver trasformato la classe in una delle sfere intrecciate, costantemente menzionata senza essere mai veramente approfondita. Infatti una delle critiche rivolte all’intersezionalità da una prospettiva di classe è che assimila i meccanismi di classe con quelli di altre categorie che operano in realtà secondo logiche diverse. In particolare, l’equiparazione di categorie come razza, genere e classe nasconde il fatto che queste hanno bisogno di adottare differenti strategie politiche. Se la strategia politica della lotta alle oppressioni legate alla sessualità e al genere può essere spesso ricondotta al riconoscimento di pari diritti, la strategia della lotta di classe è abolizionista, ossia rivendica una società senza classi. Per questo la logica di classe non può essere facilmente inserita nel paradigma dell’uguaglianza politica, predominante nel femminismo.
L’ipocrisia del paradigma dell’uguaglianza politica
Per le femministe che sottolineano l’importanza fondamentale della classe nel percorso di emancipazione e autodeterminazione delle donne, uno dei problemi del paradigma dell’uguaglianza politica, che ha dominato la gran parte del movimento femminista attraverso le sue varie «ondate», è proprio che esso è insufficiente per affrontare le divisioni di classe. La rivendicazione di pari diritti nasconde il fatto che il paradigma dell’uguaglianza si regge su un’idea di soggetto astratto, detentore di questi diritti, che alla fine si rivela essere un soggetto bianco e di classe medio-alta.
Il paradigma dell’uguaglianza politica universale in Occidente trova le sue origini nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, uno dei risultati più significativi della Rivoluzione Francese del 1789. A partire da quella dichiarazione in poi ci siamo abituati all’idea che tutti gli esseri umani godono di diritti naturali e universali che dovrebbero essere protetti e rispettati. Nel bel mezzo della Rivoluzione Francese la pensatrice femminista Olympe de Gouge smascherò i limiti di questa pretesa universalità, evidenziando come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino menzionava esclusivamente gli uomini tagliando così fuori metà della popolazione umana. Inoltre, in quegli stessi intensi anni, furono gli schiavi neri della colonia francese di Haiti ha mostrare come la dichiarazione apparentemente universale dei diritti umani non escludeva solo le donne, ma anche molti uomini: in effetti, gli schiavi delle colonie e gli uomini della classe operaia non potevano accedere a tali diritti. Dal 1791 al 1804 gli schiavi di Haiti sono stati protagonisti di una delle più straordinarie rivolte anticoloniali, con il primo successo di una rivoluzione di schiavi che mostrò in modo molto concreto l’ipocrisia del paradigma dell’uguaglianza politica universale.
Questa breve digressione aiuta a chiarire un problema complesso ma essenziale per comprendere la differenza tra una strategia incentrata sull’uguaglianza politica e sui diritti – che è stata predominante nei movimenti femministi e non solo – e la strategia politica di classe.
Olympe de Gouge e gli schiavi di Haiti hanno dimostrato che l’orizzonte di uguaglianza politica spalancato dalla Rivoluzione francese attraverso il linguaggio dei diritti universali fosse per molti un miraggio, poiché basato sugli interessi e i bisogni degli uomini bianchi di classe medio-alta. Non a caso gli uomini nullatenenti e tutte le donne continuarono a essere esclusi dal diritto di voto per più di un secolo. Tuttavia, quando le donne hanno finalmente potuto votare, soltanto le benestanti (come detto) sono state ammesse nel club dell’uguaglianza politica, riproducendo così le divisioni e le esclusioni già viste all’inizio del movimento per il suffragio universale nato dalle ceneri della Rivoluzione francese. Inoltre, la schiavitù ha continuato a rappresentare il motore dell’economia coloniale capitalista fino almeno alla fine del Diciannovesimo secolo. E anche quando la schiavitù è stata abolita, le persone nere negli Stati uniti – in maggioranza povere e working class – hanno continuato a essere ufficialmente segregate ed escluse da numerosi spazi e servizi fino alla fine degli anni Sessanta.
Per chi sottolinea l’importanza della classe nel femminismo, il linguaggio dei diritti e dell’uguaglianza politica è limitante, perché non tiene conto dei modi con cui alle donne povere e working class (e in generale ai membri della classe lavoratrice) è impedito di godere in senso pieno di questi diritti e quindi dell’uguaglianza politica. Nel Regno unito per esempio, la grande maggioranza delle donne povere e di classe lavoratrice non ha diritto all’assistenza legale, e quindi ha più difficoltà a denunciare un abuso o una violenza domestica, o a difendersi in tribunale davanti ad altri soprusi. Un altro esempio è quello delle lavoratrici domestiche migranti, che hanno solo pochi mesi per fuggire da un datore di lavoro abusante e cambiare occupazione altrimenti rischiano di diventare clandestine ed essere espulse. In tutti questi casi, la richiesta di uguaglianza politica universale, o di accesso egualitario alla giustizia, viene sistematicamente negata o svilita per le donne working class.
Ciò non significa che la lotta per i diritti politici e l’uguaglianza universale sia irrilevante o inutile in una prospettiva di classe. Al contrario, la prospettiva dell’uguaglianza politica universale ha permesso a molte donne di classe lavoratrice e a molti soggetti marginalizzati di ottenere un riconoscimento e un miglioramento della qualità delle proprie vite. Tuttavia, la critica di classe dei diritti politici sottolinea come il paradigma dei diritti non riesca a coprire interamente le disuguaglianze di classe, essendo queste talmente consolidate nelle nostre società da prevenire alla radice l’accesso all’uguaglianza politica. La vera uguaglianza si può raggiungere solo in una società senza classi.
La prospettiva femminista della classe
Finora ho trattato i modi in cui un certo tipo di tensione di classe ha attraversato le diverse ondate femministe, come la lotta femminista per l’uguaglianza politica sia stata dominata da donne di classe medio-alta e come, più in generale, il paradigma dell’uguaglianza politica e dei diritti non sia in grado di far fronte alle disuguaglianze di classe. Ma che cos’è la classe? E come è stata definita dalle femministe?
Nelle scienze sociali è possibile rintracciare due approcci principali verso il concetto di classe: 1) l’approccio della stratificazione/differenza e 2) l’approccio antagonista. I sostenitori del primo approccio classificano le persone entro diversi gruppi, o «classi», basati sul loro reddito e status. Questi approcci considerano la classe come un indicatore di differenza e rappresentano solitamente la società divisa in classi come una piramide stratificata. Chi si trova alla base della piramide guadagna di meno e ha lo status sociale più umile – pur rappresentando la percentuale maggiore della società – mentre chi è in cima ha il maggior reddito e il più alto status sociale.
Il secondo approccio è stato introdotto da Karl Marx, e si basa sull’idea che il più importante criterio per classificare le persone nelle diverse classi sia la loro relazione con le tre forme principali di guadagno: il salario, il profitto e la rendita. Le persone il cui reddito è costituito dal proprio stipendio – ossia la classe lavoratrice – non possiede i mezzi di produzione, cioè gli strumenti che permettono di lavorare (l’ufficio, il computer o i macchinari necessari a svolgere il proprio lavoro). I lavoratori e le lavoratrici salariate dipendono dai detentori del profitto, ovvero l’altra classe, che è composta dai padroni dei mezzi di produzione. A differenza dell’approccio della stratificazione, l’approccio antagonista descrive le classi come relazioni sociali interdipendenti e in conflitto non come gruppi separati. Le lavoratrici e i lavoratori salariati hanno bisogno del loro datore di lavoro (colui che detiene il profitto) per poter pagare le bollette e sopravvivere; ma il padrone ha bisogno che il lavoratore salariato compia il lavoro che gli permette di fare profitto e rimanere in cima alla piramide sociale. L’antagonismo deriva dal fatto che i loro interessi sono in contrasto, poiché una classe ottiene benefici quando il guadagno dell’altra diminuisce.
Alcune femministe hanno contribuito all’approccio antagonista sostenendo che le donne sono una specifica classe sociale a sé stante, in conflitto con quella degli uomini. Negli anni Settanta, per esempio, due pensatrici molto influenti, Christine Delphy in Francia e Shulamith Firestone negli Stati uniti, hanno sostenuto che le donne siano la classe oppressa, o sottoclasse, soggiogata dagli uomini cui devono prestare servizi domestici o sessuali. L’unico modo per raggiungere la liberazione è, secondo queste pensatrici, che le donne cessino il loro lavoro domestico e sessuale. L’aspetto interessante della definizione della donna come classe sia di Delphy che di Firestone è che rifiutano il concetto di classe nella sua più frequente accezione «economica». In altre parole, sia l’approccio della stratificazione che quello antagonista, al di là delle loro sostanziali differenze, interpretano la classe come una categoria che descrive la relazione che intercorre tra un individuo e il suo accesso al salario e alle risorse economiche. Viceversa le definizioni di Delphy e Firestone tendono a rappresentare la classe come una categoria che descrive la relazione gerarchica tra uomini e donne, in cui quest’ultime occupano una posizione subordinata e oppressa.
Sebbene la loro definizione sia controversa, poiché implica che vi sia maggior solidarietà tra persone dello stesso sesso o genere nonostante gli interessi economici contrastanti (idea spesso contraddetta dalla realtà delle divisioni di classe), la posizione di Delphy e Firestone mette in luce una dimensione importante delle classi sociali in una prospettiva femminista: la classe è allo stesso tempo una relazione sociale di interdipendenza e antagonismo che unisce uomini e donne accumunati dalla loro dipendenza dal salario e una relazione di oppressione che può mettere l’una contro l’altra le persone della stessa classe. Ad esempio, all’interno di una stessa famiglia di classe operaia o borghese gli uomini possono e spesso opprimono le donne, soprattutto perché la divisione del lavoro sulla base del genere ha per secoli costretto le donne a svolgere mansioni che la società capitalista ha svalutato (per esempio il lavoro di cura, la cucina, la pulizia).
Nonostante la strategia politica di classe sia abolizionista, poiché secondo questo paradigma la vera uguaglianza può essere ottenuta solo in una società senza classi, le femministe attente alla questione della disuguaglianza di classe sono ben consapevoli che una società senza classi non comporterebbe necessariamente la cessazione dell’oppressione di genere. Del resto durante gli anni Sessanta e Settanta, nel cuore del movimento femminista di «seconda ondata», molte delle donne iscritte a organizzazioni comuniste e socialiste con l’obiettivo di lottare per l’abolizione della società classista si sono presto rese conto di non essere trattate come interlocutrici o alleate politiche alla pari. Al contrario, mentre gli uomini erano i leader o avevano ruoli di primo piano all’interno di queste organizzazioni, le donne erano spesso relegate a occupazioni tecniche, mentre le loro richieste di emancipazione non venivano prese sul serio.
Tutto questo significa che la solidarietà di classe è solo un miraggio tanto quanto l’idea di una solidarietà tra donne in quanto donne a prescindere dall’appartenenza di classe? Non necessariamente. Ciò che mostrano queste esperienze è che la classe è una relazione sociale intrecciata inevitabilmente con altre relazioni sociali diverse come il genere e la razza. I lavoratori e le lavoratrici sono soggetti situati sull’asse del genere e della razza, e incarnano e subiscono le ampie contraddizioni e disuguaglianze che queste diverse relazioni sociali comportano.
SARA R. FARRIS *
fonte: jacobinitalia.it - 8 set. 2023
*Sara R. Farris, professoressa in sociologia alla Goldsmiths-University di Londra, è autrice di Femonazionalismo (Alegre, 2019). Questo pezzo è parte di un volume collettaneo a cura di Catherine Rottenberg, This is not a textbook – Feminism (Goldsmiths University Press, 2023). La traduzione è di Valentina Menicacci.