Neue Fabrik
Sep 27, 2022
I nuovi rapporti nella lotta di classe, la storia e la contemporaneità
di EMILIO QUADRELLI
Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 1
di Emilio Quadrelli
«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.» (K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista»)
Genealogia di un concetto
Tra i motivi che ci hanno portato alla stesura di queste note, il ricorso al parlamentarismo, sia di gran parte della residualità comunista sia della galassia antagonista, ha giocato un ruolo non secondario. Attraverso la formazione di liste partitiche autonome o identificando, come nel caso dei 5 Stelle, un interlocutore dai decisi tratti “antisistema” il parlamentarismo continua a essere considerato un ambito importante, o perlomeno utile, per le masse subalterne. Notoriamente il tema del parlamentarismo è stato oggetto di non poche contrapposizioni all’interno del movimento operaio e comunista. A partire da Lenin e dal suo Estremismo, malattia infantile del comunismo il “dogma” della partecipazione alle elezioni è stato moneta corrente per la maggior parte delle pur diverse anime del movimento comunista rispetto alle quali facevano eccezione le frazioni dei “comunisti di sinistra” e dei “comunisti consiliari” che con Lenin avevano rotto sin dai tempi del III Congresso dell’Internazionale comunista. In Italia, anche se non in chiave antileninista, il rifiuto del parlamentarismo può vantare una lunga, ancorché assai minoritaria”, tradizione grazie a Bordiga e all’area politica definitasi “sinistra comunista”. Sull’utilità di presentarsi o meno alle elezioni si sono consumati fiumi di inchiostro all’interno di quella “nuova sinistra” sorta sull’onda del ’68. Proprio il ’68 e le sue pratiche avevano pesantemente posto sotto critica il parlamentarismo e le logiche che si portava appresso. È la lotta/non il voto/è la lotta che decide era stata la “linea di condotta” dell’altro movimento operaio il quale, insieme al parlamentarismo, aveva posto in archivio per intero la logica della delega e di tutte le forme di rappresentanza dal sapore istituzionale. Con ciò il parlamentarismo diventava qualcosa di superfluo non tanto per una questione di principio ma perché superato dalla materialità dei fatti. In questo, a ben vedere, vi era una totale adesione proprio alle argomentazioni di Lenin il quale non assolutizzava il parlamentarismo, ma lo giocava dentro la concretezza della fase politica. In un momento di ripiego partecipare alle elezioni aveva un senso ma, in una fase di attacco, non solo era insensato ma assumeva i tratti di un autentico tradimento, poiché non la Duma bensì la strada diventava il solo e vero ambito di lotta. Con il ripiegamento del movimento di classe la questione del parlamentarismo tornò a farsi viva tanto da protrarsi sino ai giorni nostri. A nostro avviso questo dibattito si mostra del tutto privo di fondamento poiché non considera le differenze storiche tra la fase imperialista affrontata da Lenin e la fase imperialista contemporanea. Lenin agisce in un contesto nel quale è la borghesia stessa a includere i subalterni all’interno dei perimetri politici e statuali mentre, nel presente, assistiamo esattamente all’opposto. Per il potere politico le masse e il loro inserimento nel gioco istituzionale si è fatto del tutto privo di un qualche interesse tanto che gli elevati indici di astensione non sono forieri di alcuna preoccupazione. A differenza dell’epoca di Lenin, tutta incentrata sull’inclusione politica e sociale delle masse subalterne, oggi siamo dentro uno scenario completamente rovesciato: l’esclusione è la cornice entro la quale il potere politico ascrive classe operaia e proletariato ed è esattamente da ciò che occorre partire. Il tema dell’esclusione sociale conosce oggi una fortuna inaspettata tanto da emanciparlo dagli angusti e ristretti ambiti disciplinari in cui, tradizionalmente, è stato ascritto. Mentre, classicamente, a occuparsi di esclusione sociale sono state discipline quali l’antropologia culturale, la sociologia della devianza e, in particolare negli ultimi anni, la sociologia della cultura oggi questa è diventata tema non secondario della teoria politica1. Tutto ciò, già di per sé, è indicativo di quanto l’era attuale sia attraversata da un insieme di trasformazioni in grado di scompaginare per intero le coordinate concettuali di un’intera epoca. Non a caso gli stessi movimenti operai, proletari e comunisti che nei confronti dei temi dell’esclusione sociale hanno sempre nutrito interessi a dir poco vaghi, oggi sono costretti ad assumerla come uno degli aspetti centrali della condizione dei subalterni. Legittimo, quindi, domandarsi che cosa sia accaduto. Occorre, pur sommariamente, ricostruire la storia di un concetto. Obiettivamente l’esclusione sociale ha sempre rimandato ai mondi della marginalità. Una marginalità che poteva essere ascritta a due ambiti. Il primo riconducibile direttamente al mondo dei poveri, il secondo a quello degli “anormali”. Per quanto, in non pochi casi, i due ambiti abbiano finito spesso con l’incontrarsi analiticamente occorre tenerli separati. Partiamo, pertanto, a definire l’ambito della povertà e a domandarci per quali motivi, i movimenti operai e comunisti, si siano sostanzialmente disinteressati dei poveri. Chi sono i poveri e in che cosa si distinguono dagli operai e dai proletari? Fondamentalmente in una cosa: questi non sono una classe sociale e, il che ne è l’aspetto decisivo, non sono, e né possono esserlo, una classe storica2. A differenza del proletariato deputato a diventare agente della storia universale in quanto classe in grado di incarnare l’interesse generale, il povero consuma la sua esistenza dentro una dimensione mesta sia sul piano empirico sia su quello della scena storico–politica. Il povero, il marginale, l’escluso non sono in grado di rovesciare alcun rapporto di forza poiché, si potrebbe dire, la loro condizione si colloca fuori da una relazione dialettica ancorché nella dimensione servo – padrone3. Del resto, mentre è pensabile la dittatura operaia, proletaria e contadina, come forma statuale in grado di organizzare il potere di classe in un determinato territorio, a dir poco dadaista sarebbe un’ipotesi politica che fondasse la sua prospettiva sulla dittatura rivoluzionaria dei poveri4. In poche parole, il marginale, il povero, il socialmente escluso incarnano sempre, almeno sotto il profilo economico e sociale, una disgregazione seguita ai processi di modernizzazione. Ciò che lo caratterizza è un sostanziale declassamento che lo fa precipitare ai margini della vita sociale5. Non a caso, il socialmente escluso, è per lo più estraneo all’ambito della produzione e la sua vita si dipana tra assistenza pubblica e/o religiosa o attività illegali di piccolo cabotaggio. Lo stesso disoccupato, in quanto esercito industriale di riserva6, ha ben poco a che spartire, indipendentemente dalle condizioni empiriche nelle quali può ritrovarsi, con il povero e il marginale. Solo nel caso in cui, in seguito al prolungato stato di disoccupazione, l’operaio vive un oggettivo processo di declassamento la sua iscrizione al mondo della marginalità diventa un fatto acquisito ma, per l’appunto, ciò è il frutto di un passaggio dentro un ambito sociale completamente diverso7. In quel caso, l’operaio declassato, si ritroverà in mezzo ad altri declassati provenienti dalle più svariate classi sociali. In poche parole l’esclusione sociale, classicamente, sembrava porsi fuori dai rapporti capitalistici di produzione. Sotto tale profilo il capolavoro di Hugo è quanto mai esemplificativo. Il mondo dei miserabili raccoglie, al contempo, tutti i residui delle ere passate e le “vite di scarto”8 del presente, poiché escluse definitivamente dal ciclo di produzione capitalista. Questo mondo, sempre propenso a compiere un colpo di stato dal basso, non mira alla presa del Palazzo d’Inverno ma, ben più prosaicamente, al portafoglio di qualche malaugurato passante o, nella migliore delle ipotesi, agli arredi di qualche abitazione o negozio momentaneamente non custodito. In non pochi casi, il colpo di stato, è tentato o realizzato verso i propri simili per sottrargli le piccole fortune momentaneamente acquisite. Nei confronti del potere politico e della polizia in particolare questi ambiti si mostrano a dir poco ossequiosi e sempre pronti a vendere qualcuno in cambio di un momentaneo salvacondotto, qualche moneta o per acquisire un piccolo credito da consumare in una futura occasione. In non poche occasioni, inoltre, i socialmente esclusi non si sono fatti problemi a svolgere il “lavoro sporco” per conto del potere legittimo, in funzione antioperaia e antiproletaria. Più modestamente come crumiri o con qualche pretesa in più in veste di novelli pretoriani, per l’insieme di questi motivi, agli occhi della classe operaia e del proletariato, sono sempre stati percepiti come corpo estraneo se non come veri e propri avversari del fronte di classe. Dalla Brigata dei Macellai sino ai mazzieri fascisti il rapporto tra movimento operaio e marginalità sociale non è mai stato particolarmente amorevole9. Il secondo ambito tipico del socialmente escluso, come si è detto, è riconducibile a quell’insieme di comportamenti ascrivibili ai mondi dei cosiddetti anormali10. Un mondo quanto mai variegato che, attraverso i secoli, ha accolto nel suo grembo dal folle11 all’omosessuale. Il socialmente escluso, in questo caso, è sempre il frutto di un ordine discorsivo e di un effetto di potere dal duplice scopo: sperimentare in vitro tecniche di controllo e di disciplinamento il cui utilizzo, in un processo a cascata, può essere esteso ai più svariati ambiti sociali; uniformare i comportamenti e i costumi della popolazione al fine di rendere la nazione più forte e più sana12. Per sua natura il termine “anormale” è talmente polisemico da potersi, volta per volta, applicare a qualunque comportamento socialmente non convenzionale, in un preciso svolto storico. Come esempio non secondario può essere assunto l’ordine discorsivo che si è prodotto intorno all’omosessualità. La messa al bando dell’omosessualità ha attraversato l’intera epopea in cui la potenza statuale coincideva con la forza della nazione. Epoca in cui, produzione ed esercito, potere economico e forza militare si fondano prevalentemente sul numero. In tale contesto la forza di una potenza statuale sarà direttamente proporzionata alla sua capacità industriale, quindi alla quantità di forza – lavoro salariata messa al lavoro, unita alla vastità della mobilitazione militare che il numero rende possibile. In tale scenario la necessità di una nazione ricca, per non dire abbondante, di prole rappresenta per il potere politico un obiettivo strategico irrinunciabile. L’omosessuale, suo malgrado, diventa colui che “oggettivamente” compie un atto di sabotaggio nei confronti del potere. Non procreando, l’omosessuale, depotenzia il patrimonio nazionale e statuale limitando obiettivamente le capacità di riserva, economica e militare, dello stato13. Significativamente, nel momento in cui il paradigma industriale della guerra14 viene meno, l’ordine discorsivo intorno all’omosessualità comincerà a mutare15. L’emancipazione alla quale, nelle nostre società, la pratica omosessuale sembra andare incontro più che l’effetto di un improbabile processo di civilizzazione appare come l’effetto del mutamento di paradigma intervenuto dentro la forma guerra. Non è un caso, infatti, che l’ostracismo a cui l’omosessualità è tuttora sottoposta in determinate aree del mondo sia opera di sistemi statuali ancora pervasi dal paradigma della guerra industriale. Nelle nostre società “civilizzate”, tuttavia, l’ordine discorsivo intorno agli “anormali” non si è estinto ma ha semplicemente cambiato indirizzo o indirizzi cogliendo l’anormalità in quei comportamenti, come ad esempio nel caso degli ultras16, in qualche modo turbativi di un ordine sociale che, per definizione, è dato per pacificato. Ma torniamo a occuparci della dimensione “strutturale” dell’emarginazione sociale. Andando al sodo se, come si è detto, non è il reddito in quanto tale a definire gli ambiti della marginalità e dell’esclusione, attraverso quale criterio diventa definibile l’ambito dell’esclusione sociale? Rispondere che la dimensione del lavoro, e in particolare del lavoro salariato, è stata a lungo la condizione necessaria e sufficiente al contempo per delimitare il campo dell’esclusione e della marginalità è certamente vero ma, a sua volta, tale condizione era il frutto di una reciprocità che ha fatto da sfondo alla modernità, ossia alla nascita del modo di produzione capitalista. Parafrasando Schimtt potremmo facilmente sostenere che il rapporto borghesia e proletariato, per quanto improntato oggettivamente su un criterio di inimicizia, si è sempre dato dentro una relazione di eguaglianza: nemici sì, ma di pari grado e dignità. Ciò in qualche modo, del resto, era già presente in Marx. Che cosa significa, infatti, la nota affermazione presente nel paragrafo dedicato alla giornata lavorativa del primo libro de Il capitale: “Fra diritti eguali decide la forza”17, se non che la relazione tra capitale e lavoro salariato, sul piano storico, si pone dentro una cornice di eguaglianza e reciprocità? Nel rapporto tra proletariato e borghesia sembra rivivere quello jus publicum che aveva regolarizzato la guerra tra stati legittimi, ossia europei, sino al delinearsi della guerra imperialista18. Del resto la dialettica propria del modo di produzione capitalista non poteva che porre la questione esattamente in questi termini19. (fine prima parte – continua)
Nel Novecento l’interesse nei confronti degli ambiti dell’esclusione e della marginalità è stato un tema particolarmente coltivato dalla sociologia nordamericana e in particolare dalla “scuola etnografica” di Chicago, al proposito di veda R. Rauty, Società e metropoli. La scuola sociologica di Chicago, Donzelli, Roma 1995. Questo non è un caso poiché la presenza non secondaria di immigrati, estranei al ceppo bianco, protestante e anglosassone dominante negli USA, forniva al fenomeno dell’esclusione sociale e della marginalità numeri e consistenze di gran lunga superiori, e quindi socialmente interessanti, rispetto alle società europee la cui costituzione e formazione poggiava su delle popolazioni maggiormente omogenee. Inoltre, proprio nel Novecento statunitense, era presente un fenomeno come quello di una classe operaia mobile e flessibile che rappresentava un problema sociale e politico, molti di questi lavoratori erano infatti legati agli IWW, al proposito si veda F. Manganaro, Senza patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati Uniti, Odradek, Roma 2004 ma anche, benché collocato in una panoramica temporale più ampia, J. Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, Derive Approdi, Roma 1999, che doveva essere affrontato non solo in termini di ordine pubblico ma anche analizzati da un punto di vista sociale e culturale. Proprio intorno a questa figura sociale, non per caso, è stata costruita una delle opere di maggior rilievo della “scuola di Chicago”, N. Anderson, Hobo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli, Roma 1996. Un insieme di lavori che, pur assumendo il conflitto come parte costitutiva della vita sociale, ne perimetravano gli effetti dentro una cornice puramente antropologica e culturale glissando bellamente sulla sua dimensione politica. Sotto il profilo politico, invece, la questione dell’esclusione sociale è stata posta come semplice problema di governance delimitata agli ambiti della povertà. Al proposito si veda: G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Il Mulino, Bologna 1998
Sul concetto di classe storica si veda in particolare G. Lukács, “La reificazione e la coscienza del proletariato”, in Id., Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973
Oltre allo scontato riferimento al famoso passaggio hegeliano, G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1973 si vedano al proposito le argomentazioni weberiane, M. Weber, Economia e società, Vol. II, Edizioni di Comunità, Torino 1995, in relazione ai vincoli che legano, in un abbraccio mortale, servo e padrone nelle società preindustriali. Vincolo che, in ogni caso, è determinato da un determinato modo di produzione. Solo la rivoluzione industriale, l’avvento dell’economia monetaria e la relazione capitale lavoro salariato hanno sciolto i vincoli propri di un’era dominata, indipendentemente dall’odio o dall’amore che legava le parti, dalla gabbia del rapporto comunitario.
Significativa, al proposito, è l’alleanza tra proletariato e contadini poveri inaugurata, in quanto forma di governo, nel corso della rivoluzione russa. Il partito bolscevico, al fine di mantenere il potere dei soviet, cerca l’alleanza con una classe sociale che, in virtù della postazione che occupa dentro il ciclo produttivo, è classe economica e sociale a tutti gli effetti mentre del tutto inessenziali risultano, ancorché quantitativamente non irrilevanti, le masse impoverite presenti soprattutto nelle città. Ciò che diventa decisivo, per stipulare una politica di alleanza, è il ruolo e la funzione produttiva che una classe sociale è in grado di vantare ed esercitare. L’estraneità dei poveri al mondo delle produzione li rende, obiettivamente, privi di potere contrattuale nei confronti di qualunque forma di governo. Sull’alleanza del proletariato con i contadini poveri si veda, V. I. Lenin, “Tesi per il rapporto sulla tattica del partito comunista di Russia al III Congresso dell’Internazionale Comunista”, in Id., Opere, Vol. 32, Editori Riuniti, Roma 1967; “La Nuova Politica Economica e i compiti dei Centri di educazione politica. Rapporto al II Congresso dei Centri di educazione politica di tutta la Russia”, in Id., Opere, Vol. 33, Editori Riuniti, Roma 1967.
Cfr. G. Simmel, “Il povero”, in Id., Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano 1989.
K. Marx, “Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva”, in Id., Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1994
Il mondo dell’esclusione sociale e della marginalità, pertanto, raccoglie in maniera indistinta resti e frattaglie di ambiti sociali che hanno perso qualunque tipo di identità. Il nobile decaduto, il commerciante fallito, il disoccupato cronico al pari del contadino sradicato e così via diventano le figure abituali dei mondi dell’esclusione. Ciò che li unisce, oltre a un comune risentimento nei confronti del mondo, è la perdita di ogni prospettiva storica. L’unico tempo in cui diventa possibile abitare è il presente mentre del tutto assente diventa la dimensione del tempo storico. Con ogni probabilità chi ha colto con maggiore lucidità il rapporto tra proletariato e tempo storico è stato Paul Nizan in I cani da guardia, La Nuova Italia, Firenze 1970.
Un’espressione che, nel presente, nei confronti soprattutto delle masse migranti ha conosciuto una certa notorietà, cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, Editori Laterza, Roma – Bari 2005. Si tratta, almeno questa è l’opinione di chi scrive, di un ipotesi decisamente fuorviante poiché, a differenza dei miserabili di Hugo, a tutti gli effetti scarti delle ere passate, le masse migranti attuali più che a una storia di ieri rimandano a una storia di un futuro divenuto in gran parte già presente. Queste, infatti, prefigurano al meglio la condizione proletaria media e necessaria a cui l’attuale modello di produzione capitalista aspira. Ben distanti dall’essere scarti queste rappresentano il corpo operaio massimamente produttivo e, grazie alle pratiche e ai dispositivi di segregazione, maggiormente docile. La loro salvezza ed emancipazione non sta in un “nuovo umanesimo” del quale l’intellighenzia progressista si fa paladina bensì nella loro organizzazione politica autonoma su basi classiste. Così come mai la merce sfamerà l’uomo, mai il culturalismo emanciperà i nuovi dannati delle metropoli.
Le vicende tedesche tra le due guerre, cfr. W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, sotto tale profilo ne rappresentano una più che significativa esemplificazione. Il problema che queste masse ponevano alle organizzazioni proletarie e di classe non è sfuggito al movimento comunista internazionale che, proprio nella Germania weimariana, si mostrò in tutta la sua complessità dando vita a un dibattito quanto mai vivo e intenso tra le menti più lucide e attente del movimento comunista internazionale. Una buona ricostruzione del dibattito che attraversò per intero il KPD e l’Internazionale comunista è reperibile nei capitoli che formano la seconda parte del testo di E. H. Carr, La morte di Lenin. L’interregno 1923 – 1924, Einaudi, Torino 1965.
M. Foucault, Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2000.
Al proposito si vedano M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1992; Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004
Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988
Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998
Per una buona discussione di questo tema si veda R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009
Rispetto al passato, oggi, le nazioni più ricche e potenti si pongono il problema del controllo e della limitazione delle nascite invece che del loro incremento esponenziale. Non è secondario notare come, nelle società contemporanee, il grado di ricchezza, forza e potenza, avendo a mente come parametro la popolazione, sia dato dalla longevità piuttosto che dal numero delle nascite.
Cfr. AA. VV., Stadio Italia. I conflitti del calcio moderno, La casa Usher, Firenze 2010
K. Marx, Il capitale, Libro primo, pag. 269, cit.
Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.
Mentre la borghesia, nei confronti delle classi aristocratiche, aveva potuto svilupparsi in maniera indipendente da queste tanto che, nel momento in cui decapita l’antico regime, la sua presa sul mondo, in senso economico, sociale e amministrativo può vantare uno stadio più che avanzato, paradigmatico al proposito il noto libello di E – J Sieyès, Che cos’è il terzo stato? Editori Riuniti, Roma 1992 nonché il classico, A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 1990, per cui la “rivoluzione politica” diventa l’atto conclusivo di un processo che, sul piano economico e sociale, aveva conosciuto una lunga gestazione nel corso della quale, le vecchie classi dominanti, avevano potuto “ignorare” la borghesia e considerarla come ceto sociale di grado inferiore, la natura del modo di produzione capitalista obbliga a una relazione di natura completamente diversa. Il proletariato, infatti, non è esterno ed estraneo alla borghesia poiché, in veste di capitale variabile, è la vera fonte del plusvalore. Non per caso, mentre l’estinzione delle classi nobiliari spalancano le porte al dominio della borghesia, il proletariato emancipandosi, ossia negandosi come classe, decreta la morte del modo di produzione capitalista e della borghesia.
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Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 2
di Emilio Quadrelli
La grande trasformazione
Il comunismo, ovvero la teoria politica della nuova classe in grado di incarnare, e in maniera definitiva, l’universale poggia per intero sul punto d’approdo della filosofia classica borghese. Il ciclo storico progressivo della borghesia, sotto il profilo concettuale, si consuma in Hegel e Feuerbach lasciando irrisolta la questione della nuova classe che questo mondo ha partorito: il proletariato1. Engels e Marx, facendo leva sui titani della borghesia, porranno a regime la teoria della parte “cattiva” della storia, della negazione del modo di produzione capitalista. In virtù di ciò la guerra tra proletariato e borghesia è un conflitto riconosciuto da entrambi i contendenti come legittimo. Palesemente, dentro tale cornice, non vi è spazio per l’esclusione. Non per caso, come avviene in ogni conflitto legittimo, la possibilità della mediazione, del ricorso all’arte della diplomazia e via dicendo è sempre possibile. Gli operai sanno che la borghesia è una forza storica che governa in virtù di una legittimità storica e politica così come, al contempo, la borghesia intravede nella classe operaia la forza storica in grado di seppellirla. Ridotta all’osso, e non è certo cosa da poco, tutta la storia del movimento operaio passato si riduce a ciò. Uno scenario che, nei nostri mondi, si è obiettivamente eclissato. Oggi noi riscontriamo come la condizione di socialmente escluso sia ben distante dall’indicare le classiche e in gran parte endemiche sacche di marginalità, ma come tale condizione invece si sia estesa a corpose quote di forza lavoro salariata. Ma tutto ciò da che cosa trae origine? Attraverso quali passaggi ciò si è reso possibile? Che cosa ha reso così familiare la condizione dell’esclusione? La questione non è liquidabile in poche battute poiché la repentina caduta dentro l’ambito dell’esclusione sociale è il frutto di più fattori che, nel corso dell’analisi, vanno tenuti costantemente a mente. Non si tratta, infatti, del semplice e meccanico riflesso di una condizione oggettiva (le trasformazioni intervenute dentro il ciclo produttivo) ma, piuttosto, il risultato di un insieme di interventi oggettivi (economici), soggettivi (politici) e teorici che hanno contribuito alla messa in forma dello scenario attuale. Una nuova definizione del concetto di esclusione sociale deve, pertanto, tenere costantemente a mente l’intreccio di queste tre dimensioni. L’irrompere dell’esclusione sociale come fenomeno interno alla condizione lavorativa di corpose quote di forza lavoro ha iniziato a delinearsi con l’era del cosiddetto capitalismo globale il quale ha coinciso, a grandi linee, con il crollo dell’URSS e la fine del bipolarismo2. Da quel momento in poi, limitando lo sguardo alla condizione della forza lavoro salariata occidentale, si è assistito a una sorta di globalizzazione in basso della condizione operaia e proletaria. Tutto questo all’interno di un doppio movimento. Per un verso, attraverso i processi di delocalizzazione ed esternalizzazione dei processi produttivi3, il ciclo della merce ha iniziato a essere dislocato nelle più svariate aree del mondo mentre, al contempo, le condizioni di vita e di lavoro presenti nei Paesi non occidentali ha iniziato a plasmare le relazioni lavorative anche dell’ex Primo mondo. Ricerca di sempre maggiore produttività e riduzione del costo del lavoro sono stati, accompagnati da cospicui provvedimenti di detassazione dei profitti, la linea di condotta del comando capitalistico internazionale. Nonostante le tensioni e gli squilibri che hanno attraversato e attraversano sempre più i diversi gruppi imperialisti4, smentendo con ciò i vari teorici di Empire5 che si sono ritrovati ben presto tra le mai un Impero persino più breve del III Reich, nei confronti della forza lavoro salariata questi blocchi si sono mossi in maniera assolutamente unitaria e compatta6. L’attacco alle condizioni di vita delle masse ha conosciuto picchi che, solo pochi anni addietro, neppure i più reazionari e destrorsi capitalisti avrebbero neppure ipotizzato. Un attacco che ha comportato non solo la “semplice” riduzione di salario, di garanzie, di diritti interni al luogo di lavoro e produzione, ma che si è dipanato su tutti gli ambiti sociali. Il costo del lavoro, infatti, non si limita alla semplice questione salariale ma investe, o almeno ha investito specialmente nei Paesi dell’Europa occidentale, tutto quell’insieme di “diritti sociali” non direttamente collegati agli ambiti aziendali7. In questo senso il costo del lavoro associa alla voce salario propriamente detta una serie di aspetti complementari quali pensioni, sanità, scuola ecc. che costituiscono, o almeno hanno costituito, un insieme di capitoli di spesa legati a doppio filo al salario e alla forza operaia che questo incarnava. La lotta incessante, e tuttora in corso, contro la spesa sociale da parte di tutti i governi borghesi dell’ultimo trentennio raccontano esattamente il graduale e costante assedio a cui la forza–lavoro salariata dei Paesi occidentali è stata sottoposta e la sua sempre maggiore vicinanza a quella condizione lavorativa che, da tempo, l’imperialismo delle multinazionali aveva ampiamente sperimentato fuori dai confini del Primo mondo. È diventato persino banale tracciare le condizioni di vita oltre il paradossale e il grottesco a cui sono deputate quote di forza – lavoro non secondarie, con condizioni contrattuali che, in alcuni casi, si limitano alla singola giornata lavorativa, per non parlare di quella massa permanente di “occupati in nero” che solo dentro una condizione fuori legge trovano una qualche possibilità di sostentamento. Infine, e non si tratta di un passaggio privo di ricadute, aumenta in maniera esponenziale il numero di coloro che vivono attraversando continuamente la soglia della legalità. Il dilatarsi dell’area penale, una costante che accomuna tutti i Paesi occidentali8, testimonia quanto, per corpose quote di popolazione subordinata il ricorso all’illegalità funziona esattamente come stato d’eccezione permanente. Il tutto, sia ben chiaro, senza alcun romanticismo o ribellismo di sorta. La massa di subalterni che attraversano le soglie della legalità hanno veramente ben poco del bandito e/o del masnadiero così come, nel loro agire, non vi è nulla di, almeno sotto il profilo “oggettivo”, antagonista o di poco convenzionale9, ma, ben più prosaicamente, vi è l’assunzione drammatica e realista al contempo di una condizione esistenziale che non lascia molte vie di fuga10. Per cospicue quote di forza–lavoro subordinata, il ricorso all’illegalità, non è altro che la “ banale” articolazione di una complessa giornata lavorativa nella quale, volta per volta e in base alle richieste del mercato, si svolgono diverse funzioni11. Del resto, e non è un caso, la stragrande maggioranza delle attività illegali sono legate a quell’insieme di servizi “illeciti” ampiamente richiesti dalla società legittima. All’interno di questa sorta di “terziario illegale”12 si consumano quote di giornate lavorative di quel “lavoro (e lavoratore) senza fissa dimora”13 di cui le nostre società sembrano essere sempre più voraci. Uno scenario talmente diffuso da non fare neppure più notizia. Questi dati strutturali e oggettivi hanno avuto bisogno di un involucro soggettivo, ossia politico, in grado di gestire al meglio tale passaggio. Questa forma è riconducibile a quel movimento cosiddetto neoliberista e/o ordoliberale che ha caratterizzato un intero ciclo storico della borghesia. Un ciclo politicamente organizzato a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso la cui gestazione affonda le radici sin dentro il dibattito degli economisti e dei politologi tra le due guerre14. A caratterizzare questa fase, in maniera apparentemente sorprendente, è la “rivolta” della borghesia, e soprattutto delle sue frazioni imperialiste, nei confronti dello stato. A partire dai primi anni Settanta abbiamo così assistito a una continua battaglia anti-statuale da parte di corpose quote di borghesia. Ma di quale battaglia si è trattato? A ben vedere a venire intaccate non sono state certo le funzioni propriamente politiche dello stato piuttosto a essere costantemente sotto tiro sono stati gli interventi statuali dentro la società e la funzione di mediatore dei conflitti assolta dallo stato per gran parte del Novecento a partire da quella grande cesura storica che è stata la Prima guerra mondiale15. In poche parole ciò che è diventato oggetto di critica costante da parte della borghesia è stato il carattere anche sociale dello stato. L’obiettivo strategico di questo discorso ha mirato a separare lo stato, ossia la sua funzione squisitamente politica, da quella sociale. Quali sono le ricadute al contempo oggettive e soggettive di questo passaggio? Si tratta semplicemente, anche se questa è la ricaduta empirica più immediata ed evidente, di un impoverimento più o meno generalizzato delle masse subalterne? Si tratta di un semplice ridimensionamento di quell’insieme di “consumi”, dove per consumi non si intende semplicemente la quota di merci acquisibili tramite il salario bensì di quel “consumo sociale” che passa attraverso il diritto alla salute, allo studio, alla gestione di ampie quote di tempo libero e così via? In poche parole si tratta di una partita che si gioca per intero dentro la dimensione economica oppure, tutto ciò, si porta appresso una mutazione radicale e complessiva della relazione tra capitale e lavoro salariato rispetto a ciò che, pur con tutte le modifiche e le rotture storicamente intervenute, abbiamo sino ad ora conosciuto? La condizione dell’esclusione sociale lascia, fatte le tare del caso, immutate le cornici del conflitto oppure, dentro la fase imperialista attuale, gli elementi di rottura rispetto alle epoche precedenti sono di tale portata e ricaduta da investire nel suo insieme la relazione tra comando capitalistico e masse lavoratrici subordinate? I dati obiettivi porterebbero a optare per quest’ultima ipotesi ed è esattamente dentro questo passaggio che la questione dell’esclusione sociale si emancipa dagli angusti e classici ambiti della marginalità per diventare tema centrale delle nostre società. Ciò a cui assistiamo è al venir meno di quel rapporto di reciprocità tra borghesia e proletariato che aveva caratterizzato un intero ciclo storico. Di fronte a sé, la borghesia, non riconosce alcun hostis ma solo, sul fronte interno, “anormali”16 e canaglie sul piano internazionale17. A caratterizzare la fase attuale è l’assenza del nemico pubblico e della dimensione esistenziale propria del “politico”. Dentro tale scenario, per forza di cose, diventa impensabile ogni ipotesi di mediazione e/o di diplomazia poiché, perché tali pratiche possano venir messe a regime, occorre che il principio di reciprocità giri a pieno regime. In definitiva l’esclusione sociale non è altro che la forma “concreta” di un passaggio ancor più radicale: l’espulsione delle masse dalla scena pubblica, quindi dalla politica. Un’esclusione che investe per intero il sistema–mondo. (fine seconda parte – continua)
F. Engels, “Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca”, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969
Una disincantata analisi di questi processi la fornisce, in maniera apparentemente inaspettata, un neoliberista tra i più attivi e convinti, L. C. Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, Milano 1997. Di non poco interesse, sempre per un punto di vista interno al capitalismo globale, rimane, G. Soros, La crisi del capitalismo globale, Ponte alle Grazie, Milano 1999.
Una buona esemplificazione empirica di questo passaggio la fornisce il bel lavoro di D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, Ombre Corte, Verona 2004. Un aspetto non secondario della ricerca di Sacchetto è il mostrare la precisa relazione tra delocalizzazione e azioni di polizia umanitarie. Un modo elegante per giustificare quelli che, a tutti gli effetti, si presentano come atti di vero e proprio colonialismo. Una conferma di questo intreccio la si può trovare attraverso la “storia di vita” di Anna raccolta da E. Quadrelli in Evasioni e rivolte. Migranti. CPT. Resistenze, Agenzia X, Milano 2007. In questa testimonianza diventa pressoché indiscutibile come tra le finalità delle cosiddette azioni umanitarie e/o di polizia internazionale vi sia anche la messa al lavoro integrale del corpo dell’indigeno. Una logica che trova non poche affinità con quanto praticato in Afghanistan dalle filiere dell’imperialismo a matrice fondamentalista nei confronti dei civili afgani. Lo stesso “diritto allo stupro” praticato dai combattenti anticomunisti e ultrà della shari’a mostra come, indipendentemente dalle diverse confessioni, le logiche imperialiste siano, nei confronti delle masse subalterne, improntate dalle medesime affinità. Non stupisce pertanto come proprio il corpo della donna, in piena assonanza con le più scontate logiche coloniali, sia quello maggiormente
Sotto tale profilo non poco indicativo è la diversità di interessi e intenti emersi nella guerra conto la Libia. Al proposito si veda, «Limes Rivista italiana di geopolitica», Il grande tsunami, Gruppo Editoriale L’Espresso N. 1, Milano 2011. Proprio la “Campagna di Libia”, nonostante la cornice Nato in cui è condotta dovrebbe mostrarne il carattere omogeneo e unitario mostra come la “grande coalizione”, a dominanza statunitense, venutasi a delineare nel corso della “guerra fredda” avesse una natura puramente tattica, fronteggiare il comune nemico, mentre, sul piano strategico, fosse del tutto inconsistente. Con la fine del “Patto di Varsavia” le consorterie imperialiste hanno ripreso, senza troppi pudori, a giocare ognuna per sé. Nel “caso Libia” ciò è quanto mai evidente. Sono stati proprio i Paesi con alle spalle un passato coloniale di primordine, Gran Bretagna e Francia, a spingere verso la guerra con la dichiarata tentazione di ritornare, da padroni, sui territori che le avevano viste a lungo protagoniste. Ovvio che, in tale contesto, una struttura come la Nato diventi oggetto di negoziazioni, e spartizioni, tra partner sempre più indirizzati verso una politica internazionale autonoma dove, per autonoma, si deve intendere autonomia politica, militare, economica e diplomatica dei diversi raggruppamenti imperialisti. Sulla “crisi” che attraversa, non da ieri, la struttura Nato si veda «Limes», Rivista italiana di geopolitica, L’America in panne, Gruppo Editoriale l’Espresso, n. 1, Milano 2007.
M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002
Cfr., E Quadrelli, Cogliere l’occasione! Genova 2001 – Genova 2011. Note per una lettura globale della fase imperialista, Associazione marxista Politica e Classe, Roma 2011
La cesura tra il passato e il presente può essere colta attraverso la rilettura di un testo, T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Editori Laterza, Roma – Bari 2002, che ha a lungo rappresentato la stella polare delle politiche statuali dei Paesi dell’Europa occidentale nei confronti delle masse subalterne. Sin dalle prime battute apparirà chiaro ed evidente come la cornice teorico – politica contemporanea si collochi su coordinate non solo diverse ma opposte.
La pubblicistica al riguardo è quanto mai vasta. Con ogni probabilità i testi che affrontano con maggiore incisività e chiarezza analitica questo passaggio sono L. Re, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Editore Laterza, Roma – Bari 2006; L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberismo e politica penale, Ombre Corte, Verona 2002
Si tratta di una condizione ben diversa da quella che ha caratterizzato, negli anni Settanta del secolo scorso, una parte della storia dell’illegalità del nostro Paese . Le batterie di rapinatori che hanno caratterizzato quel periodo rappresentavano a tutti gli effetti una rottura con i cliché tradizionali della malavita. Ciò non è difficilmente spiegabile poiché le batterie erano figlie della fabbrica, prodotti spuri ma diretti di quella trasformazione seguita all’impiantarsi della fabbrica fordista nei principali comparti industriali italiani. Su questi aspetti si veda, E. Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori e guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, Derive Approdi, Roma 2004. Un’epoca che, nell’arco grosso modo di un decennio, volge drammaticamente al termine e della quale ne è stata praticamente azzerata la memoria. Non è infatti casuale che, oggi, l’icona illegale degli anni Settanta sia comunemente considerata la Banda della Magliana il cui legame a doppio filo con il potere, è arcinoto. Reiterando un aspetto, quello per così dire classico, del rapporto tra crimine e potere alla cui base vi è la relazione et – et. Su questo aspetto, cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976.
In questo senso per lo meno discutibili appaiono quell’insieme di ipotesi politiche che individuano nell’esodo, cfr. P. Virno, Esercizi di esodo. Analisi linguistica e critica del presente, la possibile strategia antagonista del presente.
Empiricamente queste pratiche sono state ampiamente descritte in A. Dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre, Feltrinelli, Milano 2003.
Sull’aspetto di “servizio” di tali attività, A. dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre, cit.
Questa assenza di dimora stabile del lavoro sembra essere una delle peculiarità della condizione lavorativa contemporanea. Tutto ciò, ovviamente, ha ricadute sulla soggettività del lavoratore di non secondaria importanza. La differenza con l’epoca che ci siamo lasciati alle spalle dove, in linea di massima, il medesimo luogo di lavoro diventava una sorta di abitazione per il lavoratore dall’assunzione sino alla pensione è evidentemente abissale. Un aspetto fondamentale del nostro lavoro di inchiesta deve forzatamente cercare di decifrare il tipo di auto rappresentazione che questa tipologia di lavoratore ha di se stesso. Una ricerca sulla “soggettività” dell’attuale forza – lavoro è un passaggio irrinunciabile al fine di mettere in forma i passaggi organizzativi propri di tale condizione.
Il senso di questo dibattito è molto ben ricostruito in M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005
Su questo passaggio è particolarmente utile, S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.
Cfr. E. Quadrelli, Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, Derive Approdi, Roma 2005
Ciò è ben argomentato in, A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003.
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Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 3
di Emilio Quadrelli
Le armi della critica
Tutto ciò ha degli effetti non secondari e in tale scenario, per gli esclusi, non sembrano offrirsi molte soluzioni. Chi, nel grande gioco del capitalismo globale, si ritrova tra le mani una scala bucata può solo, se la sorte glielo consente, provare a cambiare tavolo di gioco e confidare in un colpo di fortuna mai ipotizzare la fuoriuscita dalla sua condizione in maniera collettiva. L’unica strategia sensatamente realistica diventa l’arte di arrangiarsi. Per restare nel panorama italiano ciò si riduce, tanto per fare qualche esempio, a un invito al Grande fratello, entrare nell’entourage di Palazzo Grazioli o, magari dopo essere scampati alla morte in fabbrica, diventare parte dello show parlamentare. In tale contesto, entrare a far parte del grande spettacolo della politica, rappresenta una fortuna non diversa da una corposa vincita alla lotteria, un’occasione che, nella migliore delle ipotesi, nella vita può capitare una volta soltanto. Queste le uniche e concrete strade perseguibili per i socialmente esclusi. Dentro le strettoie di questo passaggio altre vie non ve ne sono. Fuori dalla prospettiva della Storia sono Ruby e non Zohra1, Fedez e non Ali la Ponte2 a dettare i tempi e i modi dell’emancipazione. Ma che cosa caratterizza tutto ciò? Sostanzialmente una cosa: la dimensione puramente individuale, e quindi del tutto contingente, dell’esistenza. Fuori da un corpo e un “destino” storico e collettivo non vi sono alternative. Ora, al di là di tutte le retoriche che si possono utilizzare per indicare un destino collettivo, un solo passaggio rende realmente storico e collettivo un progetto: la conquista del potere politico e il farsi classe dominante3. Tutte le altre forme di esistenza collettiva, per loro natura, non possono che risultare effimere e prive di ricadute sostanziali. È possibile essere catturati collettivamente dal pathos per la propria squadra del cuore, cadere in estasi collettivamente sotto le note di una sinfonia particolarmente cara o di un sound accattivante, si può praticare il “patriottismo di quartiere” o legarsi allo stile di vita di una gang condividendone oneri e onori ma tutto ciò, alla prova dei fatti, non emancipa di una virgola la condizione di fondo4. Solo il farsi classe storica consente di squarciare il velo alla prosaicità del presente. Solo il farsi classe dominante consente di guardare negli occhi il mondo senza perdersi nelle anguste, per l’intera vita, prospettive condominiali. Un intera arcata storica, nel bene e nel male, è stata informata da tale scenario. I proletari, gli operai, i subalterni delle epoche che ci hanno precedute non percepivano se stessi come esclusi, marginali, socialmente delegittimati e via discorrendo ma parti di un tutto che, alla scala della storia, rivendicava una legittimità storica e politica oggettivamente determinata. Il comunismo e il potere operaio come tendenza storica non negoziabile era qualcosa che stava dentro la realtà delle cose. Contro questo, il potere imperialista, poteva solo, a ben vedere, giocare di rimessa conscio in qualche modo che, offensive tattiche a parte, sul piano strategico la sua non poteva che essere una posizione di ripiego e difesa. Il detto del vecchio Keynes: “Sui tempi lunghi siamo tutti morti”, rendeva in qualche modo esplicita la convinzione della borghesia di stare combattendo una battaglia di retroguardia, il cui fine non era altro che trascinare il più a lungo possibile lo stato di agonia. In tale ottica l’affermazione: “L’imperialismo è una tigre di carta” era qualcosa di ben più che un modo per rincuorare gli effettivi di un Esercito rosso in via di ricostituzione bensì l’affermazione di una “certezza storica” che poggiava su fatti difficilmente contestabili. Se guardiamo all’intera storia del Novecento, e in particolare ai decenni Sessanta e Settanta, il senso di tale affermazione appare persino banale. Ma dietro a tutto ciò che cosa c’era? Un inguaribile ottimismo?, Un eccesso di alcool?, Una malcelata volontà di potenza?, oppure, più realisticamente, tutto ciò poggiava su un’idea – forza, quella della lotta per il comunismo, che aveva plasmato intere generazioni operaie e proletarie e che, con la vittoria dell’Ottobre, aveva posto, non più teoricamente ma praticamente, all’ordine del giorno la dimensione storica del proletariato? Di ciò, non stupidamente, ne erano ampiamente consapevoli i quadri migliori delle varie borghesie imperialiste. La lotta contro lo spettro rosso del potere operaio e proletario diventa l’alfa e l’omega del comando capitalistico internazionale. Sotto questo aspetto, tanto per fare degli esempi concreti, la Guerra del Vietnam5 e la Guerra d’Algeria6 ne sono state la migliore cartina tornasole. Sotto la bandiera dell’anticomunismo tutte le forze imperialiste, pur se a diversi gradi, si sono ritrovate unite su quel campo di battaglia7. Verrà da domandarsi che cosa, tutto ciò, abbia a che vedere con la presente questione dell’esclusione sociale. Perché questi continui richiami a una storia della quale, obiettivamente, si fa persino fatica a ritrovarne traccia tanto che, il solo parlarne, sembra accomunarci a quella massoneria dell’erudizione inutile della quale, la storia europea, vanta una corposa tradizione8? In realtà, nel contesto, ci troviamo di fronte a qualcosa di ben poco massonico, erudito e ancor meno inutile. In palio, infatti, vi è la questione del marxismo e del suo essere idea – forza. Che cosa occorre, andando al dunque, alle masse dei dannati delle metropoli contemporanee? Attraverso quali passaggi diventa possibile, sensato e realistico modificare i rapporti di forza attuali tra le classi? Partiamo, intanto, con il riconoscere che tutte le illusioni e gli abbagli coltivati, in primis dall’intellighenzia modernista della sinistra, hanno fatto repentinamente bancarotta e che, non per caso, si assiste a un ritorno a Marx. Allo stesso tempo la questione dell’organizzazione, non nelle sue derive effimere e plastificate, torna a essere oggetto di interesse e ragionamento politico. In qualche modo persino Lenin riprende ad albeggiare tra gli orizzonti dei movimenti antagonisti9. “I fatti hanno la testa dura” e alla fine diventa difficile eluderli come se nulla fosse. Proprio dentro questa possibile renaissance occorre però non farsi prendere dagli eventi o dagli entusiasmi e usare sino in fondo le armi della critica evitando facili scorciatoie insieme alle inevitabili semplificazioni che queste si portano appresso. Occorre, questo il compito di chiunque si pensi come avanguardia, mettere il marxismo alla prova dei tempi evitando in tal modo di ridurlo a dogma e a vuoto esercizio accademico. Detto ciò, torniamo al nostro tema. Una facile, ovvia e certamente sensata risposta alla condizione di classe contemporanea è quella che porta a identificare nella ri-costruzione dell’organizzazione di classe nella forma partito e nel “restauro” del marxismo le necessità primaria degli attuali dannati delle metropoli.. La risposta è corretta ma, per non cadere in un facile quanto inconcludente “organizzativismo” e dottrinarismo senza costrutto, occorre riempire di carne e sangue questo passaggio al fine di non trasformare la prima in semplice questione “tecnica”, la seconda in mera operazione “scolastica”. La carne e il sangue di ogni organizzazione proletaria è data solo e unicamente dalla prospettiva politica che è in grado di far vivere dentro le lotte. Ogni lotta parziale, ogni lotta settoriale, ogni piccolo conflitto metropolitano, ha senso se inserito in una prospettiva se ogni lotta, ricordando Lenin, è una “scuola di guerra”. Una guerra non indifferenziata e indistinta ma una guerra che, grazie alla sintesi del “politico” o, per essere maggiormente chiari, dell’elemento soggettivo è in grado di sedimentare organizzazione e, con questa, forza politica autonoma della classe10. In assenza di una prospettiva storico – politica ossia di una dimensione che ponga, in via definitiva, la questione del potere politico e la sua conquista è impensabile che l’orizzonte delle masse possa forzare l’ordine dello stato di cose presenti. Una volta compiuto tale passaggio, almeno in apparenza, tutto sembrerebbe diventare persino banale e in virtù di ciò il semplice “restauro”del marxismo esserne, al contempo, corollario e premessa. Ma per condurre con efficienza ed efficacia un tale compito è necessario, per prima cosa, capire dentro quale scenario si sta agendo11. Certo una ripresa di una certa “didattica di classe”, a fronte dello scempio teorico conosciuto negli ultimi venti, trenta anni è un’impresa di per sé meritoria ma sarebbe altrettanto ingenuo pensare che un tale passaggio, di per sé, possa presentarsi risolutivo. Si tratterebbe, in qualche modo, di ricadere in un’operazione “culturalista”12, magari tramite la riscoperta del non troppo felice intellettuale organico di gramsciana memoria13, attraverso la quale riuscire nuovamente a far quadrare il cerchio. Una tentazione che oggi, in seguito ai reiterati fallimenti e disastri a cui è pervenuta l’insieme della sinistra, conosce una certa diffusione. Si tratta di un’operazione che, per quanto comprensibile, ha ben poco di marxista. Non è certo attraverso l’artifizio del mito che la teoria comunista, in quanto unità dialettica di teoria e prassi, può realisticamente assolvere ai compiti del presente. Non è guardando indietro, andando alla ricerca di una, per altro improbabile, età dell’oro che si rende un qualche servizio utile alla classe. Da sempre, e in ciò il “metodo leniniano” è in grado di raccontare ancora molto, lo scopo e la funzione del marxismo consiste nel porre l’organizzazione della classe, escludendo ogni volo pindarico dentro la “concretezza” del presente14. Allora, per tornare al filo conduttore del nostro discorso, la questione dell’esclusione sociale può e deve essere compresa dentro lo scenario del presente avendo a mente i passaggi che hanno caratterizzato l’attuale fase imperialista. Se, come ormai anche gli ipovedenti sono in grado di osservare, per l’organizzazione statuale imperialista il problema di fondo consiste nell’escludere le masse ben poco sensato appare il riproporre modelli politici e organizzativi di un’epoca in cui, con tutte le contraddizioni che pure si portava appresso, il tema dell’inclusione politica e sociale dei subalterni rimaneva un obiettivo di non secondaria importanza per le stesse classi dominanti. La vera sfida che oggi la teoria marxista deve affrontare è la formulazione di una soggettività in grado di misurarsi con gli scenari del presente. Affermare che la Storia non è finita e che le contraddizioni del modo di produzione capitalistico non si sono esaurite anzi sono sempre più macroscopiche e devastanti è un passaggio importante ma ancora insufficiente. Tutto ciò può portare a riaffermare, e non si tratta ovviamene di cosa da poco, dell’esistenza del partito storico del proletariato15 ma questa, se è la condizione al contempo preliminare e indispensabile per ogni possibilità di ragionamento su organizzazione e partito, è altresì lontana dal risolvere il problema poiché non è attraverso la semplice restaurazione di un corpo teorico classico che diventa possibile venire a capo delle sfide del presente. L’esergo, in realtà l’incipit, posto a fronte del testo ha ben poco di casuale e ancor meno di “rituale” o ossequioso. Il richiamo a quel fondamentale passaggio del Manifesto è posto perché obbliga a guardare avanti e ad avere il coraggio di leggere, per potere conseguentemente agire, le rotture alle quali, nel suo divenire, il modo di produzione capitalista impone. (fine terza parte – continua)
Zohra Drif, militante del FLN algerino, fece parte dei primi commando operativi femminili entrati in azione nel corso della “Battaglia d’Algeri”. Fu lei a compiere, il 30 settembre del 1956, l’attentato contro il Milk – Bar di place Bugeaud di Algeri uno dei più noti ritrovi della gioventù pieds – noirs. Fu catturata il 24 agosto 1957 insieme al responsabile del FLN di Algeri Yacef. Cfr. A. Horne, La Guerra d’Algeria, Rizzoli, Milano 2007
Ali – la – Pointe, militante del FLN algerino. Cresciuto tra i mondi dei marginali della casba di Algeri in carcere, a Barberousse, a stretto contatto con i militanti effellenisti imprigionati si politicizzò. Evaso nel corso di un trasferimento a un’altra prigione, tornò nella casba non più come marginale ma quadro politico – militare del FLN. La mattina del 28 dicembre 1956 portò a termine la sua prima missione militarmente rilevante uccidendo il sindaco di Algeri Amédée Froger. Cadde l’8 ottobre 1957 nella fase finale della “Battaglia d’Algeri” insieme a Hassiba Ben Bouali e al dodicenne “Petit Omar”. L’abitazione che serviva loro da rifugio e base operativa del FLN venne fatta saltare per aria dai paracadutisti del 1 R. E. P.. Con loro trovarono la morte altri 17 algerini le cui case, situate nelle immediate vicinanze del rifugio di Ali – la – Pointe, saltarono in aria insieme a questa. Cfr. A. Horne, La Guerra d’Algeria, cit.
Su questo aspetto decisivo della teoria marxista si veda V. I. Lenin, “Stato e rivoluzione”, in Id., Opere, Vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1967.
Significativo, al proposito, sono l’insieme di retoriche sorte intorno alle subculture metropolitane e agli “stili di vita” a queste annesse come unico e legittimo orizzonte delle classi sociali subalterne. Per una discussione su questi temi, cfr. E. Quadrelli, “Il nodo di Gordio. Per una lettura politica della “questione stadi”.”, in AA. VV., Stadio Italia, cit.
Tra i molti testi che ricostruiscono questa vicenda si vedano, S. Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Rizzoli, Milano 1989; M. B. Young, Le guerre del Vietnam, Mondadori, Milano 2007.
Oltre al ricordato lavoro di Horne si può vedere, molto sintetico ma molto esplicativo, B. Stora, La guerra d’Algeria, Il Mulino, Bologna 2009.
Cfr. C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005
Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.
Si veda ad esempio, G. Roggero, La misteriosa curva della retta di Lenin. Per una critica dello sviluppo del capitalismo oltre i beni comuni, La Casa Usher, Firenze 2011
Per una discussione su questi temi si veda, E. Quadrelli (a cura di), Lenin. Il pensiero strategico. Il partito, il combattimento, la rivoluzione, La Casa Usher, Firenze 2011.
Ciò che va sempre tenuto ben a mente è il contesto all’interno del quale si opera, Sotto tale aspetto il testo di V. I. Lenin, “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, Opere, Vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1956 rimane una delle migliori esemplificazioni della metodologia marxista. È sulla base di questo lavoro analitico, che rompe il quadro concettuale del presente che lo circonda, che Lenin mette a punto le coordinate per la costruzione del partito operaio. Lenin può costruire il partito perché coglie esattamente il divenire storico e non si sclerotizza su un passato che, per quanto quantitativamente ancora consistente, appartiene già alla storia di ieri.
In poche parole non è pensabile di risolvere l’insieme dei problemi politici contemporanei facendo ricorso a dei semplici “corsi di formazione”. I “corsi di formazione”, di per sé, possono risultare esaustivi per i maestri ma non per i rivoluzionari di professione, ciò che va costantemente tenuto a mente è il rapporto dialettico tra teoria e prassi. Su questo aspetto rimane importante G. Lukács, “Che cos’è il marxismo ortodosso?”, in Id., Storia e coscienza di classe, cit.
Proprio intorno alla figura e alla funzione dell’intellettuale sembra delinearsi al meglio la distanza tra Gramsci, dove le reminescenze idealistiche hegeliane, per di più rimasticate da Croce, fuoriescono in continuazione e Lenin per il quale ogni figura sociale, quindi anche l’intellettuale, è centralizzato e diretto dall’agire di partito. Lenin, che non a caso, applicando appieno alla dimensione politica lo sviluppo del pensiero militare, modella il partito come “Quartiere generale” non concede agli intellettuali alcun status particolare. Riconosce, ma questo è vero e valido per ogni ambito sociale, le peculiarità e le particolarità che necessariamente questo si porta appresso ma, in quanto tale, tali peculiarità non diventano foriere di uno status particolare. Certo, il partito, in quanto organismo professionale, metterà a frutto al meglio le competenze di ciascuno e, in virtù di ciò, è assai probabile che l’intellettuale si occupi, per il partito, di alcune cose piuttosto che di altre ma tutto ciò, questo è il punto decisivo in Lenin, sempre subordinando tali attività alle necessità strategiche del partito. In Gramsci, al contrario, l’intellettuale, in quanto tale, è rivestito di un ruolo, e quindi di una autonomia rispetto al partito, che ricorda non poco le argomentazioni proprie della frazione menscevica. Per una critica serrata di queste ipotesi si veda, V. I. Lenin, “Che fare?”, in Id. Opere, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1958
Cfr. E Quadrelli, (a cura di), Lenin, cit.
Con partito storico Marx, ad esempio negli scritti sulla Comune, K. Marx, “La guerra civile in Francia”, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti 1969, indica la formazione del proletariato in quanto classe storico-politica. Una sorta di “articolazione pratica” di quanto, sul piano concettuale, era stato cesellato nel lungo travaglio che porta Marx dall’idealismo hegeliano, passando per l’umanesimo di Feuerbach, alla messa a punto del materialismo storico e dialettico i cui presupposti sono ampiamente delineati in F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1971. Si tratta, cioè, dell’individuazione del proletariato come classe che, per la prima volta, nel divenire storico è in grado di far coincidere il suo interesse particolare con l’interesse generale. L’emancipazione del proletariato, quindi, coincide con l’emancipazione dell’umanità. Affermare il persistere del partito storico significa riconoscere che il senso della storia non è compiuto, atto importante ma che è ben lungi dall’offrire soluzioni alle questioni dei tempi le quali non possono che essere affrontate attraverso la messa in forma del partito formale. Glissare sulla questione del partito formale, confidando nell’esistenza del partito storico e della sua “oggettiva” potenza, significa ricadere nel più gretto movimentismo e spontaneismo. Con ogni probabilità, la teoria delle moltitudini, cfr. M. Hardt, A Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, rappresenta la più sofisticata ed elaborata teoria contemporanea alla cui origine vi è la scissione radicale tra partito storico e partito formale. Riaffermare, nel presente, la necessità del partito formale, combattendo le diversificate posizioni liquidazioniste non è un vezzo di ortodossia ma uno dei compiti politici essenziali del movimento comunista.
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Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 4
di Emilio Quadrelli
Il mucchio selvaggio
Torniamo quindi alla questione dell’esclusione sociale. Andando al dunque noi oggi assistiamo a un autentico rovesciamento di prospettiva delle relazioni tra le classi. In poche parole siamo passati da un rapporto fondato sull’uguaglianza e la perfetta simmetria tra queste a una relazione declinata sull’ineguaglianza e l’asimmetria. In altre parole teoria e organizzazione di classe sono obbligate a ripensarsi a partire da un rapporto sociale e politico fondato sull’asimmetria. Ma tutto ciò a che cosa rimanda? Non è forse la “guerra asimmetrica” la “forma guerra” del presente? Tra gli aspetti che caratterizzano la forma guerra contemporanea, per lo meno da parte delle potenze imperialiste, è l’utilizzo di soli volontari, la cui professione, ancorché sotto le bandiere nazionali, è esattamente quella del soldato, insieme al massiccio utilizzo di forze militari “private”, veri e propri professionisti della guerra e della sicurezza. Un aspetto che mostra per intero come il paradigma guerra del’intera modernità, caratterizzato dagli eserciti di leva, sia bellamente tramontato e con questo quel diritto all’armamento della popolazione, pur solo maschile, che aveva fatto da sfondo, e da forza, all’esercito rivoluzionario della Francia repubblicana. La fine degli eserciti di leva rappresenta un passaggio non secondario della perdita di interesse strategico, da parte degli assetti imperialisti, nei confronti delle masse subalterne. In questo senso la scissione tra popolo ed esercito è parte non secondaria di quella condizione di esclusione a cui le masse sono deputate.1. Non è da lì che, con ogni probabilità, occorre partire per delineare le forme organizzative del presente? Se, come sembra sensato sostenere, rimane pur sempre vero che è dall’anatomia dell’uomo che si ricava l’anatomia della scimmia solo a partire dal punto più alto del “politico” diventa possibile decifrare il presente in tutte le sue articolazioni2. Realisticamente non è possibile pensare l’organizzazione politica della classe, la sua forma partito nella fase imperialista contemporanea, omettendo di fare i conti con il carattere proprio di questa fase di cui la guerra e la sua forma ne sono, al contempo, aspetti costitutivi e costituenti3. Sarebbe come se, Lenin e i bolscevichi, avessero pensato di costruire l’Internazionale comunista ignorando al contempo la natura del capitalismo monopolistico e finanziario, la forma stato messa a regime nel corso della Prima guerra mondiale insieme alla forma guerra a cui tale scenario obbligava4. Nessuno, dotato di un minimo di buon senso, lo potrebbe persino immaginare. Oggi, avendo a mente le mutazioni oggettive che la nuova fase imperialista ha imposto e sedimentato, occorre decifrare per intero il senso e il significato che la relazione di asimmetricità comporta. In tutto ciò, a ben vedere, vi è ben poco di innovativo ma, proprio assumendo per intero questa prospettiva, ci collochiamo di diritto all’interno della piena “ortodossia”5. Pensiamo a Lenin e all’importanza che il Della guerra6 riveste per la messa a punto del “pensiero strategico” del bolscevismo. L’idea di partito come “quartiere generale” è esattamente mutuata dall’evoluzione del pensiero militare, attraverso Clausewitz prima e Moltke (il vecchio) dopo. Un concetto che, a sua volta, si inseriva appieno sulla scia delle trasformazioni che Napoleone aveva apportato alla “arte della guerra”7. Lenin, quindi, modella il partito formale tenendo costantemente a mente la cornice all’interno della quale la forma guerra è catturata dal pensiero strategico della borghesia. Lo studio sistematico dell’organizzazione degli eserciti borghesi, per Lenin, non è un hobby ma un lavoro di partito a tutti gli effetti poiché la compenetrazione di politico e militare è immediatamente riconosciuto come l’a priori che sta in permanenza sullo sfondo della politica8. Lenin, pur portando sino alle estreme conseguenze le coordinate della forma guerra a lui contemporanea, attraverso la concettualizzazione della guerra civile internazionale9 ne mantiene i contorni all’interno di una relazione sostanzialmente simmetrica. Del resto, indipendentemente dall’asimmetria “tecnica” che ha per lo più caratterizzato la guerra tra subordinati e classi dominanti, ciò che, ai fini del nostro discorso è importante evidenziare, è la relazione tra forze di pari grado e dignità a cui il conflitto tra proletariato e borghesia concettualmente rimandava in quella determinata fase imperialista10. La fase imperialista con la quale Lenin fa i conti, pur avendo oggettivamente unito il mondo, non lo ha reso uguale. La “questione coloniale” presenta, a tutti gli effetti, peculiarità proprie che vivono in unità dialettica con le lotte del proletariato dei Paesi altamente industrializzati, senza per questo potersi uniformare meccanicamente a questi11. Per molti versi la relazione improntata su un rapporto asimmetrico può vantare una lunga e consolidata tradizione. Tutta la storia del colonialismo, infatti, rimanda esattamente a ciò. Mentre, all’interno di quell’ordinamento spaziale ascritto al “mondo civile”, la guerra e la sua conduzione soggiaceva a una regolamentazione improntata al reciproco riconoscimento, oltre confine nessun vincolo limitava la conduzione delle operazioni militari. Il tratto “non – umano” a cui erano ascritte le popolazioni esterne ed estranee al “mondo civile” consentiva di agire nei loro confronti senza remore di sorta. Sullo sfondo di ciò vi era una giustificazione che, col tema che stiamo affrontando, ha molto a che vedere poiché a legittimare la mano libera verso quelle popolazione era un’assenza: la mancanza di storia12. Tutta l’epopea coloniale è rappresentata come un continuo confronto tra i popoli con una storia, le potenze coloniali, e i popoli senza storia, gli abitanti dei territori colonizzati le cui esistenze, agli occhi dei colonizzatori, si mostrano come pura contingenza13. Gli eserciti coloniali non si trovavano di fronte un nemico “politicamente organizzato” bensì masse indistinte, organismi tribali, strutture etniche e via discorrendo. Lo scarto tra questi organismi e la forma politicamente organizzata dei conquistatori non poteva che delineare, a partire dalla sua concettualizzazione, una relazione asimmetrica. Uno scenario che, in un processo a cascata, informa tutte le relazioni tra colonizzatori e colonizzati a cominciare dal modo in cui il colonialismo gestisce il rapporto con la forza lavoro indigena. L’asimmetria che regola la forma guerra, infatti, non può che informare per intero il rapporto tra i proprietari colonialisti e i lavoratori indigeni. In colonia quella relazione uguale e simmetrica individuata da Marx che lo portava ad affermare che tra diritti eguali, vince la forza, non regola il rapporto tra colono e colonizzato14. Certo, la forza continua a mantenere per intero la sua valenza demiurgica ma, ed è questo il punto, fondandosi su una relazione asimmetrica. Nel passato il diritto alla storia, per i popoli colonizzati, è passato attraverso il legame con il movimento comunista internazionale frutto della rottura storica che Lenin e il bolscevismo furono in grado di imporre dentro il movimento operaio e proletario internazionale. Sino alla formazione dell’Internazionale comunista, i popoli senza storia, avevano avuto all’interno del movimento operaio cittadinanza praticamente nulla. Il tratto etnocentrico, velocemente convertitosi in razzismo e imperialismo, di gran parte della Seconda Internazionale aveva tranquillamente posto tra parentesi la “questione coloniale”15. Sono Lenin e i bolscevichi a porla come aspetto fondamentale all’interno del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. L’Internazionale comunista pone i popoli coloniali, le loro storie e le loro lotte, come naturali alleati dell’organizzazione politica del proletariato, con ciò i popoli senza storia acquistano il diritto a esistere in quanto forma “politicamente organizzata”. Ciò che sarebbe stato impensabile, sotto il profilo concettuale, per Abdel Kader16, diventa persino ovvio per il FLN17. L’Internazionale comunista, portando i popoli colonizzati dentro il “politico”, li emancipa dalla dimensione prepolitica in cui il colonialismo li aveva ascritti. Le retoriche incentrate sulle culture, sulle etnie ecc. cominceranno a ritirarsi dallo scenario del discorso politico per far posto a termini universalistici quali popoli, nazioni, classi. L’inclusione della “questione coloniale”, portando i popoli senza storia dentro l’orizzonte della rivoluzione socialista, li ascrive di diritto dentro il lessico della politica. Lenin include la “questione coloniale” a pieno titolo dentro la relazione rivoluzione/controrivoluzione non sulla base di un astratto e altrettanto inconcludente umanitarismo ma come diretta e logica conseguenza che l’epoca imperialista ha comportato per il modo di produzione capitalista e il sistema – mondo che questi, obiettivamente, ha ormai realizzato. I “popoli senza storia”, dentro la fase imperialista, diventano comparti strategici in virtù della funzione che assolvono proprio per l’imperialismo. Sono loro, in fondo, a tracciare e ad anticipare il divenire a cui il sistema – mondo del capitalismo aspira. La “felice sospensione” di cui ha potuto usufruire il proletariato occidentale, e in primis quello europeo, tra il 1945 e il 1989 osservato su un piano oggettivo e disincantato è stata l’aporia a cui l’esistenza del Patto di Varsavia, con lo scenario bellico che questo presupponeva proprio dentro il Vecchio Continente, ha obbligato il comando del capitalismo internazionale. Per il modo di produzione capitalista non l’operaio europeo, ma il proletario extra occidentale incarnava la sua linea di sviluppo. In altre parole è sempre il lato cattivo a tracciare il divenire di una formazione economica e sociale18. L’orizzonte dentro cui viveva il proletariato occidentale, a partire dal 1989, si è repentinamente volatilizzato. Da quel momento in poi tutte le argomentazioni proprie dell’era coloniale hanno trovato una nuova e piena cittadinanza. Declinato in versione scontro tra le civiltà o nel più rassicurante e apparentemente indolore ordine discorsivo del multiculturalismo nel mondo ormai fattosi realmente unico è la relazione asimmetrica tra le classi a diventare egemone19. Una condizione che, a macchia d’olio, cattura quote sempre più ampie di popolazione. Non troppo differentemente dalle popolazioni colonizzate, gli esclusi del mondo contemporaneo, sono tali, indipendentemente dalle loro specifiche condizioni empiriche, poiché appaiono privi di esistenza storica20. Ciò che li rende impotenti è l’assenza di una prospettiva storica che solo il costituirsi in classe “politicamente organizzata” è in grado di garantire. Ciò non significa assenza di lotte e di conflitto, il mondo attuale è molto meno pacificato di quanto lo si voglia far apparire ma, l’assenza di una forma politica adeguata alla fase contemporanea, imprigiona le lotte del presente dentro un limite “astorico” insuperabile. Se, come queste note stanno delineando, l’assonanza tra esclusione sociale e modello coloniale21 presenta non poche similitudini si tratta allora di individuare entro quali coordinate esclusione sociale e tempo storico possono “concretamente” incontrarsi poiché solo questo è il passaggio che consente alle lotte oggettive di farsi forza soggettiva. Molto concretamente è dentro tali coordinate che, quindi, va nuovamente posta la fatidica domanda del Che fare?. Studiare, in tutte le sue articolazioni, la forma guerra ne rappresenta un primo ma indispensabile passaggio, a partire da quell’interesse per la “guerra in città e tra la gente” alla quale, i centri strategici e di intelligence, dedicano non poche risorse ed energie; così come, la rivisitazione critica di tutte le esperienze che hanno visto fondare una teoria delle forze irregolari22, costituisce un patrimonio teorico che va valorizzato al meglio. Allo stesso tempo alcune esperienze storiche legate a determinate fasi della guerra di popolo, come nel caso dell’esperienza del FLN algerino, il cui modello continua a essere un riferimento costante per consistenti quote di subordinati di pelle scura, non possono essere ignorate. Senza dimenticare, ovviamente, ciò che le lotte e le indicazioni del presente ci raccontano. Se, come sembra sensato affermare, il vero paradosso del capitalismo globale è la rimessa in circolo di un modello coloniale non spazialmente separato ma diversamente declinato – di qui l’esclusione sociale dei nostri mondi come articolazione “locale” del modello coloniale – ciò che si pone all’ordine del giorno è la messa a punto di una teoria e di una prassi in grado di unificare dentro il progetto di un’idea – forza23 le lotte e le resistenze che oggettivamente le contraddizioni del sistema capitalista sono obbligate a produrre . La nuova eresia marxiana passa e parte esattamente da qua. (Fine)
Si veda: Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001, mentre sulle trasformazioni della figura del soldato si veda, AA. VV., La metamorfosi del guerriero, Conflitti globali 3, Agenzia X, Milano 2006. Sulla figura dei combattenti privati si può ancora vedere: G. Spinelli, Contractor, Mursia, Milano 2009
Si tratta, a nostro avviso, del passaggio centrale dell’intero ragionamento e, al contempo, l’unico modo marxista per affrontarlo. Questo non solo perché, in ogni caso, è sempre dalla sintesi più alta del “politico”, di cui la forma guerra ne rappresenta la massima tensione ma perché, nel mondo attuale, tenere separate esclusione sociale e forma guerra significa non cogliere, per intero, le ricadute concrete, reali e materiali che l’era della globalizzazione ha apportato rimanendo convinti, in qualche modo, che la linea spaziale che aveva caratterizzato un’intera epoca storica sia tuttora agente. Significa pensare il mondo attuale ancora pervaso da un dentro e un fuori mentre, in realtà, siamo immersi in un “sistema mondo unitario” all’interno del quale, a fare la differenza, sono gradazioni diverse del medesimo sistema. L’oggettività di tale processo lo possiamo facilmente desumere dalle ricadute globali che la crisi esplosa nel 2008 ha avuto sull’intero sistema finanziario e industriale internazionale. Mentre, nel 1929, nonostante il suo effetto devastante, la crisi risultò circoscritta prevalentemente alle potenze imperialiste oggi, le sue ricadute, sono palpabili sull’intero pianeta. A partire da ciò non sembra una forzatura sostenere che l’esclusione sociale non è altro che un aspetto dell’attuale forma guerra.
Cfr., D. Zolo, Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009
Per una discussione su questi passaggi, E. Quadrelli, (a cura di) , Lenin, cit.
Per una discussione sul modo di essere e applicare l’ortodossia marxista senza precipitare in un dottrinarismo insulso e inconcludente rimangono tuttora fondamentali le pagine di G. Lukács, “Rosa Luxemburg marxista”, in Id., Storia e coscienza di classe, cit.
C. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1997.
Per una buona ricostruzione di questi passaggi, cfr., R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009
Su questo tema si veda, soprattutto, F. Gaja, Lenin, marxismo e tattica, in V. I. Lenin, “Note al libro di von Clausewitz: “Sulla guerra e la condotta della guerra”, Edizioni del Maquis, Milano 1970.
Pur tenendo a mente, e assumendole in gran parte, le argomentazioni di C. Schmitt presenti in Teoria del partigiano, cit., dove Lenin, in quanto teorico dell’inimicizia assoluta, è considerato colui il quale apporta una rottura decisiva nella messa in forma della guerra attraverso, appunto, la formalizzazione della guerra civile internazionale, ci sembra che ciò non abbia alcuna ricaduta sul permanere di una relazione fondata sulla asimmetricità e il reciproco riconoscimento delle parti in guerra. Semmai, ma questo è un passaggio che sta già ampiamente dentro i confini della Prima guerra mondiale, ciò che viene decisamente meno è il perimetro rigidamente nazionale, insieme alla forma statuale eretta su tali basi, che la guerra civile internazionale comporta.
Il fatto che, sotto il profilo prettamente tecnico – militare, il rapporto tra gli apparati della borghesia e le forze combattenti del proletariato delineino una situazione obiettivamente asimmetrica non inficia il principio che, entrambi i contendenti, si presuppongano come nemici storicamente legittimi. Lo scarto tecnico che separa i due campi non va inteso anche come scarto politico poiché, ed è questo il punto, la “forza” vince tra contendenti che possono vantare “pari diritti”.
Tutto ciò è ben argomentato in, V. I. Lenin, “Sul diritto di autodecisione delle nazioni”, in Id., Opere, Vol. 20, Editori Riuniti, Roma 1966.
Per una buona discussione su questo tema si veda, E. R. Wolf, L’Europa e i popoli senza storia, Il Mulino, Bologna 1990
C. Schmitt, Il nomos della terra, cit.
Aspetto colto per intero da F. Fanon in, I dannati della terra, Edizioni di Comunità, Torino 2000.
Cfr. “Il marxismo nell’età della Seconda internazionale”, in AA. VV., Storia del marxismo, Vol. II, Einaudi, Torino 1979
Leggendario combattente algerino che iniziò a opporre una resistenza armata contro il colonialismo francese a partire dal 1832. La sua lotta si protrasse sino al 1847 obbligando i francesi a impegnare oltre 100.000 soldati per sconfiggere le forze guerrigliere di Abdel Kader. Nei confronti di questa resistenza, da parte francese, furono tentate mediazioni di carattere militare senza che, a tutto ciò, facesse corrispondenza un riconoscimento politico. Ai guerriglieri algerini, andando al sodo, si riconosceva una forza e una presenza militare simile a quella di una banda di fuorilegge con la quale, in forza della loro organizzazione militare, è pur sensato trovare una qualche forma di accomodamento senza per questo ascriverla all’ambito del “politico”. Il vessillo di Abdel Kaders, in omaggio a quell’eroica resistenza, è diventata la bandiera dell’Algeria indipendente. Su questi eventi, cfr., C. Jeanson, F. Jeanson, Algeria fuorilegge, Feltrinelli, Milano 1956
La natura politica del FLN è riconosciuta pressoché fin da subito dalle forze politiche coloniali francesi. Non a caso, le trattative, non avvengono tra rappresentati o emissari militari ma da rappresentati ufficiali del Governo francese e del Governo provvisorio algerino. Uno scenario molto diverso dal contesto attuale dove, come nel caso dell’Iraq o dell’Afghanistan, le trattative, che pur esistono, hanno un carattere prevalentemente militare. In questo caso, però, la trattativa è messa in atto per risolvere un problema operativo, la difficoltà a condurre la guerra in determinate condizioni, senza che, tutto ciò, presupponga l’esistenza di un interlocutore “politicamente organizzato”. Non a caso si parla sempre di trattative con bande di ribelli e mai di forze politicamente legittime. Sulle trattative tra FLN e Governo francese, Cfr., A. Horne, La Guerra d’Algeria, cit.
Su questo aspetto rimane fondamentale, L. Althusser, “Contraddizioni e surdeterminazioni. (Note per una ricerca)”, in Id., Per Marx, Mimesis, Milano 2008
Immediatamente dopo il 1989 sono emersi due ordini discorsivi che, per il nostro ragionamento, sono particolarmente utili da tenere a mente. Da un lato abbiamo avuto con S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, l’ipotesi che, una volta venuto meno il conflitto fondato su due teorie universali quali il capitalismo e il comunismo, il mondo sarebbe tornato a organizzarsi sulla base delle diverse civiltà che lo avevano caratterizzato prima che l’idea – forza del comunismo diventasse il collante di tutti gli oppositori del capitalismo e che, tra queste diverse civiltà, il conflitto, anche armato, sarebbe stato inevitabile mentre, dall’altra, come ad esempio è argomentato in, J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2002, non necessariamente queste diverse civiltà e culture avrebbero dovuto portare alla collisione. Da lì il proliferare di tutte le politiche “buoniste” incentrate sull’accoglienza, l’integrazione, l’ospitalità lo scambio e via dicendo. Si tratta, osservando le cose con un minimo di attenzione, di due ipotesi più complementari che tra loro conflittuali. Per entrambe, infatti, a fronte di una cultura alta e una civiltà elevata rappresentata dal mondo Occidentale, si articolano modelli sociali e culturali, di grado e qualità inferiore, nei confronti dei quali, partendo sempre da una postazione di superiorità, si possono articolare pratiche di relazioni diverse. Ciò che caratterizza entrambe queste ipotesi è la palese relazione asimmetrica tra un “noi” e un “loro” ma ciò è esattamente il principio guida delle nostre società. Infine non è inessenziale rilevare come, per lo più, gli appartenenti ai due schieramenti si siano trovati concordi, magari con motivazioni diverse, nell’appoggiare tutte le operazioni belliche condotte dalle forze imperialiste negli ultimi venti anni.
Non a caso, oggi, rivive appieno a livello di massa la “arte di arrangiarsi”. Un aspetto che ha ben poco di postmoderno ma riprende appieno una consolidata abitudine dei popoli colonizzati prima che, la scintilla della decolonizzazione, offrisse loro una chance di vita completamente diversa. Al proposito si veda, F. Fanon, I dannati della terra, cit.
Un esempio quanto mai indicativo di ciò può essere colto osservando l’occupazione militare della Val Susa. Di fronte a intere popolazioni in lotta per la difesa del loro territorio lo Stato, comportandosi come potenza coloniale, occupa militarmente un territorio al fine di imporre gli interessi di ristretti ambiti finanziari e industriali.
Sotto questo aspetto una nuova lettura della “linea di condotta” inaugurata nel corso della guerra di guerriglia nel deserto da T. H. Lawrence ne rappresenta un passaggio essenziale. T. H. Lawrence, Rivolta nel deserto, Il Saggiatore, Milano 2004
Sul peso e sul ruolo che l’imporsi di un’idea – forza riveste sulla scena storica vale la pena di riportare un sintetico passaggio di Marx: “L’arma della critica non può, in verità, sostituire la critica delle armi; la potenza materiale deve essere abbattuta da potenza materiale; però anche la teoria diventa potenza materiale non appena si impadronisce delle masse”, K. Marx, “Critica della filosofia del diritto di Hegel”, in Id., Scritti politici giovanili, Einaudi 1975
da: carmillaonline.org - sett. 2022