Neue Fabrik
Apr 15, 2021
La gestione neoliberista della crisi pandemica ha fatto emergere un ceto medio radicalizzato in lotta perenne contro lavoratori e lavoratrici dipendenti, grottescamente considerati «privilegiati»
di LORENZO ZAMPONI
La gestione neoliberista della crisi pandemica ha fatto emergere un ceto medio radicalizzato in lotta perenne contro lavoratori e lavoratrici dipendenti, grottescamente considerati «privilegiati»
Le manifestazioni lanciate in questi giorni sotto lo slogan #IoApro non sono proprio la spontanea espressione di rabbia di chi sta pagando un prezzo troppo alto alla lotta contro il Covid-19 che gran parte dei media racconta. Come ha ben ricostruito il quotidiano Domani, il movimento è nato tre mesi fa a opera di un gruppo di grossi imprenditori della ristorazione, fortemente sostenuto dalla Lega, all’epoca all’opposizione del governo Conte. Il suo sviluppo sui social si è in parte appoggiato alle reti della destra radicale, e ha spesso strizzato l’occhio al negazionismo e alla retorica secondo cui qualsiasi misura di contenimento della pandemia sarebbe «dittatura sanitaria». Inevitabile che in piazza si vedessero anche personaggi il cui look emulava quello dell’assalto trumpiano a Capitol Hill del 6 gennaio. Il messaggio di fondo è «riaprire tutto, subito», per dare ossigeno ad attività economiche che la pandemia ha profondamente colpito.
(...) E così la destra, in Italia come in gran parte del mondo, specula sulle paure e sui disagi della gente in tempi di pandemia agitando la bandiera dell’interesse economico individuale come sacro principio regolatore di tutti i processi sociali: un passo in più sulla strada del liberismo autoritario. Ma la risposta liberal non funziona, interna com’è alla stessa logica di superiorità del profitto su ogni altra cosa.
(...) Il punto è che un sacrificio individuale nell’ottica del bene collettivo, come la limitazione delle occasioni di contagio, funziona se è comprensibile, limitato nel tempo ed equamente ripartito nella popolazione, accompagnato dalla sensazione che il governo stia lavorando per un obiettivo se non universale quantomeno ampiamente condiviso.
(...) O si ha il coraggio di difendere il principio della difesa della salute delle persone, e di imporre una distribuzione più equa possibile dei disagi che ne conseguono, o è evidente che ogni categoria rivendicherà legittimamente il proprio interesse a scapito di quello altrui.
(...) In questo contesto, c’è alternativa alla guerra tra poveri? Non sembra, tanto che a questa guerra ha deciso di partecipare lo stesso presidente del consiglio Draghi: durante una conferenza stampa, la settimana scorsa, è arrivato a dare la colpa della mancata vaccinazione degli anziani ai giovani che si sono fatti vaccinare, senza ricordare che chi l’ha fatto è stato chiamato a farlo dalle autorità pubbliche perché appartenente a determinate categorie, come gli operatori sanitari e gli insegnanti. La logica è chiarissima: scaricare ogni responsabilità sui comportamenti individuali delle persone per distrarre l’attenzione dai processi generali in atto.
(...) Ciò che preoccupa è l’emersione, dietro alla campagna #IoApro, di una retorica violentemente borghese, che identifica i lavoratori e le lavoratrici protetti da un contratto di lavoro dipendente come «privilegiati» con i #CuliAlCaldo, per citare un hashtag trending nel Twitter italiano nei giorni scorsi. Il consigliere economico della ministra per il sud, Piercamillo Falasca, nei giorni scorsi ha proposto una tassa flat del 5-10% sugli stipendi dei lavoratori dipendenti per finanziare il sostegno agli autonomi. Ci vuole veramente poco, nell’attuale clima politico, per trasformare le legittime rivendicazioni di chi subisce determinate limitazioni in uno spietato episodio di lotta di classe verso il basso, con lo stato impegnato in una redistribuzione della ricchezza al contrario, che invece di colpire grandi patrimoni e rendite da capitale in maniera progressiva, impone una flat tax su lavoratori in gran parte a reddito medio-basso.
(...) Le ultime settimane hanno visto il susseguirsi di mobilitazioni tutt’altro che irrilevanti: lo sciopero delle donne dell’8 marzo, lo sciopero di Amazon il 22 marzo, lo sciopero dei rider del 26 marzo. E poi il ritorno in piazza del movimento per la giustizia climatica il 19 marzo, le battaglie per sanità e accesso ai vaccini, quelle per la messa in sicurezza delle scuole, per non parlare dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, attivi ormai da un anno e che nelle ultime settimane hanno occupato i teatri da Milano a Roma a Napoli. Le battaglie dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, in particolare, indicano una direzione ben precisa: «riaprire» come prima, in un settore segnato da sfruttamento e assenza di tutele, non sarebbe una soluzione. Un dato comune emerge da queste lotte: il punto non è «riaprire» per tornare alla «normalità» di prima: il punto è cambiare il mondo che ci ha portato alla pandemia e a una sua gestione segnata dall’interesse dominante del profitto.
(...) L’antidoto migliore alle piazze del risentimento sono le piazze della giustizia e della speranza, non la negazione dei motivi reali per essere risentiti. Un anno di pandemia ha stancato, disgregato, impoverito. Ha creato un terreno fertile per operazioni ambigue e pericolose come quella di #IoApro. Ma ha anche reso evidente a sempre più persone le assurdità del neoliberismo, la necessità di un sistema di welfare in grado di assicurare la protezione sociale, il bisogno di un nuovo intervento pubblico nell’economia per guidare la transizione ecologica.
Lorenzo Zamponi, jacobinitalia.it