Neue Fabrik
Dec 1, 2023
Assumere non l’idea ma il fatto che siamo fondamentalmente un corpo è essenziale anche per comprendere che le persone non fanno quello che fanno solo in base alle proprie idee e convinzioni. Un elemento che spesso, nell’opinione di molti, eleva muri assai pericolosi, soprattutto se visti alla distanza, tra gli attivisti, o i militanti, e le “persone comuni”.
di JAVIER CORREA ROMAN
Javier Correa Román
30 Novembre 2023
È probabile che uno degli elementi chiave dell’affermazione culturale e delle attuali fortune di un pensiero reazionario – che francamente avevamo sperato d’aver seppellito diversi decenni fa – sia anche il ritorno dell’antico e nefasto desiderio dell’umanità di liberarsi dalla materia che la costituisce. È la grande questione del corpo, separato e umiliato dalla mente, immaginata come sola e vera fonte della conoscenza. Ed è quella forse una delle prime ragioni che oggi impedisce al senso di solitudine e al malessere sociale che ci attanagliano di esprimersi in una resistenza comune liberatoria e una soggettivazione politica capaci di confrontarsi con il mondo. Ne parla in questo articolo Javier Correa Román, che affronta diversi temi a noi di Comune assai cari, esprimendoli in modo originale, quasi una piccola lezione di filosofia, che ci piacerebbe dedicare – per una volta – soprattutto agli studenti. In particolare a quelli che nei giorni scorsi hanno occupato l’Università di Genova, contro l’escalation del massacro dei Palestinesi, e che davvero in tanti pare abbiano scoperto che queste nostre pagine, grazie alla penna di Stefania Consigliere, in mezzo all’infuriare della tormenta planetaria, sono molto interessate a raccontare anche quel che fanno loro. Nella parte conclusiva dell’articolo, si parla dell’importanza degli “affetti” nella militanza ed è necessario precisare che abbiamo scelto di tradurre lo spagnolo “afectos” con l’italiano più limitante “affetti” preferendolo a espressioni – che pur ne completerebbero il senso – più logore e inflazionate come “emozioni” e “passioni”. Ci mancano le parole, lo sapevamo. Oppure “manca quel che manca”, come direbbero gli zapatisti, che pur inventano verbi illuminanti e assai espressivi come senti-pensar. Gli affetti, scrive Correa Román, sono la risonanza della nostra inseparabilità dal mondo. Il corpo appare allora come lo spazio privilegiato per conoscere il mondo perché è già nel mondo, ne è attraversato. Assumere non l’idea ma il fatto che siamo fondamentalmente un corpo ci pare essenziale anche per comprendere che le persone non fanno quello che fanno solo in base alle proprie idee e convinzioni. Un elemento che spesso, nell’opinione di molti, eleva muri assai pericolosi, soprattutto se visti alla distanza, tra gli attivisti, o i militanti, e le “persone comuni”. Dei temi di quell’intreccio di concetti che ruota intorno alla galassia delle relazioni sociali “affettive”, su Comune si sono occupati in tante e tanti. A cominciare, naturalmente, dai pensieri femministi e da Silvia Federici, di cui – grazie alla preziosa segnalazione di Francesca Bennett di Okta Film – segnaliamo qui sotto una magnifica e recente conversazione filmata con Maria Nadotti, grande traduttrice dei testi di John Berger, cui il sito di Okta, una compagnia che sceglie “l’indisciplina creativa, la mescolanza dei generi, l’attrito e il conflitto dei linguaggi”, dedica materiali imperdibili. Federici e Nadotti s’incontrano dopo quarant’anni. Le loro parole, i gesti e le espressioni, spiegano come potrebbero fare pochissimi altri cosa sia una relazione affettiva che fonde, in assoluta armonia, quel che possono dire insieme i corpi e le menti
Dualismo mente-corpo
L’essere umano è un essere particolare. È sempre stato visto come l’unione di due dimensioni: quella intelligibile (mente, idee, ragione) e quella materiale (corpo). O almeno così ci viene raccontato nella cultura occidentale da più di duemila anni. Fin dai primi scritti della nostra tradizione filosofica, il dualismo mente-corpo è stato una costante nel nostro pensiero. È importante segnalare che, nella nostra tradizione filosofica, questo dualismo non è stato solo una divisione antropologica (dividere l’essere umano in mente e corpo), ma anche una divisione ontologica (dividere il mondo in materia e idee), vale a dire che si tratta di un dualismo che divide l’essere umano ma c’è una estensione della crepa che divide la realtà. In altre parole, l’essere umano è stato tradizionalmente inteso come un microcosmo, perché appare diviso nello stesso modo in cui sembra esser diviso l’universo: è materia, corpo, ma allo stesso tempo è ragione, idee.
L’importante di questa divisione è che è accompagnata da una gerarchia assiologica e ciascuno dei poli è stato accompagnato da una serie di valori. Nella nostra tradizione di pensiero, uno di quei poli – la ragione, la mente – è quello desiderato e desiderabile, la fonte della vera conoscenza, il bene; mentre l’altro – il corpo, la materia – viene rifiutato, è la fonte di ogni peccato e male, e la conoscenza che produce è contingente e volatile.
A ciascuna delle due parti, inoltre, sono stati assegnati attributi diversi. La materia è stata tipicamente concepita come qualcosa di puramente passivo, informe, senza alcuna capacità propria, come un elemento bisognoso di idee e di ordine razionale. La materia, hanno detto i filosofi classici, non è nulla in sé (come un pezzo di plastilina plasmabile), ma ha bisogno di idee (come l’idea di un tavolo) per prendere forma.
Il significato del Demiurgo che Platone presenta nel Timeo non era diverso: il mondo ha avuto bisogno di una forza superiore (razionale) per ordinarsi perché la materia è incapace di organizzarsi da sola. All’interno di questa diversa distribuzione degli attributi, la ragione, invece, è sempre stata considerata come un elemento capace di produrre azione, dotato di forza in sé, sinonimo di ordine e verità. La ragione è ciò di cui abbiamo bisogno per scoprire e analizzare il bene e la bellezza, per scoprire verità assolute o per trovare il significato delle cose. In conseguenza di tutto questo, Sara Torres e Marta Velasco affermano – nella loro ultima conferenza al CENDEAC – che la nostra è una tradizione somatofobica: una tradizione che storicamente ha collocato il materiale e il corporeo in basso nella scala dei valori, che ha pensato il corpo come un mero recipiente vuoto, passivo, che ha bisogno di in-formarsi, che non è capace di contenere, che semplicemente accoglie; una tradizione, insomma, che ha pensato al corpo come prigione del pensiero. Il transumanesimo, che sembra andare tanto di moda negli ultimi anni, non è altro che una nuova versione di questa storica paura del corpo, non è altro che il ritorno dell’eterno desiderio di liberarci dalla materia che ci costituisce. Di quel fango, di quella melma.
Gli effetti politici di quel dualismo
C’è di certo chi potrebbe pensare che tutto questo non abbia alcuna importanza per la nostra vita perché, in fin dei conti, si tratta di una mera elucubrazione tra pensatori e filosofi. La filosofia, tuttavia, non è un semplice gioco scolastico che si svolge alle spalle della società, partecipa in modo attivo alla vita sociale, legittimando (e talvolta criticando) la società che l’ha vista nascere. In altre parole, la filosofia (e con essa le sue dispute) non è rilevante solo per essere un riflesso del mondo, ma anche per la sua capacità di sostenerlo.
Tenendo presente questo, la domanda successiva dovrebbe essere: come è collegata tutta questa tradizione somatofobica (che ha paura del corpo, ndt) al campo del sociale? Silvia Federici, in Calibano e la strega, sottolinea che questo dualismo è stato fondamentale nell’instaurazione del capitalismo perché ha fornito alla borghesia una filosofia che disprezzava il corpo, costringendo gli opeai a semi-schiavizzarsi vendendo la propria forza lavoro. La tesi di Federici sostiene che non è un caso che l’espropriazione dei lavoratori sia avvenuta contemporaneamente al sorgere del meccanismo materiale cartesiano. In altre parole, con il capitalismo, il lavoratore deve vendere il suo corpo, la sua forza lavoro, per un certo periodo di tempo, e questo poteva essere realizzato solo se gli si fosse stata inculcata l’idea che gli esseri umani sono la nostra anima e non la materia vuota che ci accompagna. Nel libro di Federici leggiamo:
“Tuttavia, non possiamo fare a meno di notare gli importanti contributi che le sue speculazioni sulla natura umana hanno apportato all’emergere di una scienza capitalistica del lavoro. L’approccio secondo cui il corpo è qualcosa di meccanico, privo di ogni teleologia intrinseca – le ‘virtù occulte’ attribuite al corpo sia dalla magia naturale che dalle superstizioni popolari dell’epoca – mirava a rendere intelligibile la possibilità di subordinarlo a un processo di lavoro che dipendeva sempre più da forme di comportamento uniformi e prevedibili”.
Questo meccanismo materiale spazzò via le concezioni popolari sul corpo, basate sulla magia e molto più organiciste. Fu lasciata indietro ogni visione popolare che comprendesse la materia, il corpo e il mondo all’interno di una complessa rete di relazioni. E fu rifiutata l’idea che, a differenza di quanto pensavano grandi filosofi dell’epoca, “il substrato magico”, dice Federici, “rientrava in una concezione animistica della natura che non ammetteva alcuna separazione tra materia e spirito, e in questo modo immaginava il cosmo come “un organismo, popolato da forze nascoste, dove ogni elemento era in un rapporto ‘favorevole’ con il resto.” Il mondo, ci ricorda Foucault in “Le parole e le cose“, era visto come un tutto vivo, organico, come un insieme di segni da decifrare: l’erba, la pioggia, il vento. Il mondo non era un complesso inerte, ma aveva cose da dirci. Eravamo, dunque, mente e corpo ma il corpo era pur sempre qualcosa di vivo.
Il meccanicismo di Cartesio approfondisce il dualismo sottolineando che la materia è semplicemente meccanica e che non esiste alcuna differenza ontologica fondamentale tra la nostra digestione e il meccanismo di un orologio (o il grido di un gatto quando gli pestiamo la coda). Il meccanicismo cartesiano si espanse proprio nel momento in cui la borghesia aveva bisogno di un apparato teorico che legittimasse il suo nuovo sistema economico: quello capitalista. Per poter vendere la forza lavoro, il lavoratore deve dissociarsi, vedere il proprio corpo come qualcosa di vuoto, di intercambiabile (mercificabile!). Come potremmo vendere altrimenti una parte che consideriamo intima o essenziale del nostro essere? Fortunatamente per la nascente borghesia, il meccanicismo sia di Cartesio che di Hobbes ci mostrava che noi non siamo il nostro corpo, ma piuttosto che esso è qualcosa di esterno, puramente materiale e meccanico. Federici dice al riguardo: “Ebbene, mentre il corpo è la condizione di esistenza della forza lavoro, ne è anche il limite, perché costituisce il principale elemento di resistenza al suo utilizzo. Non bastava, quindi, decidere che il corpo in sé non avesse valore. Il corpo doveva vivere affinché la forza lavoro potesse vivere”.
Come vediamo, e come segnala Max Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, il capitalismo non si è formato unicamente grazie allo sviluppo storico delle forze materiali, ma ha richiesto piuttosto una serie di condizioni soggettive o culturali che permettevano l’instaurarsi della razionalità economica che tutto oggi domina. Richiedeva, come abbiamo visto, tutto un paradigma di disprezzo per il corpo.
Il corpo oggi: tra mercato e terapia
Ecco come stanno le cose con il capitalismo. Il corpo è la sua merce principale perché il capitalista, per estrarre plusvalore, ha bisogno di acquistare forza lavoro. Per far questo, come abbiamo già detto, il corpo deve essere pensato alla pari del legno, del cuoio o del ferro: come un pezzo di materia (vuoto, informe, passivo) che può essere scambiato sul mercato in cambio di un salario. Tuttavia, questa visione è cambiata negli ultimi decenni, principalmente per due ragioni: perché il corpo può essere convinto o sedotto ad acquistare ciò di cui non ha bisogno e perché il corpo può crollare (e mandare a farsi fottere l’intero sistema).
Cominciamo con la prima. Nella società dei consumi, il capitalismo non è solo un sistema economico che governa lo scambio tra borghesi e diseredati, è anche un sistema biopolitico che ha bisogno di disciplinare e creare un organismo molto particolare. Detto con altre parole, siccome il capitalismo funziona come un sistema di crescita continua, arriva un momento (la società dei consumi) in cui ha bisogno di mercificare sempre più territorio e di consumare sempre più elementi (per guadagnare più profitti). Pertanto, visto che nella società dei consumi compriamo cose di cui non abbiamo bisogno – almeno a priori –, il capitalismo ha dovuto evolversi per diventare un modellatore di desideri e di affetti, ha dovuto cioè diventare il creatore di nuovi bisogni. Di fronte a questo panorama di consumo generalizzato, il corpo non può più esser visto come semplice materia vuota, sullo stile del meccanicismo cartesiano, ma occorre piuttosto ripristinare una certa organicità: il capitalista vede ora un corpo che deve riposare (e quindi andare in vacanza in crociera o su Airbnb), un corpo che desideri e ami (e che riservi un week-end per San Valentino), un corpo che invecchia (e ha bisogno di creme antirughe) o un corpo che può essere anche bello (e che ricorre a interventi di plastica o acquista abiti alla moda).
A questa restaurazione del corpo (e al conseguente sequestro consumistico) da parte del tardo capitalismo sono stati dati nomi diversi. Byung-Chul Han, ad esempio, nel suo libro Psicopolitica, ne parla per riferirsi a questa rivalutazione e al conseguente sequestro del corpo sotto le grinfie della società dei consumi. Sulla stessa linea sembra andare Eva Illouz, che, in La fine dell’amore, ha coniato il termine “capitalismo emotivo”.
Veniamo ora alla seconda ragione: il fatto che il nostro corpo può crollare e rompersi. Oggi abitiamo un corpo stanco di lavorare così tanto, stressato dai desideri imposti socialmente e dal bisogno di venderlo per guadagnare uno stipendio. Un corpo che soffre perché i suoi desideri e le sue potenzialità vengono reindirizzati al consumo e alla precarietà del lavoro senza fine (o entrambe le cose). Questo restauro e sequestro del corpo nella società dei consumi non può che essere vissuto come un profondo disagio psicologico e corporeo.
Il capitalismo produce questo malessere ambivalente. Da un lato è necessario che i corpi non esplodano per garantire la riproduzione sociale del capitale, però, allo stesso tempo, le risposte che si danno (le app di meditazione, per esempio) vanno orientate al consumo e non ad affrontare la radice dei problemi. I nostri corpi e le loro ansie si muovono oggi in quell’ambivalenza. Per questo motivo alcune autrici parlano della nostra società come della “società terapeutica”. Nelle parole del collettivo Espai en Blanc: “Quando la politica è gestione della vita, il potere diventa potere terapeutico che cerca di reindirizzare il disagio”.
Oppure, secondo le parole della filosofa Marina Garcés:
“La società terapeutica ci offre una vita sostenibile sempre sull’orlo della crisi. Si tratta di sostenere la vita per non liberarla, di gestire il suo equilibrio precario per non cambiarla. Viviamo sotto minaccia. E questa minaccia ora siamo noi stessi e la nostra vulnerabilità. Più delle aggressioni esterne, temiamo le nostre crepe interne, le nostre anime stanche, la nostra impotenza e la nostra incapacità”.
Abbiamo visto, dunque, che l’attuale situazione, per quel che riguarda il corpo, è complessa. Ci dissociamo da esso per poterlo vendere in cambio di uno stipendio, ma anche quando usciamo dal lavoro esso è costantemente plasmato dalla società dei consumi. In questa tensione psicologica, i corpi vanno in pezzi. È proprio il capitalismo a offrirci una soluzione individuale: la terapia. Come uscire da questo incubo? Come inventare altri modi di concepire il corpo? Come progettare nuove resistenze? Cosa ha da dirci il corpo quando si tratta di immaginare e lottare per altri mondi possibili? Cominciamo a scalare quel versante.
Disfarsi di ciò che è stato fatto
Fin qui abbiamo mostrato che il corpo è una questione puramente politica e che è centrale nella configurazione del capitalismo attuale. La nostra tesi, quindi, è la seguente: i processi che attraversano il corpo sono fondamentali per comprendere quelli strutturali, in questo caso specifico: il capitalismo.
Per politicizzare gli affetti, cioè per recuperare il potenziale politico e sovversivo del corpo, è necessario prima trovare un altro modo di intenderlo. Innanzitutto è necessario eliminare una volta per tutte il dualismo, pensare a noi stessi – come dice la fenomenologia – come coscienze incarnate. Non esiste separazione tra il corpo e la mente, non esiste una coscienza che fluttua sopra il vuoto, ma è il corpo che ci muove, il corpo che parla, il corpo che pensa. Non c’è pensiero fuori dal corpo. Siamo un tutto integrale (e, quindi, quel che viene distrutto dalla precarietà non è un corpo inerte, come il ferro o il legno, bensì una vita). La nostra personalità o la nostra capacità di pensare non si verificano al di fuori del nostro corpo, sono indistinguibili da esso: dal mal di stomaco che abbiamo, dalle ansie che compaiono, dalle malattie di cui soffriamo o dal sonno che abbiamo. Non esiste pensiero che si manifesti fuori dal corpo.
Però non basta disfarsi del dualismo che separa la mente dal corpo, è cruciale anche annullare lo schema assiologico che eleva la ragione e la mente come parte privilegiata della distinzione. Togliere la ragione dal trono nel polo del desiderabile all’interno del dualismo. Le grandi ingiustizie del nostro tempo non sono state commesse da un corpo irrazionale, ma dalla fredda ragione: sono state commesse in nome del calcolo, dell’ottimizzazione, dell’efficienza e della produttività. Adorno ha giustamente sottolineato che i campi di concentramento forse non erano molte cose, ma erano certamente efficienti e razionali nel loro funzionamento.
La razionalità prevalente, o strumentale se seguiamo la Scuola di Francoforte, è una ragione operativa nei mezzi e abbandonata a ogni fine.
In terzo luogo, e nel perseguimento di una politicizzazione degli affetti che ci (con)formano, dobbiamo ripristinare la capacità cognitiva del corpo. La ragione, all’interno del dualismo epistemologico che abbiamo ereditato da Platone, è stata individuata come la vera fonte della conoscenza. Come poteva non esserlo di fronte alle sensazioni volatili, private e mutevoli che ci offrono i sensi di un corpo troppo ancorato al contingente? La ragione, pensavano Platone e gli altri filosofi, scopre il teorema di Pitagora, le deduzioni e le leggi, mentre il corpo è attaccato alla mera opinione (doxa), al sapere puramente soggettivo. Non è così, anche il corpo è soggetto di conoscenza e non mero contenitore.
Nella misura in cui siamo-nel-mondo, per usare il termine di Heidegger in Essere e tempo, siamo colpiti dal mondo, di questo si tratta. Gli affetti ci parlano del mondo che abitiamo, ce ne danno la conoscenza. In altre parole, gli affetti sono la risonanza della nostra inseparabilità dal mondo. Il corpo appare allora come lo spazio privilegiato per conoscere il mondo perché è già nel mondo, ne è già attraversato. Dobbiamo insomma estendere la linea che il femminismo già sottolineava decenni fa: “il personale è politico”, però intendendo quel “personale” non solo come gli eventi micropolitici che accadono in spazi tradizionalmente considerati privati (casa, famiglia, ecc.) . .), ma come l’insieme degli elementi corporali che ci costituiscono, come gli affetti. Essi sono politici in quanto derivano dalla nostra interazione con il mondo. Ecco perché Espai en Blanc afferma che “il malessere sociale, che è il nome dell’impossibilità di esprimere una resistenza comune e liberatrice, annuncia nuove forme di politicizzazione […] Il malessere sociale non è altro che il blocco del cammino verso una soggettivazione politica capace di confrontarsi con il mondo”.
Se vogliamo uscire dal razionalismo strumentale che ci ha portato fin qui, questa conoscenza deve essere considerata del tutto nostra e autonoma, in nessun caso meramente rappresentativa delle nostre idee o della nostra capacità razionale. Naturalmente ci sono momenti in cui ci sentiamo angosciati perché abbiamo certi pensieri, ma molte altre volte accade il contrario (e la psicoanalisi ne ha dato buona spiegazione con l’analisi delle fantasie): abbiamo certi pensieri proprio perché ci sentiamo in un certo modo. Altre volte possiamo addirittura essere influenzati dal mondo, provare emozioni, senza sapere (razionalmente o consapevolmente) cosa questo significhi o cosa ci sta accadendo. Il corpo è oggetto di conoscenza indipendentemente dalla nostra mente, è la cassa di risonanza del nostro mondo e grazie ad esso possiamo conoscerlo. Spinoza diceva giustamente che nessuno sa cosa può fare un corpo, perché un corpo conosce da solo e la sua conoscenza non è deducibile dalla (né riducibile alla) ragione e alle sue idee.
Si tratta, in breve, di approfondire – ciò che alcuni hanno chiamato – la “svolta affettiva” compiuta da autori come Sara Ahmed, Gregory J. Seigworth, Melissa Gregg o Mariela Solana. Si tratta di disfarsi del percorso e di rompere con il dualismo che ci presenta divisi tra due poli. Si tratta anche di eliminare ogni primato della razionalità strumentale, mostrando che l’efficienza e la produttività, per quanto ragionevoli possano essere, non sono giuste o desiderabili nella maggior parte dei casi (o almeno non lo sono nell’attuale configurazione sociale). Si tratta, insomma, di concepire il nostro corpo con una voce propria, di pensare gli affetti come risultati della nostra interazione con il mondo e, quindi, di rivelarne la capacità politica. Si tratta, e questa è la chiave, di ascoltare ciò che i nostri corpi hanno da dire sul mondo che ci soffoca.
L’affetto tra le persone colpite
Abbiamo dunque visto che il corpo è una fonte di conoscenza in quanto gli affetti sono la risonanza della nostra interazione con il mondo. Abbiamo anche visto che, nella misura in cui il nostro mondo è un mondo sociale, gli affetti sono capaci di esprimere tensioni politiche. Da qui il loro potenziale politico. Prima di concludere, vorremmo però fare due brevi cenni sugli affetti dentro la militanza, ovvero tra persone che hanno un qualche interesse a trasformare la società.
Il primo è che, come abbiamo visto, gli affetti sono un elemento politico. Lo sono perché sono la risonanza del nostro rapporto con il mondo (e, quindi, ci parlano anche del mondo che ci sfrutta). Lo sono però anche perché, nel tardo capitalismo, gli affetti vengono costantemente riconfigurati e dirottati per essere orientati verso il consumo. Ciò che desideriamo, ciò che ci muove, non nasce dentro di noi, ma spesso si configura socialmente e legittima e guida lo stesso ordine che diciamo di rifiutare con il nostro linguaggio.
Inoltre, e nella misura in cui mente e corpo non sono due elementi separati, gli affetti del corpo e le loro forze costruiscono la nostra soggettività, cioè gli affetti e il corpo sono il substrato per poter pensare a noi stesse e noi stessi e al mondo. Ciò implica che la distruzione del capitalismo non è solo una distruzione materiale perché dobbiamo eliminare anche ciò che del capitalismo è in noi. Pertanto, sarà tremendamente difficile vivere diversamente (o sognare di farlo) se quando amiamo e desideriamo lo facciamo nei termini capitalisti della competizione, dell’esclusività e del possesso dei corpi (come avviene, ad esempio, nella monogamia come sistema). Il modo in cui amiamo e desideriamo, per continuare con l’esempio, è fondamentalmente politico perché modella la nostra identità e, in molti casi, riproduce la logica del capitale e del patriarcato. Si tratterà quindi di esaminare quali di questi sistemi sopravvivono in noi sotto forma di affetti. Partendo dunque dal presupposto che il nostro corpo sia stato creato socialmente e presupponendo che, per abitare l’utopia, abbiamo bisogno di altri corpi.
L’importanza degli affetti che si costruiscono tra le persone militanti è grande e sottovalutata. Assumere il fatto che siamo corpo, che siamo fondamentalmente corpo, significa abbandonare anche il paradigma secondo cui siamo individui che fanno quello che fanno in base alle nostre idee o convinzioni. Uscire da questa visione individualistica implica il compito di costruire un corpo collettivo il cui collante non può essere soltanto la convinzione di stare dalla parte giusta o una certa lettura dei testi. La costruzione di un corpo collettivo non si può fare a partire dalle idee perché l’idea sulla carta non accende (come può invece far la carta stessa). Quando andiamo a fermare uno sfratto, non sono le nostre idee ad essere colpite e picchiate, lo è il nostro corpo. Aggrapparsi al proprio partner, resistere con lei o con lui, può avvenire solo attraverso la costruzione di legami affettivi, di un’amicizia politica, che costruiscano un corpo collettivo, un corpo con i propri affetti, i flussi e i nuovi desideri. Un corpo, insomma, per vivere altri mondi possibili.
Fonte: (ESP) La Plaza, blog di El Salto
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Da: comune-info.net - 30 nov. 2023