top of page

Le persone cedono ai totalitarismi per sentirsi riconosciute dallo Stato

Le persone cedono ai totalitarismi per sentirsi riconosciute dallo Stato

crimescene_07ds.jpg

Neue Fabrik

May 20, 2021

Così, nel 2021, coloro che sono stati dimenticati dal governo e messi in ginocchio dalla pandemia ripongono speranze e sicurezze nei partiti populisti
di FRANCESCA FONTANESI

Hannah , Arendt una delle filosofe più importanti del Novecento, nel 1949 terminò un saggio che diventerà un classico della politologia: Le origini del totalitarismo. L’ultimo capitolo del testo si apre con una discussione riguardo al ruolo dei totalitarismi nelle varie fasi della storia, e prosegue con un elenco di elementi fondamentali – come la massa, la propaganda e l’antisemitismo – che sono stati il motore di un fenomeno che lei stessa definisce come unico e tipicamente moderno, perché solo nella modernità sono presenti strumenti capaci di permettere un tale controllo della società e della popolazione.

Nel libro Arendt sosteneva come il punto chiave dei totalitarismi fossero le masse, costituite per la maggior parte da persone che non aderivano a un particolare partito politico e faticavano a recarsi alle urne, gruppi di persone tipicamente considerate ignoranti, inutili o comunque innocue. I regimi ​totalitari, infatti, esigono dai loro sostenitori una fedeltà cieca e incondizionata e questo tipo di lealtà la si può ricevere in particolar modo da persone emarginate o escluse, che non hanno legami sociali soddisfacenti e sono poco considerate dallo Stato, e che grazie all’aderenza a questo tipo di sistemi provano la sensazione di poter aver finalmente un posto ben definito nel mondo e un senso di rivalsa.






Così, nei regimi dittatoriali le masse politicamente neutrali potevano facilmente essere la maggioranza anche in un Paese governato democraticamente, e che quindi diverse democrazie dell’epoca funzionavano effettivamente secondo le regole riconosciute in maniera attiva solo da una minoranza.

La filosofa tedesca scriveva che le caratteristiche principali dell’uomo di massa non sono la brutalità e l’arretratezza, ma il suo isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali. Come sappiamo, con la pandemia ampie fasce della popolazione che si trovavano già in una situazione precaria hanno visto da un lato peggiorare ulteriormente le proprie condizioni economiche e dall’altro hanno dovuto accettare mesi di isolamento forzato. L’assenza di contatto diretto e di relazioni interpersonali in grado di instaurare un dialogo a viso aperto è la norma sui social, che dall’inizio della pandemia oltre che spazio eletto dove scambiarsi opinioni sulla situazione, sono diventati soprattutto luogo di sfogo per la propria rabbia verso lo Stato, le istituzioni e chiunque la pensasse diversamente. Frustrazione e reclusione hanno nutrito fino a far emergere e polarizzato sentimenti di collera e ira.

Le persone che una volta venivano escluse dal discorso pubblico oggi, invece, trovano spazio nel più contemporaneo dei mezzi di propaganda politica, ovvero il web. Proprio sui social, in particolare Twitter e Facebook, è stato possibile notare un aumento di sentimenti xenofobi e razzisti, a volte anche a causa di messaggi veicolati dagli stessi partiti: se pensiamo all’aumento degli attacchi verbali e delle aggressioni fisiche contro la comunità asiatica (trasformata in capro espiatorio) accusata di aver diffuso il virus in Europa, ad esempio, uno studio che ha monitorato i cambiamenti nei pregiudizi delle popolazioni in seguito all’utilizzo da parte di alcune istituzioni del soprannome “virus cinese” al posto di Covid-19 a marzo ha mostrato che i pregiudizi della popolazione hanno iniziato ad aumentare. I migranti di origine africana, poi, sono stati spesso accusati di portare il Covid-19 e altre malattie nei Paesi d’ingresso.

Lo scetticismo del popolo si riversa in manifestazioni e rivolte contro lo Stato e le istituzioni pubbliche, manifestazioni che nell’ultimo anno hanno dato voce anche a coloro che prima d’ora erano sempre rimasti nell’ombra e non avevano mai preso posizioni politiche. Questo processo ha coinciso con l’aumento di attacchi razzisti e teorie cospirazioniste, ma soprattutto con la diffusione di movimenti populisti anti-elitismo contro le classi politiche privilegiate e contro la mancanza di interazione tra Stato e masse popolari.

Il consenso di massa di cui i regimi totalitari hanno goduto nella prima metà del Novecento ha avuto diverse radici ma non così diverse da quelle che potrebbe avere oggi: nel 2021, coloro che sono stati dimenticati dal governo e messi in ginocchio dalla pandemia ripongono speranze e sicurezze nei partiti populisti, che sfruttano preoccupazioni e angosce della popolazione per acquisire adesioni e consensi, convogliando le paure della massa contro un nemico comune che, se eliminato, potrà finalmente risollevarci dai nostri problemi.

La storia ci ha insegnato, però, che le cose non funzionano in questo modo. I totalitarismi fanno leva sui tratti psicologici insiti nell’essere umano e su immaginari utopici in cui vige il potere assoluto di una sola parte, incapace di conciliare le necessità e le esigenze di un mondo complesso e diversificato – come è a maggior ragione quello contemporaneo. I danni di questo idealtipo dovrebbero ormai essere noti a tutti: è necessario evitare che l’attuale situazione di pandemia non ci disumanizzi al punto da cadere di nuovo in questi errori e far riemergere il pericolo di una deriva politica assolutista.



FRANCESCA FONTANESI

rivistailmulino.it,14 maggio 2021.

bottom of page