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Le risposte dell'Africa

Le risposte dell'Africa

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Neue Fabrik

Jan 3, 2020

Intervista a
ACHILLE MBEMBE

Dicembre 2019.

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L’idea di democrazia è un concetto che storicamente si è sempre applicato agli esseri umani. Voglio dire che, fin dalle origini, la democrazia è stata una proprietà riservata per essenza agli umani. In un certo senso, quindi, si tratta – e si è sempre trattato – di un concetto che per sua natura scarta e mette al bando tutto quel che viene considerato non-umano o subumano. E questa capacità di distinguere e discriminare costituisce la quintessenza della democrazia, in particolare dell’idea di democrazia liberale. Finora non abbiamo ancora superato una simile concezione della democrazia. Oltretutto, nel corso dei secoli la democrazia ha sempre dimostrato di essere capace di accomodarsi e venire a patti con il suo contrario, che ha potuto assumere di volta in volta forme concrete assai diverse. Per esempio, in Sudafrica durante l’apartheid, la «forma» democratica era rispettata, nonostante la divisione tra i campi del diritto e del non-diritto corrispondesse esattamente alle linee di demarcazione della classificazione razziale. La stessa cosa negli Stati Uniti, dove la democrazia si è sviluppata progressivamente insieme alla sua negazione, la schiavitù. Dico questo per sottolineare come il corpo della democrazia, tanto nel suo concetto quanto nelle sue espressioni storiche, sia sempre stato duplice, molteplice, ambivalente. Allora come rianimare e rincantare la democrazia oggi? Credo che per raggiungere quest’obiettivo sia necessario ripensarla come una forma capace di accogliere il vivente nella sua totalità, e non solo la specie umana. Ciò implica un processo di riconcettualizzazione delle appartenenze – chi ne fa parte e chi ne è escluso – un ripensamento della cittadinanza e dei diritti, una nuova concezione dello spazio pubblico, e una nuova filosofia dell’in–comune(en–commun). E tutto questo è molto complicato almeno per due motivi: in primo luogo, a causa della divaricazione profonda che si è prodotta tra capitalismo e democrazia liberale, nella misura in cui la democrazia non riesce più a conciliarsi con il capitalismo. Mentre in principio democrazia e capitalismo si sono sviluppati in un rapporto di mutua corrispondenza, ora siamo giunti a una fase in cui il capitalismo nella sua variante neoliberale, che implica tra le altre cose la finanziarizzazione dell’economia, non può più andare d’accordo con la democrazia. In secondo luogo, a causa dell’impennata tecnologica che stiamo attraversando e che non è per niente favorevole all’espansione della democrazia, anzi contribuisce a minarla dall’interno, perché il prototipo di essere umano che le nuove tecnologie stanno rimodellando non è governato dalla ragione, ma è un soggetto dominato dall’esplosione incontrollata degli affetti che impedisce qualsiasi interazione e comunicazione. E senza comunicazione non c’è possibilità di democrazia.





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L’Africa è il continente al mondo che paga il prezzo più elevato per i costi della circolazione. Le frontiere costano care, non solo in termini di soldi, ma anche e soprattutto in termini di vite umane. Per come operano in Africa le frontiere rinviano a due logiche distinte e complementari. Da un lato una logica d’estrazione e di svuotamento, nella misura in cui, ovviamente, le risorse preziose di cui l’Africa dispone in grandi quantità e che vengono sfruttate dalle multinazionali, non hanno nessun problema ad attraversare le frontiere, e anzi circolano entro corridoi protetti e ben definiti che muovono dai luoghi di estrazione verso l’esterno, seguendo un movimento classico della logica estrattiva, che non ha nulla di nuovo – penso, ad esempio alla tratta degli schiavi e alla circolazione dei corpi da lavoro, ma anche alla circolazione delle materie prime.

D’altra parte, le frontiere applicano una logica di confinamento e di neutralizzazione della mobilità – tanto in senso letterale, per quel che riguarda il movimento fisico, quanto in senso figurato, per quel che riguarda le mobilitazioni sociali e politiche – nei confronti di tutte quelle persone cui è negata la possibilità di muoversi, fuggire, protestare, ribellarsi, insorgere. Questi paradigmi di svuotamento e confinamento in Africa raggiungono livelli di massima intensità con la doppia conseguenza punitiva che alla fine agli africani, cui è già vietato di circolare in tutto il resto del mondo, viene impedito anche di circolare a casa loro, in Africa.

Credo sia una situazione insostenibile e incontenibile a lungo termine, almeno per tre ragioni fondamentali. La prima è l’incremento demografico: fra trenta-quaranta anni ci saranno molte più persone in Africa, così tante da non poter essere confinate nelle riserve, di qualsiasi natura esse siano, perché saranno semplicemente troppe per esser imprigionate tutte. La seconda ragione riguarda i mutamenti ecologici a causa dei quali molte zone diventeranno inospitali, verranno distrutte e sarà impossibile esigere che delle persone siano costrette ad abitare luoghi inabitabili, in mezzo alle rovine e alla devastazione. La fuga accelerata da questi spazi invivibili diventerà una modalità della lotta sociale. E, in generale, sarebbe necessaria una lettura politica delle cosiddette migrazioni illegali che, rovesciando la prospettiva dominante, dimostri come la fuga sia diventata di fatto una forma di protesta. E, terza e ultima ragione, l’accelerazione tecnologica. L’accesso alle nuove tecnologie finirà per far implodere il sistema delle frontiere, anche già soltanto al livello degli immaginari, dal momento che un nuovo immaginario ispirato alle tecnologie della circolazione e dei flussi si sta progressivamente sostituendo all’immaginario della sedentarietà, in Africa e dappertutto. La combinazione di questi elementi mi fa pensare che proprio l’Africa possa diventare un laboratorio per concepire nuove configurazioni del rapporto tra tempo e spazio. È giunta l’ora di lasciarsi alle spalle la divisione delle frontiere che risale alla «spartizione dell’Africa» durante la Conferenza di Berlino del 1884. Bisogna riaprire un dibattito sul principio d’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione, principio ratificato dagli Stati africani nel 1963, con la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana, antenata dell’Unione Africana.

E più rapidamente lo facciamo, meglio è, nell’ottica di prepararci al futuro che in ogni caso ci aspetta. Se non ci prepariamo in anticipo, finiremo semplicemente per trovarcelo di fronte sotto forma di caos. Da sempre, del resto, in Africa le persone circolavano, e c’era una cultura della circolazione di cui andrebbe riscoperto il potenziale generatore di vita. Il vivente nei sistemi di pensiero precoloniali, come anche nelle pratiche politiche e culturali antiche, era destinato alla circolazione, nato per circolare. Dal punto di vista filosofico ci sarebbero molte cose da indagare all’interno di questo patrimonio precoloniale con l’obiettivo di sviluppare principi che potrebbero fondare una nuova politica delle mobilità su scala planetaria. Nella costituzione del Ghana, ad esempio, troviamo le risorse etiche e politiche che ci permettono di superare l’ideale cosmopolita kantiano e il diritto all’ospitalità universale, la cui universalità è, in ultima istanza, molto relativa. Si tratta del right of abode, il diritto alla dimora, o diritto all’abitare, diritto fondamentale che non dipende dall’appartenenza a nessun gruppo o istituzione, ma la precede. Un diritto di nascita che rinvia a un concetto di nazionalità che non ha nulla di territoriale, ma si richiama a una sorta di nazionalità cosmica che spetta ai viventi nell’universo – e non solo ai viventi, ma anche ai morti, in ossequio alle teorie ancestrali che revocano la separazione tra morti e viventi. Si potrebbe quindi ipotizzare di frugare nei saperi precoloniali alla ricerca di strumenti utili per ripensare l’ordine del mondo, un ordine diverso dall’ordine delle nazioni, dall’ordine nazionale territoriale ispirato alle metafisiche occidentali. Ma si tratta di un lavoro tutto da cominciare.





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Il desiderio d’Europa è un correlato del «patto coloniale». Ogni dominazione che si rispetti, per perpetuarsi e riprodursi, ha bisogno di fare leva su un desiderio. Questo perché una delle funzioni del desiderio (che si tratti del desiderio sessuale o del desiderio di oggetti e di merci) è quella di asservire chi ne è preda, legandolo indissolubilmente a sé, in maniera tale da assicurarsi la perpetuazione del dominio senza bisogno di coercizioni esterne. È per questo, credo, che «l’oggetto-Europa» in quanto oggetto del desiderio, l’Europa come costrutto psicoanalitico, eserciti una funzione distruttiva rispetto alla possibilità di una psiche africana autonoma. Finché saremo asserviti all’Europa intesa come oggetto del nostro desiderio, il sentimento prevalente tenderà a rendere il continente europeo il solo luogo di godimento possibile.

(...)

Per quanto riguarda il concetto di razza, mi sembra che abolirlo, come ha fatto il Parlamento francese poco più di un anno fa, votando la sua cancellazione dall’articolo 1 della Costituzione, è un’aberrazione. È una cantonata che ha dell’incredibile: come se bastasse abolire la parola, smettere di pronunciarla, per rivolvere il problema del razzismo. Significa credere davvero nell’onnipotenza del verbo. In ogni caso non funziona così. Bisogna per forza passare per la «razza» per liberarsi dal razzismo. Perché la «razza», questo concetto, è uno strumento necessario su cui non possiamo non fare leva. Quando parlo del «divenire-negro del mondo», però, compio un’operazione di derazzializzazione del razziale dalla sua componente somatica. Parlo della riconfigurazione delle forme di vita e di dominazione da parte del capitalismo neoliberale che genera la grande paura che il trattamento somministrato ai negri un tempo sia ormai ciò a cui siamo tutti potenzialmente esposti. Non ci sono più barriere che ci separano dal negro oggi. Siamo tutti minacciati dalla possibilità di essere catturati in qualsiasi momento dalla negritudine e molti aspetti del presente c’inducono a costatare che abbiamo già assistito a un’estensione della condizionenegra a chi nero non è, perché non è più soltanto questione del colore della pelle – e del resto non è mai stato solo questione di pelle.

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ACHILLE MBEMBE, filosofo camerunese, è professore di Storia e Scienze Politiche presso l’Università di Witwatersrand a Johannesburg. Autore di Postcolonialismo (Meltemi, 2005), Critique de la raison nègre (La Découverte, 2013), Necropolitica (Ombre corte, 2016), Emergere dalla lunga notte. Saggio sull’Africa decolonizzata (Meltemi, 2018), ha pubblicato recentemente Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia (Laterza, 2019). Insieme a Felwine Sarr, Achille Mbembe co-organizza dal 2016 gli Ateliers de la Pensée di Dakar, quest’anno giunti alla terza edizione. In occasione della settimana degli Ateliers (30 ottobre – 2 novembre), è stata realizzata l'intervista di Jamila Mascat (il manifesto) da cui sono stati estratti questi brani.






Appendice

​ Achille Mbembe sul "corpo frontiera"...

«Una delle principali trasformazioni della nostra epoca è il frazionamento dell’umanità in molteplici classi definite razzialmente. Si tratta da un lato della distinzione tra persone umane solventi e insolventi e dall’altro si tratta, su scala planetaria, della divisione tra la parte mobile dell’umanità e l’umanità errante… L’istituzione delle frontiere è il meccanismo con cui questa nuova divisione si inscrive nella realtà. Del resto le frontiere non sono più esclusivamente fisiche. Sono fondamentalmente ibride, deliberatamente incomplete e segmentate. E se costituiscono i luoghi di manifestazione per eccellenza del saccheggio contemporaneo è perché in esse convergono numerosi dispositivi che assicurano la presa in carico e la regolazione del vivente e la distribuzione disuguale dei pericoli di questa epoca – dispositivi securitari a anche dispositivi umanitari e dispositivi identitari. Il corpo frontiera è essenzialmente un corpo razzializzato,. . . un corpo che porta nella carne il ricordo di partizioni e suddivisioni di ogni sorta. ​ ​ Achille Mbembe (da "Brutalisme", 2020)

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