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Vita, pandemie e capitalismo. Quale "vita" stiamo difendendo?

Vita, pandemie e capitalismo. Quale "vita" stiamo difendendo?

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Neue Fabrik

Aug 24, 2021

Abbiamo sacrificato tutti i valori liberali per «difendere la vita»: libertà di movimento, di manifestazione, di opinione. In questo contesto, spiega l'antropologo Didier Fassin, «la vita che si difende è la vita fisica, il fatto di essere vivi, senza mai menzionare la vita piena dell'essere umano».
Due articoli di DIDIER FASSIN e di ROBERTO CICCARELLI

Quale "vita" stiamo difendendo?

Abbiamo sacrificato tutti i valori liberali per «difendere la vita»: libertà di movimento, di manifestazione, di opinione. In questo contesto, spiega l'antropologo Didier Fassin, «la vita che si difende è la vita fisica, il fatto di essere vivi, senza mai menzionare la vita piena dell'essere umano». ​ di DIDIER FASSIN su "vita.it", 24 ago. 2021


L'epidemia di Covid rappresenta un punto di svolta nel rapporto con la vita nelle società contemporanee, in particolare, ma non esclusivamente, nel mondo occidentale. Per la prima volta nella storia dell'umanità, la vita è diventata il bene supremo da difendere. Per proteggerla, non abbiamo esitato a sacrificare sia i valori più fondamentali del pensiero liberale, come la libertà di muoversi, di lavorare, di manifestare, sia i dogmi più solidi della dottrina neoliberista, come quelli sanciti dalla dottrina neoliberale delle regole europee sui deficit di bilancio o sugli aiuti pubblici.

La domanda che mi pongo non è: come viviamo? E neanche: come dovremmo vivere? Mi chiedo piuttosto quale valore attribuiamo alla vita come nozione astratta. E quale valutazione facciamo delle vite umane come realtà concrete.

Ma due riserve devono essere fatte su questa analisi. Da un lato, la pandemia ha rivelato che non tutte le vite sono uguali. Negli Stati Uniti, le popolazioni di colore sono risultate essere due volte più contaminato e muoiono a un tasso tre volte superiore rispetto alle popolazioni bianche, e differenze simili sono state trovate altrove nel mondo a spese delle minoranze etniche e della categorie popolari.

per esempio in Francia si sapeva che c'erano dei divari nella speranza di vita, 13 anni alla nascita tra il 5% più ricco e il 5% più povero, ma questa realtà generalmente ignorata è stata improvvisamente riconosciuta.

E d'altra parte, la vita che si difendeva era la vita fisica, il fatto di essere vivi, senza mai menzionare la vita piena dell'essere umano.

L'illustrazione più tragica di ciò è stato il modo in cui è stata sospesa la possibilità di morire con dignità circondati dalla propria famiglia e di trattare il defunto con dignità. Anche il caso della prigione è interessante. Ci sono stati spesso sforzi per proteggere la popolazione carceraria, attraverso il ridimensionamento e le misure preventive, ma non si è mai parlato di fornire ai prigionieri condizioni un po' meno indegne. Si tratta quindi di una biopolitica che ha messo a nudo i difetti della democrazia.

(...) Bisogna anche notare che la pandemia ha portato a concentrarsi sulle situazioni nazionali e sulle esperienze individuali. Per mesi, si è parlato solo del Covid nel proprio Paese e della propria esperienza, e questo doppio focus ha tolto l'attenzione dalle grandi crisi nel mondo, dalla Siria allo Yemen, dagli Uiguri in Cina ai Roghingya nell'Asia meridionale, per non parlare del cambiamento climatico, che è passato in secondo piano.

Ma non è la compassione che dovrebbe motivare i cittadini europei a muoversi. Sono i diritti umani che dovrebbero difendere, il diritto alla protezione dalle persecuzioni che è il principio della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, il diritto a vivere dignitosamente che è l'articolo 1 della Carta europea dei diritti dell'uomo, il diritto a un alloggio decente, il diritto all'assistenza sanitaria.

È particolarmente difficile far sentire questa richiesta in un momento in cui il populismo e il nazionalismo stanno guadagnando terreno nella maggior parte dei paesi europei. Ma proprio questa difficoltà è un'altra ragione per mobilitarsi in difesa di questi valori.








Il rapporto rimosso tra capitalismo e pandemie

La tradizione degli oppressi ci ha insegnato a rovesciare lo stato di emergenza permanente per scagliarlo contro il capitalismo che distrugge la vita, non la salva: tutto il contrario di quanto fanno i “negazionisti” del virus. ​ di ROBERTO CICCARELLI su "ilmanifesto.it", 4 ago. 2021 ​ C’è un non detto alla base delle discussioni sulla libertà individuale e l’oppressione di uno stato autoritario: il Covid. I discorsi vertono sul rapporto astratto tra la libertà dell’individuo di muoversi e il potere dello Stato di controllarlo. Come se i due aspetti, le cause della pandemia e gli stati di emergenza sanitari, non fossero strettamente collegati. Il virus resta in una penombra, quando non viene definito un’«invenzione». ​ Da marzo 2020 le massime autorità degli Stati e di alcune istituzioni sovranazionali hanno presentato il Covid come uno «choc esogeno», prodotto di una causa extra-umana che non può essere imputabile a nessuno. Lo scopo della rimozione è tutelare il sistema che produce anche le pandemie, adottando ingegnosi rimedi che servono a proteggere la popolazione ma non a sradicare i rischi che corre. Essere «resilienti», come invita a fare l’omonimo piano della «ripresa», non serve a prospettare lo sradicamento dei rischi, ma l’adattamento a un pericolo endemico che va curato e indennizzato quando non è possibile prevenirlo. ​ Sono poco comprese le voci degli epidemiologi critici, degli ecologisti o dei materialisti che, a livello internazionale e molto meno purtroppo in Italia, hanno invece sollecitato a indagare la politicità del virus e la rete delle cause che lo hanno prodotto: il capitalismo dell’agribusiness, la deforestazione e le monoculture animali che favoriscono i salti di specie da animale a uomo e hanno generato la famiglia dei coronavirus di cui il Covid è uno di quelli più pericolosi. ​ Questo sistema ha imposto la convivenza forzata tra specie diverse e ha trasformato ogni forma del vivente in un’occasione di profitto. Il dibattito sullo «Structural One Health» spiega come le pandemie siano collegate ai circuiti del capitale che stanno cambiando le condizioni ambientali e mutando le forme del governo. ​ La critica dell’economia politica permetterebbe di dare concretezza alla ricerca delle alternative a un sistema che continuerà a produrre, direttamente o indirettamente, eventi catastrofici globali. Non si tratta di aspettare la prossima pandemia. È sufficiente osservare le conseguenze del surriscaldamento del clima e il loro rapporto con il capitalismo fossile e finanziario. Non porsi il problema di un mondo ridotto a una fattoria globale, o slegarlo da quello che lo ha ridotto a vivere in una serra, non impedirà la diffusione di fenomeni patogeni o climatici ancora più virulenti e devastanti. ​ (...) Rovesciare questi paradossi è possibile partendo dalla conoscenza delle cause che rendono dolorosa, incerta e insostenibile una vita. Ciò non significa neutralizzarla, ma liberarla. Su queste basi si potrebbe argomentare la necessità di non subire l’emergenza permanente. La tradizione degli oppressi ci insegna a rovesciarla e a scagliarla contro il capitalismo che distrugge la vita, non la salva.

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