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AI MARGINI DELLA PANDEMIA

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NEUE FABRIK

Nov 11, 2021

La distruzione dello stato di diritto ha oggi molto piĆ¹ a che fare con i poteri incontrollabili del neoliberalismo invece che con le leggi dello stato odierno.

Si ha lā€™impressione che la paranoia dellā€™Occidente privilegiato si lamenti controvento, anzichĆ© scavare piĆ¹ a fondo nella sua formazione extra-occidentale



Nella discussione su coronavirus, Green Pass e No Vax, che coinvolge alcune delle menti piĆ¹ raffinati della loro generazione, e al di lĆ  della razionalizzazione delle scelte (pro-, contro-vaccino, pro-, contro-Green Pass) resto colpito da quanta energia critica e filosofica si concentri sulla questione, come se fosse lā€™argomento politico e filosofico piĆ¹ urgente del mondo contemporaneo. Nei meandri spesso imbarazzanti che mescolano opinione popolare e un lessico filosofico un poā€™ esaurito, cerco di capire perchĆ© esista tutta questa attenzione, invece che una concentrazione sulla politica assassina delle migrazioni, o la privatizzazione brutale in corso delle strutture e dei servizi pubblici, o la distruzione strutturale e il sotto finanziamento dellā€™istruzione pubblica, o il dissesto ecologico incontrollabile. Tra la banalitĆ  della paura del vaccino e la difesa giuridico-politico-filosofica di un senso astratto di Ā«libertĆ Ā» assicurato nella sovranitĆ  dellā€™individuo, gli argomenti sembrano intrappolati in una spirale di auto-conferme. Forse il vaccino non offre garanzie, le cifre degli infetti sono gonfiate dalla vaghezza delle variabili, lā€™interpretazione dei dati ĆØ discutibile, cā€™ĆØ la validitĆ  limitata del vaccino, i limiti del paradigma scientifico, lā€™esercizio del ragionevole dubbio, e cosƬ via.


ƈ chiaro che la biopolitica dello stato nazionale moderno non ĆØ stata inventata due anni fa, nemmeno lo stato di eccezione, dove, come Benjamin ci ricorda, piĆ¹ radicalmente, e a differenza di Schmitt e Agamben, lo stato di emergenza ĆØ la regola e non unā€™istanza di eccezione. Come ci ha insegnato anche Foucault, fa parte di una pratica e di una volontĆ  politica che si esercita da decenni ā€“ almeno dalle crisi esplicite del welfare state e del liberalismo negli anni ā€™70 (Thatcher, Regan e la scuola di Chicago), E forse la distruzione dello stato del diritto oggi ha molto piĆ¹ a che fare con i poteri incontrollabili del neo-liberalismo invece che con le leggi promulgate dallo stato odierno. Tali poteri, oggi apparentemente trionfanti si trovano nel cuore ambiguo del liberalismo stesso e delle sue idee accentuate di libertĆ  individuale, che storicamente hanno sempre comportato il suo esercizio violento su chi concepiva la societĆ  e la gestione delle risorse in modo diverso, sia in patria che allā€™estero.


In parole povere, lo scavo di storie piĆ¹ profonde a questo punto potrebbe aiutarci a muoverci in modo diverso. La politica dello stato liberale, la sua biopolitica e i suoi regimi di controllo, non sono mai stati solo un affare interno. La violenza dello stato e la sua giustificazione giuridica sono state sperimentate e sviluppate anche e soprattutto negli spazi coloniali. Il campo come strumento di guerra contro una popolazione identificata ā€“ leitmotif del linguaggio filosofico di Giorgio Agamben ā€“ ĆØ stato dapprima sviluppato dagli inglesi in Sudafrica, utilizzato dagli italiani in Libia, prima di diventare una macchina di sterminio di massa in Europa e nella Germania nazista. E poi i genocidi nelle Americhe e in Africa? In altre parole, la politica del colonialismo, e il suo violento modellamento del mondo moderno per permettere lā€™estrazione delle sue risorse, sono centrali alla creazione del moderno stato nazionale e dei suoi soggetti. Questo ĆØ insistere su una vicinanza che ha un impatto diretto su una discussione largamente condotta da maschi bianchi e sulla loro ingenua assunzione che la razionalitĆ  occidentale nella sua presunta universalitĆ  abbia lā€™autoritĆ  morale per legiferare il mondo. Forse la discussione critica sullā€™indebolimento dello stato nazionale moderno deve iniziare ad adottare e comprendere queste coordinate piĆ¹ ampie; coordinate che esistono e persistono senza la nostra autorizzazione.


Qualche anno fa nel volume La (in)traducibilitĆ  del Mondo, curato da Stefano Rota, avevo riferito ad un saggio di Lydia H. Liu sulla rivista Translation 4 (2014) che discuteva la produzione pluri-linguistica della Dichiarazione dei Diritti Umani (1948). La figura centrale di questo racconto ĆØ il vicepresidente della Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Peng-chun Chang. Sotto la presidenza di Eleanor Roosevelt, la commissione composta da Chang, Charles Habib Malik e John Humphrey (direttore della Divisione Diritti Umani delle Nazioni Unite) cerca di negoziare e redigere un documento di valore universale. A un certo punto, guardando il libanese Malik, Chang suggerisce a Humphrey di prendere un congedo di sei mesi per studiare la filosofia cinese. Era, nota Liu, un modo per suggerire che il peso occidentale nella formulazione del documento era troppo dominante. Le difficoltĆ  linguistiche, e la ricerca di valori universali, ponevano profondi problemi epistemologici. Come chiede Liu, Ā«Lā€™idea di ā€˜umanoā€™ in inglese significa la stessa cosa in una lingua formata in una tradizione linguistica e filosofica diversa?Ā».


La ricerca di un linguaggio commensurabile con un vero universalismo, e non limitato a quello metropolitano proposto e propagato dallā€™Occidente, richiede una forma di negoziazione sia trans che inter-culturale. Qui, per esempio, Chang ha cercato di infondere alla concezione occidentale dellā€™umano basata sullā€™individuo una concezione diversa basata su unā€™antica tradizione filosofica cinese che invoca il pluralismo dellā€™umano. La proposta non ĆØ stata accolta e, come nota Liu, Ā«si ĆØ persa una straordinaria opportunitĆ  di re-immaginare l'ā€umanoā€ in altri terminiĀ». Il punto qui ĆØ che il lavoro coinvolto nella produzione di questo documento ha rivelato non solo questioni di differenze linguistiche, culturali ed epistemologiche, ma soprattutto questioni di potere. Una certa semantica, radicata in una specifica formazione storico-culturale, ha dominato le procedure. Alla fine, era il suo linguaggio a porsi come universale, e non i processi storici che costituivano la complessitĆ  differenziata della ricerca dellā€™universale. La traduzione in questione, lā€™autoritĆ  convalidata dal suo linguaggio, ha fondato un atto politico.


Guardando lā€™evento online Le Politiche Pandemiche (10 novembre, disponibile su YouTube), e ascoltando i ragionamenti di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e molte altre voci, si ha lā€™impressione che la paranoia dellā€™Occidente privilegiato si lamenti ancora una volta controvento, e si rifiuti ancora di scavare piĆ¹ a fondo nella sua formazione planetaria ed extra-occidentale. Il cambiamento climatico, lā€™apocalisse ecologica e il loro intersecarsi nella promozione delle migrazioni di massa e dei movimenti di popolazione sottolineano ad ogni piĆØ sospinto la continua appropriazione occidentale del pianeta e la sua costituzione coloniale. Forse la discussione critica sulla pandemia deve spostarsi in questo spazio del tutto piĆ¹ vulnerabile, meno garantito dalle nostre identitĆ  e libertĆ . Forse un tale indebolimento dellā€™economia politica dellā€™Occidente ā€“ che va da Big Pharma allā€™ordine patriarcale dei miti bianchi del suo logos ā€“ fornisce un altro rapporto con cui riformulare da dove veniamo e dove potremmo andare. Un certo ordine di discorso si ĆØ rotto e dobbiamo cominciare a imparare a parlare e ascoltare nelle sue rovine, cercando, nelle parole della filosofa afro-brasiliana Denise Ferreira da Silva, di estrarci dallā€™astrazione mortale del pensiero occidentale.


IAIN CHAMBERS *

in "ilmanifesto.it", 12 nov. 2021



* Iain Chambers ĆØ un antropologo e sociologo britannico. Insegna Studi culturali e media e Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo allā€™Orientale di Napoli. ƈ autore di diverse pubblicazioni in Italia, tra cui: Sulla soglia del mondo (Booklet Milano, 2003), Le molte voci del Mediterraneo (Raffaello Cortina, 2007), Mediterraneo Blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi (2013), Ritmi urbani. Pop music e cultura di massa (Meltemi, 2018) e Paesaggi migratori. Cultura e identitĆ  nell'epoca postcoloniale (Meltemi, 2018).

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