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Gli italiani vogliono il razzismo?

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Neue Fabrik

Nov 26, 2022

È auspicabile che finalmente la sinistra, anche quella “moderata”, prenda coscienza del valore strategico dell’antirazzismo militante
di ANNAMARIA RIVERA

ITALIA, NOVEMBRE 2022. Qualcuno ha spianato per anni e anni la strada perché si giungesse a un esito del genere? Perché oggi si possa tornare a discutere di norme ispirate ai decreti voluti da Salvini durante il governo Conte quanto ha pesato il ruolo dell’informazione che fa opinione (anche di quella che oggi scaglia anatemi contro le misure di destra)? L’Italia, in quanto a politiche sulle migrazioni, è davvero isolata in Europa? C’è perfino un ritorno dell’ideologia ottocentesca delle classi “pericolose”? Il razzismo qui è ormai davvero ideologia diffusa, senso comune, forma della politica nazionale?


di ANNAMARIA RIVERA


Il neonato governo fascistoide, il più di destra nella storia repubblicana, ha promesso, fra l’altro, il ritorno ai decreti-sicurezza, con l’obiettivo di contrastare “l’immigrazione irregolare”. Com’era del tutto prevedibile, Giorgia Meloni ha poi ribadito fermamente la linea dura del nuovo governo: “In tema di sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale, gli italiani si sono espressi alle urne, scegliendo il nostro programma e la nostra visione“.


Per molti versi il governo Meloni ha trovato la strada già spianata per una strategia che sia conforme al proprio stile, sebbene essa non sia affatto opera esclusiva delle destre. Per fare qualche esempio, il nuovo regime delle frontiere affermatosi in Europa ha già prodotto non solo un’autentica, perenne ecatombe, ma anche la proliferazione e perfino l’esternalizzazione dei centri di detenzione per migranti, nei quali, in non pochi casi, sono rinchiusi finanche richiedenti-asilo e minorenni.


Le condizioni di tali lager  spesso muniti di gabbie e filo spinato, e controllati da forze dell’ordine e militari armati sono state condannate dalla stessa Corte di Strasburgo. In alcuni paesi, come l’Italia, sono istituzioni del tutto abusive, in quanto violano la Costituzione e lo stato di diritto. Nondimeno esse sono opera anche della sinistra “moderata”: la legge che li ha istituiti, la n. 40 del 6 marzo 1998, è detta anche Turco-Napolitano dai nomi dell’allora Ministra per la solidarietà socialeLivia Turco, e dell’allora Ministro dell’internoGiorgio Napolitano.


Un tale sistema repressivo, a dir poco, si è rafforzato anche grazie agli accordi bilaterali con paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, cui si delega gran parte del “lavoro sporco”. Com’è ben noto, l’Italia ha perpetuato gli accordi di cooperazione perfino con un paese come la Libia, il quale, oltre tutto – lo abbiamo ricordato più volte- non ha leggi sull’asilo, pratica gravissime violazioni dei diritti umani, non ha sottoscritto neppure la Convenzione di Ginevra del 1951.


La Libia, tappa ineludibile soprattutto per i migranti e i profughi subsahariani, è un vero e proprio inferno. Come e peggio che al tempo di Gheddafi, pratiche tuttora correnti sono gli arresti arbitrari, il lavoro forzato, lo sfruttamento schiavile, le deportazioni, i taglieggiamenti, le torture, perfino gli stupri: orrori la cui apoteosi è costituita dall’inferno della prigione di Kufra. L’unica differenza è che oggi sono le milizie armate a “dirigere” i centri di detenzione e a compiere le nefandezze cui ho fatto cenno.


D’altro canto, in gran parte dei paesi europei va diffondendosi sempre più l’uso politico e ideologico del cliché dell’“invasione”,  nonché retoriche quali quelle dei migranti come fonte d’insicurezza e d’impoverimento dei “nazionali” nonché della “clandestinità” come sinonimo di criminalità: ampiamente utilizzate perfino da istituzioni, finanche da taluni partiti di sinistra, sia pur “moderata”, nonché – ça va sans dire– da formazioni populiste, di destra e di estrema destra, che in Europa conoscono oggi un’ascesa impressionante, ben esemplificata dalla vittoria della Meloni.


In particolare, quella dell’”invasione” e della “marea montante” è una tipica falsa evidenza: com’è ben noto, la quota preponderante dei flussi migratori parte dai paesi del Sud del mondo per dirigersi verso altri paesi del Sud.


Sul versante delle istituzioni, in una parte dei paesi dell’Unione Europea prevale un approccio di tipo emergenzialista: conseguenza, fra le altre cose, del fatto che, in realtà, migrazioni ed esodi non sono stati integrati –starei per dire “elaborati”  per quel che sono, cioè come tendenze strutturali del nostro tempo.


Anche questo spiega perché il razzismo tenda a divenire “ideologia diffusa, senso comune, forma della politica”, per citare Alberto Burgio (Critica della ragione razzista, DeriveApprodi, 2010). E non si tratta del ritorno in superficie dell’arcaico, bensì di una delle fasi del riemergere ricorrente del lato oscuro della modernità europea.


Le discriminazioni istituzionali, l’allarmismo dei media nonché la pessima gestione dell’accoglienza, almeno in alcuni Stati-membri, non fanno che produrre ondate ricorrenti di moral panic, alimentando anche violenza razzista “popolare’” nei confronti degli/delle indesiderabili, spesso usati/e come capri espiatori, particolarmente in questa fase.



In non pochi paesi europei, compresa l’Italia di oggi, la crisi economica si coniuga con una crisi, altrettanto grave, della democrazia e della rappresentanza, talché la distanza fra i/le cittadini/e e il potere si fa siderale e la cittadinanza va trasformandosi sempre più in sudditanza, per citare Etienne Balibar (2012). Non sorprende affatto, quindi, che gli effetti sociali della crisi e delle politiche di austerità, coniugati con la condizione e il senso soggettivo di sudditanza, alimentino frustrazione, spaesamento, risentimento sociale e conseguente ricerca del capro espiatorio. Una buona parte di cittadini/e penalizzati/e dalla crisi o comunque dall’indigenza finisce così per identificare il proprio nemico nelle persone immigrate “che rubano il lavoro” o nei rom che degraderebbero il loro già degradato quartiere di periferia. Sicché si potrebbe sostenere che il razzismo “popolare” sia per lo più rancore socializzato e deviato.


Tutto ciò che sto per dire non può essere separato dal suo contesto: non dimentichiamo che a connotarlo sono una grave crisi economica, come ho detto, nonché la crisi dello stato sociale, il pauperismo che va estendosi fino alle classi medie, la sfiducia crescente verso le istituzioni repubblicane, l’indebolimento dello spirito civico e democratico del paese, la crescita conseguente del razzismo e del neofascismo, perlopiù banalizzati, lo svuotamento tendenziale del ruolo del parlamento, l’inaridimento dei luoghi della socialità collettiva.


Quest'ultimo processo, a sua volta, è favorito dalla tendenza a militarizzare le città e a proibire e reprimere, attraverso ordinanze comunali disparate e spesso stravaganti, i più vari comportamenti informali, “incivili” o solo non conformi. A tal proposito, esemplare e assurda al tempo stesso è una recente iniziativa del governo Meloni: quella della penalizzazione dei cosiddetti rave party (“raduni non autorizzati”), i cui organizzatori/trici “illegali” – prevede la legge– saranno puniti con la confisca degli oggetti utilizzati, la reclusione da 3 a 6 anni, multe da 1.000 a 10.000 euro. Il decreto viola palesemente la «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», un trattato dell’Onu che tutela tutte le riunioni pacifiche, non solo quelle legali.


Quanto alla profonda crisi sociale e politica, essa sempre più viene esorcizzata mediante il discorso sicuritario, il controllo sociale e l’ordine pubblico: per simulare autorevolezza agli occhi dei/delle governanti e degli/delle amministrate/i, al fine di conquistarne il consenso elettorale, soprattutto per mascherare l’incapacità di presa sulle grandi decisioni riguardanti la finanza e l’economia, quindi la condizione sociale dei cittadini e delle cittadine.


Esemplare a proposito delle retoriche sulla sicurezza e delle politiche conseguenti è stata, tra le altre, la legge (dapprima decreto) Minniti-Orlando del 18 aprile 2017, n. 48 («Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città»). Il tema di fondo di tale legge era la correlazione tra immigrazione e sicurezza, e lo scopo quello di sorvegliare, criminalizzare e punire la marginalità, la povertà e la non-conformità sociale. Anche mediante la messa al bando (tramite Daspo) di ogni genere di diseredati, “devianti”, non-conformi: cioè senzatetto, questuanti, rovistatori di cassonetti, parcheggiatori e ambulanti informali, occupanti d’immobili, rom, ma anche consumatori di droghe, writers, contestatori ed “estremisti” politici. Tutto ciò in nome del “decoro” e della “sicurezza”, per l’appunto.


In fondo, è una legge che tematizza in termini di «pericolosità sociale» i comportamenti, lo stile di vita, il modo di essere di coloro che sono considerati “fuori norma”. In realtà, a esserne colpiti sono e saranno, ancor di più con l’attuale governo, principalmente rom e persone immigrate e rifugiate. Tra le altre cose, questa legge introduce la flagranza differita: un ossimoro assurdo (com’era, del resto “centri di permanenza temporanea”). 


È tornato in auge ciò che Luigi Ferrajoli definì sottosistema penale di polizia: le garanzie individuali dello stato di diritto non vigono più per certe categorie stigmatizzate, in primis gli “oziosi e vagabondi”, per usare un lessico d’antan ma non troppo. Per cui anziché colpire l’infrazione di una norma o la lesione di un bene giuridico, si sanzionano stili di vita, disoccupazione, mancanza di alloggio e, in definitiva, la povertà, ancor di più se coniugata con la condizione di migrante o di rom.


Tutto ciò sembra il ritorno all’ideologia ottocentesca delle “classi pericolose” (opposte alle “classi laboriose”), di coloro che, in altri termini, un tempo erano definiti, appunto, come «oziosi e vagabondi». Un’ideologia che, tradotta in norme, “mirava a disciplinare le classi subalterne secondo le condizioni esistenziali imposte dalla struttura economico-sociale del tempo, neutralizzandone il potenziale eversivo” (Giuseppe Campesi http://www.adir.unifi.it/rivista/2009/campesi/cap6.htm).


DI nuovo oggi v’è la potenza dei mezzi di comunicazione di massa e la loro facoltà smisurata di riprendere, costruire e diffondere cliché, stereotipi e pregiudizi, in definitiva di riprodurre il razzismo.


Oggi “classi pericolose” per eccellenza sono migranti, rifugiati/e e rom. Come scriveva ancora Campesi, “Il panico da invasione e gli stereotipi criminalizzanti” che essi/e subiscono “sono un ulteriore segnale del fatto che la questione sociale torna, come nel XIX sec., ad essere tematizzata per mezzo di un ‘vocabolario punitivo’ e non più per mezzo del vocabolario della politica o della richiesta di cambiamento sociale”.


Parole quali “sicurezza” e “degrado” (di cui è piena non solo la legge Minniti) sono, in questo senso, molto rivelatrici. La legge non fa che tradurre e alimentare, in un circolo vizioso, la percezione comune per la quale migranti, rifugiati, rom, senzatetto, marginali sarebbero importatori di degrado, insicurezza, disordine sociale.


È un circolo vizioso micidiale. Basta considerare lo stato di abbandono nel quale sono gettati/e numerosi/e richiedenti-asilo, che pure dovrebbero essere oggetto di protezione particolare: privati/e di fatto perfino del diritto di sfamarsi e di avere un tetto sulla testa, in molti casi vanno a raggiungere la schiera dei senza-dimora, cosa che a sua volta fa gridare allo scandalo i difensori del decoro urbano e diviene pretesto per leggi e ordinanze persecutorie e liberticide, nonché per campagne allarmistiche intorno al tema dell’insicurezza, uno dei più insistenti nel discorso pubblico .


Sono ormai diversi anni che in Italia si è determinato un certo consenso tra destra e sinistra “moderata” intorno alla stigmatizzazione delle più varie categorie di marginalizzati/e, al mito dell’insicurezza, al discorso e alle pratiche sicuritarie.


La stessa legge Minniti è in perfetta continuità con le politiche del vecchio centro-sinistra, che a suo tempo contribuì, con leggi inique, pacchetti-sicurezza, campagne allarmistiche, retoriche sicuritarie, ad alimentare quel che definimmo “razzismo democratico” e che altri (per es. Slavoj Žižek) chiamarono, altrettanto ironicamente, razzismo “ragionevole” o “rispettabile”. Apoteosi perfetta di questa tendenza è la legalizzazione delle “ronde”: anch’essa condivisa a suo tempo da alcuni esponenti del centro-sinistra.


Lo schema ideologico e narrativo (mi riferisco al ruolo dei media) che fa perno sulle antitesi-chiave sicurezza/insicurezza, decoro/degrado è simmetrico o contiguo a quello che s’incentra sulla locuzione ingannevole di “guerra tra poveri”, cara alla sinistra, più che alla destra: ingannevole soprattutto perché, solo in apparenza non-razzista, rappresenta aggressori e aggrediti come vittime simmetriche.


“Guerra tra poveri” è la formula magica che permette di eludere la dialettica tra le dimensioni istituzionale, politica, mediatica e sempre più spesso anche “popolare”, che di solito caratterizza il razzismo, non solo quello odierno. Finendo così per fare dei poveri “in guerra tra loro” gli attori unici o principali della scena razzista; oppure, all’opposto, per minimizzare le manifestazioni di xenofobia o di vero e proprio razzismo, se compiute da soggetti subalterni. 


E non solo. Il più delle volte si viene a scoprire, più o meno tardivamente, che a manovrare quella che la sinistra “moderata” è solita definire “guerra tra poveri” sono gruppi neofascisti (e neonazisti) quali Forza Nuova e Casa Pound, oggi.


Non si contano i casi di famiglie “non autoctone”, assegnatarie di modesti alloggi popolari, costrette a rinunciare e a fuggire da piccole folle inferocite, di solito guidate e/o aizzate dai fascisti del Terzo millennio.

La prospettiva che si profila oggi, grazie alla presenza di un governo a dir poco fascistoide, è quella del rafforzamento delle tendenze e iniziative di stampo razzista che ho tratteggiato. E’ auspicabile che finalmente la sinistra, anche quella “moderata”, prenda coscienza del valore strategico dell’antirazzismo militante.    



di ANNAMARIA RIVERA

da: comune-info.net - 24 nov. 2022

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