top of page

Il razzismo e l’ambiente

c4e0eb_244c3fe04efb43dfbce05525928c403a_mv2.jpg

Neue Fabrik

Nov 2, 2023

Esiste un tipo particolare di razzismo collegato all’ambiente. Questo accade «quando le leggi consentono l’esistenza o addirittura creano zone dove non ci sono servizi, dove l’aria, l’acqua, il suolo sono inquinati»
Intervista di GIORGIO VINCENZI a FRANCESCA ROSIGNOLI

Intervista

con FRANCESCA ROSIGNOLI


Nel nostro Paese le disuguaglianze ambientali si manifestano a livello di categorie sociali svantaggiate più che a livello razziale


a cura di

Giorgio Vincenzi


2 novembre 2023

Esiste un tipo particolare di razzismo collegato all’ambiente. Questo accade «quando le leggi consentono l’esistenza o addirittura creano zone dove non ci sono servizi, dove l’aria, l’acqua, il suolo sono inquinati», spiega Francesca Rosignoli, Postdoc presso il dipartimento di diritto pubblico all’Università "Rovira i Virgili" di Tarragona-Spagna. «Ma anche zone dove si concentrano la maggior parte degli impianti – siano essi di smaltimento dei rifiuti, energetici o di qualsiasi altro tipo purché inquinanti – che sono pericolosi per la salute umana dei residenti. Nel caso del razzismo ambientale, i residenti di queste zone di sacrificio sono per lo più persone di colore o appartenenti a minoranze etniche».


Rosignoli, ci può raccontare come questo avviene?

Un esempio emblematico è un caso verificatosi nella Contea di Dickson, nel Tennessee, negli Stati Uniti. La storia riguarda gli abitanti di colore, e in particolare la famiglia Holt, residenti nei pressi di una discarica abusiva rilevata e poi gestita dalla Contea di Dickson. Lo sversamento incontrollato di fusti di solventi di rifiuti industriali da parte delle industrie locali a partire dal 1968 aveva contaminato gran parte dell’acqua proveniente da pozzi privati dai quali si approvvigionavano di acqua potabile più di 1400 persone. Il caso ha voluto che Harry Holt, un contadino di colore, possedesse un terreno proprio a 150 metri da quella discarica e dal pozzo privato più vicino ad essa. La famiglia Holt, e non solo, sollecitò più volte l’Environmental protection agency (Epa) di esprimersi sulla qualità dell’acqua proveniente da quel pozzo. E mentre nel 1991 l’Epa rassicurava la famiglia Holt e tutte le famiglie di colore residenti nei pressi della discarica che i loro pozzi erano sicuri, inviava lettere alle famiglie “bianche” in cui le esortava a rifornirsi di acqua potabile dalla rete idrica municipale. L’Epa aveva già documentato che il tricloroetilene, un composto cancerogeno, aveva contaminato i pozzi della famiglia Holt nel 1988, senza però comunicarglielo.


Come finì la vicenda della famiglia Holt?

Ignari del pericolo, i residenti di colore hanno continuato a usare l’acqua potabile del pozzo privato della famiglia Holt con il risultato che ad Harry Holt fu diagnosticato un cancro alla prostata e un cancro alle ossa a seguito del quale morì nel 2007, a sua moglie Beatrice Holt furono diagnosticati polipi cervicali, alla loro figlia Sheila fu diagnosticato un cancro al seno e tutti i loro vicini ebbero almeno un membro della famiglia con il cancro. Non a caso, un controllo dell’Epa avvenuto nel 2000 appurò che l’acqua del pozzo della famiglia Holt presentava un livello di contaminazione 24 volte superiore al livello massimo consentito dalla legge.


Anche in Italia esistono, o sono esistiti, casi di razzismo ambientale?

Mi sono posta questa domanda con alcuni colleghi con cui ho avuto il privilegio di lavorare in questi anni, in particolare con il professor Fabio Perocco, sociologo esperto di razzismo, attualmente professore associato presso l’Università Cà Foscari di Venezia. Da quanto ho potuto osservare è difficile dare una risposta a questa domanda per una carenza di metodo.


Cosa intende?

Non sempre le minoranze etniche nel nostro Paese sono effettivamente rappresentate nel sistema statistico nazionale. Mi riferisco in particolare alle popolazioni Rom, che pure, nella maggior parte dei casi, risiedono spesso nei pressi di discariche abusive e non. Queste popolazioni non sono tuttavia censite ed è quindi pressoché impossibile documentare casi di razzismo ambientale utilizzando un metodo quantitativo, ovvero usando i dati Istat. Studi limitati a singoli casi hanno trovato alcune rispondenze attraverso metodi alternativi, tra cui le interviste sul posto, ma restano casi isolati, lontani dal divenire evidenze scientifiche consolidate. Il riscontro empirico è dunque limitato e non ci consente, ancora, di dimostrare l’esistenza del razzismo ambientale in Italia.


Ma ci sono altre forme di discriminazione ambientale?

Nel nostro Paese si può parlare di “razzializzazione” e cioè ogni forma di discriminazione che avviene in ragione dell’appartenenza a una classe sociale o sulla base di fattori identitari come il genere, la cultura, la religione, eccetera. In questo senso, nel nostro Paese sono state documentate forme di disuguaglianze ambientali basate sul genere e sull’appartenenza a determinate categorie sociali svantaggiate. A tal proposito vi sono gli studi “Sentieri” curati tra gli altri da Roberto Pasetto, ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità, e gli studi di Anna Rita Germani, professoressa associata alla Sapienza di Roma, con cui ho lavorato insieme a Marco Rao, ricercatore presso Enea, per verificare il nesso razza, ambiente, salute in Italia.


Il risultato di quest’ultimi studi?

Lo studio dal titolo “An Environmental Justice Indicator for Managing Environmental Risk in the Italian Provinces” propone un metodo per sviluppare un indicatore aggregato di giustizia ambientale: Environmental Justice Adjusted Mazziotta-Pareto Indicator, Ampi. Questo indicatore aggregato mette in relazione gli indicatori sulla qualità dell’aria con le caratteristiche demografiche e socioeconomiche della popolazione al fine di valutare il livello di giustizia ambientale nelle province italiane. Come dimostrato dallo studio, sebbene vi siano limiti per quanto riguarda l’accessibilità dei dati soprattutto per alcune province italiane, è possibile affermare che nel nostro Paese le disuguaglianze ambientali si manifestano a livello di categorie sociali svantaggiate più che a livello razziale, ma non è ancora possibile identificare quale sia il fattore sociale prevalente: età, genere, reddito, ecc.


Quindi cosa emerge?

Ciò che emerge è il ritratto di un Paese profondamente eterogeneo con disuguaglianze ambientali significative non solo tra province di regioni diverse, ma anche tra province all’interno della stessa regione.


Nel volume “Razzismo, Ambiente, Salute. Razzismo ambientale e disuguaglianze di salute” (edizioni PM) curato anche da lei si legge che l’ultima frontiera del “razzismo ambientale” è legata al cambiamento climatico. Cosa s’intende?

Nel libro, curato nel 2022 con il prof. Fabio Perocco, si afferma che la giustizia ambientale è un paradigma necessario per invertire la rotta e guardare al futuro cercando di impedire la ripetizione e il mantenimento di certi modelli “malsani” che hanno generato disuguaglianze ambientali. Questo sguardo al futuro non può non considerare gli effetti del cambiamento climatico che incidono profondamente non solo nell’inasprimento delle disuguaglianze ambientali preesistenti, ma anche nella creazione di nuove disuguaglianze ambientali.


Un esempio di disuguaglianza ambientale?

Un esempio classico di questo fenomeno ci riporta ancora una volta negli Stati Uniti, dove non a caso è stato coniato il termine razzismo ambientale. Mi riferisco in particolare al disastro dell’uragano Katrina del 2005 a New Orleans. Le vittime del disastro sono state prevalentemente persone di colore e persone anziane. Oltre alla preesistente disuguaglianza razziale che ha visto da sempre nella gente di colore persone solitamente a basso reddito, vulnerabili e maggiormente esposte a rischi ambientali, si è aggiunta dunque una nuova forma di disuguaglianza ambientale che potremmo definire delle persone a bassa mobilità. Al di là del contesto statunitense, un caso estremo di persone a bassa mobilità riguarda le cosiddette trapped populations ovvero quella parte di popolazione talmente vulnerabile per motivi demografici e socioeconomici che non ha le risorse necessarie per migrare a seguito di disastri ambientali e rimane pertanto “intrappolata” in luoghi divenuti ormai inabitabili. Penso per esempio ai tanti abitanti rimasti “intrappolati” in alcune Isole del Pacifico ormai quasi sommerse, ma ci sono tanti altri esempi di trapped populations citati nel Report Foresight, Migration and Global Environmental Change del 2011 nel quale, per la prima volta, è stata usata e definita questa espressione.



GIORGIO VINCENZI

fonte: ilmanifesto.it - 2 nov. 2023

bottom of page