Neue Fabrik
Jan 28, 2025
Intervista con lo storico ENZO TRAVERSO, a cura di Elias Feroz. Negli anni '80, le istituzioni tedesche iniziarono a confrontarsi seriamente con il passato del loro Paese. Le reazioni tedesche alla distruzione di Gaza dimostrano che non sono riusciti a trarre le giuste lezioni.
di Elias Feroz / Enzo Traverso
27 Gennaio 2025
Dopo oltre quindici mesi, la guerra in Palestina ha finalmente raggiunto una pur limitata pausa – che si spera sia seguita da un cessate il fuoco permanente nei prossimi mesi. La distruzione a Gaza è di dimensioni senza precedenti: secondo un recente rapporto del Guardian, quasi 50.000 gazesi – circa il 2% della popolazione – sono stati uccisi, altri 100.000 sono stati feriti, molti con lesioni debilitanti. Circa il 90% della popolazione è stata sfollata e la maggior parte non ha un posto dove tornare, dato che quasi due terzi degli edifici nella Striscia di Gaza sono danneggiati o distrutti.
Durante la guerra, due paesi in particolare si sono distinti per il loro sostegno incondizionato a Israele: il suo più antico sostenitore, gli Stati uniti, ma anche la Germania. Il governo di Berlino ha spesso invocato una distintiva Staatsräson («ragion di Stato»), basata sulla responsabilità storica dei tedeschi verso l’Olocausto, per rifiutare di condannare o almeno fermare il sostegno militare a Israele. Ma questo, insieme al fatto che molti credibili osservatori internazionali abbiano accusato Israele di genocidio, ha spinto milioni di persone nel paese e nel mondo a chiedersi se la Germania avesse davvero fatto i conti con il proprio passato oscuro in modo approfondito e significativo.
Enzo Traverso, storico dell’Europa contemporanea, è noto per le sue ricerche su temi critici come la guerra, il fascismo, il genocidio, la rivoluzione e la memoria collettiva. Il suo ultimo lavoro, Gaza davanti alla storia, esamina quella guerra come una combinazione di eredità coloniali e crisi umanitarie. Nel libro critica anche la strumentalizzazione della memoria dell’Olocausto – in particolare da parte della Germania – e ne discute il passaggio da lezione universale contro l’oppressione a narrazione utilizzata per giustificare il genocidio attuale. In questa intervista discute con Jacobin del comportamento dello Stato tedesco dopo l’inizio della guerra a Gaza e di quali lezioni trarre per sviluppare una politica della memoria davvero universalista e internazionalista.
Il governo tedesco ribadisce spesso il suo impegno nei confronti del diritto internazionale, ma raramente riconosce le violazioni del diritto internazionale contro i palestinesi, nonostante le denunce di numerose organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International. Come spieghi quest’ambivalenza?
La risposta del governo tedesco alla guerra e al genocidio di Gaza non è del tutto sorprendente. È in linea con le politiche di memoria che la Germania ha perseguito per molti anni. In questo contesto, la crisi di Gaza funge da test rivelatore, evidenziando un preoccupante cambiamento nel modo in cui la memoria dell’Olocausto viene affrontata inficiando il lavoro esemplare che la Germania ha fatto per diversi decenni nell’affrontare e fare i conti con il proprio passato. Non lo dico da osservatore distaccato, ma da italiano – da un paese che non è riuscito a riconoscere pienamente o ad assumersi la responsabilità del proprio passato fascista e coloniale. Come italiano, ho spesso guardato alla Germania, non necessariamente come a un modello perfetto, ma come a un paese che è riuscito ad affrontare e a confrontarsi con la propria storia come l’Italia non è riuscita a fare.
A metà degli anni Ottanta, la Germania ha intrapreso un difficile e doloroso processo di ripensamento del proprio passato. Per almeno due generazioni, la memoria dei crimini nazisti è diventata una pietra miliare della coscienza storica tedesca, e ho visto questo come un enorme passo avanti. La Germania è riuscita a ridefinire il proprio concetto di cittadinanza, passando da un’identità fondata su radici puramente etniche a una comunità politica che includeva tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro origini o convinzioni etniche. Questo notevole risultato è stato possibile in gran parte, se non soprattutto, grazie al lavoro della memoria dell’Olocausto.
Quando pensi che sia avvenuto questo cambiamento?
Queste premesse erano presenti in gran parte già al tempo della creazione della Repubblica federale tedesca nel 1949. Ritengo che questo cambiamento sia avvenuto progressivamente, in quanto i semi di sono stati incorporati nella memoria dell’Olocausto fin dall’inizio. Alcune delle contraddizioni insite in questo sviluppo possono essere ricondotte a momenti come la critica di Jürgen Habermas a Ernst Nolte, che sosteneva che l’integrazione della Germania nell’Occidente fosse stata raggiunta tramite la memoria di Auschwitz. Questo allineamento della memoria dell’Olocausto ai valori occidentali ha posto le basi per il solido sostegno della Germania a Israele.
Queste differenze non erano molto evidenti negli anni Cinquanta, durante le discussioni sulle leggi di risarcimento per le vittime ebree del regime nazista, ma le premesse di fondo erano già presenti. Al momento della svolta storica, il confronto era tra una Germania che cercava di riconoscere l’Olocausto e i crimini nazisti come pietra miliare della coscienza storica tedesca e un’altra che privilegiava chiaramente un approccio apologetico del passato nazista. In questo contesto, era chiaro che Habermas doveva essere sostenuto, soprattutto contro Nolte e il revisionismo tedesco. Per molti anni, questi pericoli sono sembrati relativamente contenuti, apparendo marginali rispetto ai significativi passi avanti compiuti dalla Germania nell’avanzamento dei diritti democratici. Ora, però, ci troviamo in una situazione paradossale. La Germania, che si è evoluta in una nazione multietnica, multiculturale e multireligiosa, richiede un sostegno incondizionato a Israele da parte di tutti i suoi cittadini, compresi quelli di origine postcoloniale e palestinese. Questo sviluppo potrebbe essere visto come una conseguenza ironica del precedente allineamento della memoria dell’Olocausto all’identità occidentale.
Alla fine dello scorso anno, la Germania ha espresso dubbi sulla possibilità di applicare il mandato di arresto della Corte penale internazionale nei confronti di Benjamin Netanyahu in caso di visita nel paese. In che modo questa esitazione riflette la tensione tra la responsabilità storica della Germania per l’Olocausto e il suo impegno per il diritto internazionale?
Credo che la Germania del dopoguerra, come molti altri paesi europei, abbia sviluppato una memoria dell’Olocausto e dei crimini nazisti che spesso ha trascurato o marginalizzato il lavoro necessario nell’affrontare la storia coloniale. L’attenzione all’Olocausto, pur importante, ha messo in ombra o minimizzato la memoria del colonialismo, creando una tensione che è diventata più evidente dopo il 7 ottobre.
Questa politica della memoria «aporetica» è la premessa per ignorare la dimensione coloniale dell’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania. Nel discorso tedesco e dell’Europa occidentale, Netanyahu è raffigurato come il rappresentante degli ebrei in quanto vittime. Pertanto, i palestinesi non sono un popolo diseredato, ma una nuova incarnazione dell’antisemitismo. Questo è l’argomento alla base della decisione tedesca (seguita da altri leader occidentali) di non attuare il mandato di arresto della Corte penale internazionale.
Ignorare il mandato della Corte penale internazionale comporta un danno alla reputazione o addirittura conseguenze legali per questi paesi, soprattutto alla luce delle crescenti pressioni all’adesione al diritto internazionale?
Non sono un esperto di diritto, ma posso dire che, dopo gli Stati uniti, che forniscono il principale sostegno finanziario e militare a Israele, la Germania è il secondo più importante sostenitore militare di Israele. Senza il sostegno degli Stati uniti, non sarebbero stati in grado di portare a termine la distruzione di Gaza e l’uccisione di decine di migliaia di palestinesi. Ma dopo gli Stati uniti, la Germania svolge un ruolo cruciale nel fornirgli sostegno militare.
Ciò significa che la Germania è oggi complice del genocidio di Gaza, proprio come Francia, Italia e Regno unito. Tuttavia, il coinvolgimento della Germania è particolarmente significativo, sia per il suo ruolo che per il suo peso simbolico. Agli occhi della maggior parte della popolazione mondiale, ciò significa che la memoria dell’Olocausto è diventata uno strumento delle politiche coloniali: mentre le vittime ebree del nazismo devono essere commemorate, le vite dei palestinesi possono essere cancellate.
Come storico italiano che insegna negli Stati uniti, come pensi che il pieno sostegno della Germania a Israele, all’interno della Staatsräson, influisca sulla sua immagine internazionale?
Innanzitutto, credo che l’immagine internazionale di Israele sia cambiata in modo irreversibile. Per l’opinione pubblica del cosiddetto Sud globale, Israele ha a lungo simboleggiato l’oppressione, il colonialismo e ora il genocidio. Tuttavia, quest’immagine è cambiata anche in Occidente. Esiste ora una chiara discrepanza tra la posizione ufficiale dell’establishment politico occidentale e il crescente scetticismo dell’opinione pubblica nei confronti della politica di sostegno incondizionato a Israele.
Il concetto di Staatsräson è molto ambiguo. Nel mio saggio, ho tracciato la sua genealogia dalla prima Europa moderna fino ai giorni nostri. Lo Staatsräson rivela una contraddizione all’interno dello Stato di diritto: la legge può essere messa in discussione, negata o trasgredita a causa di un dovere superiore – lo Staatsräson. In questo caso, tale dovere è la difesa incondizionata di Israele, anche se Israele sta chiaramente commettendo crimini di guerra o genocidi. Il significato implicito è: sì, Israele sta commettendo crimini di guerra, opprimendo i palestinesi e probabilmente perpetrando un genocidio, ma lo accettiamo in nome di un interesse statale superiore.
Quali implicazioni hanno gli eventi dell’ultimo anno e mezzo per il futuro della politica della memoria, sia in Germania che più in generale?
Quanto sta accadendo a Gaza ci costringe a ripensare il nostro approccio alla politica della memoria. Dobbiamo articolare un rapporto più equilibrato tra le diverse dimensioni della memoria collettiva. Questo è ciò che intendevo poc’anzi. Dobbiamo includere non solo la memoria del fascismo, dei crimini nazisti e dell’Olocausto, ma anche quella dell’imperialismo e del colonialismo, che sono anch’essi aspetti critici del passato dell’Europa. Non possiamo permetterci di concentrarci esclusivamente su un aspetto della memoria collettiva trascurando gli altri.
Ciò è particolarmente importante in quanto l’Unione europea è diventata regno d’immigrazione. Milioni di immigrati, la maggior parte dei quali di origine postcoloniale, fanno ormai parte dell’Europa. Questo vale per tutti i paesi europei, compresa l’Italia, che storicamente è stata sia un paese di emigrazione sia, da decenni, un paese di immigrazione. Le nostre politiche della memoria in molti casi sono state semplicemente un corollario alla retorica dei diritti umani, spesso a giustificazione di politiche imperiali e neocoloniali. È ora di porre fine a tutto questo.
Il concetto di «colpa storica» dev’essere riconsiderato, visto che spesso porta alla generalizzazione e alla mancanza di sfumature?
Il concetto di colpa storica ha valore se contestualizzato. Non esiste una colpa eterna, immutabile, trans-storica. Potremmo fare riferimento al famoso dibattito che si svolse in Germania nel 1945 dopo la pubblicazione del saggio di Karl Jaspers La questione della colpa tedesca. Jaspers distingueva tra diversi tipi di colpa: colpa penale, colpa politica, colpa morale e colpa metafisica. Il concetto di colpa deve essere sfumato, ripensato e ridefinito.
Più che di colpa storica, parlerei di responsabilità storica. Sono nato più di vent’anni dopo il genocidio dell’Etiopia perpetrato dal fascismo italiano nel 1935-36. Non sono colpevole di quel genocidio fascista, ma credo che sarei colpevole se, come cittadino italiano, ignorassi il passato del mio paese e rifiutassi di assumermi le responsabilità storiche a esso legate. Come cittadino italiano responsabile, non posso ignorare i crimini che appartengono alla storia del mio paese.
In questo senso, il rapporto tra colpa e responsabilità è dialettico. Esiste una responsabilità storica che dovrebbe guidare politiche estere responsabili. Una politica estera responsabile oggi significherebbe, innanzitutto, fermare il genocidio a Gaza.
Critichi come revisionismo storico l’equiparazione dei palestinesi ai nazisti, comune ad alcune parti dell’establishment politico e mediatico tedesco. Eppure, nel tuo libro, scrivi che alcune azioni dell’esercito israeliano (Idf) ricordano quelle delle Schutzstaffel (Ss). Non sono forse controproducenti queste descrizioni, che rafforzano proprio il nodo tra memoria e storia che vorresti risolvere?
Nel mio libro scrivo che il concetto di genocidio è un concetto giuridico. È un concetto legalistico. Sottolineo anche che, come storico, a volte ho molti dubbi e devo usare cautela prima di usare questo termine, perché non appartiene alle scienze sociali o all’erudizione storica. Esiste una definizione normativa di genocidio, che è una definizione legale. Credo che questa definizione corrisponda perfettamente alla situazione odierna di Gaza. Tuttavia, i genocidi non sono tutti equivalenti o intercambiabili. Gaza non è Auschwitz – per le sue dimensioni, le sue motivazioni, la sua fenomenologia e così via – questo è ovvio e molto chiaro.
Molte persone (soprattutto in Germania) pensano che parlare di genocidio di Gaza significhi «relativizzare» l’Olocausto. Questo è vergognoso. Rivendicare la memoria di un genocidio per giustificarne un altro è moralmente e politicamente inaccettabile. La memoria di Auschwitz dovrebbe essere mobilitata per impedire nuovi genocidi, non per giustificarli.
I confronti storici non sono analogie storiche; ci aiutano a interpretare il presente. Naturalmente, le immagini non solo delle Ss ma anche dei soldati della Wehrmacht che perpetrano crimini sul fronte orientale durante la Seconda guerra mondiale possono essere paragonate ai crimini di guerra commessi dall’Idf oggi a Gaza e in Cisgiordania.
Le centinaia di video e podcast che mostrano i soldati israeliani sorridere accanto a palestinesi umiliati, o accanto ai cadaveri di vittime palestinesi, o che prendono di mira i civili, ricordano le immagini dei crimini di guerra e di genocidio commessi dai soldati tedeschi durante la Seconda guerra mondiale; dai soldati italiani in Etiopia, nei Balcani e in Grecia; e dall’esercito francese in Algeria alla fine degli anni Cinquanta.
Credo che questi confronti evidenzino chiaramente le affinità fenomenologiche che esistono in tutti i crimini imperiali coloniali e fascisti. È fondamentale fare questi confronti perché servono da monito, e questo monito è salutare.
Qualcuno potrebbe obiettare che i tuoi paragoni storici sono offensivi, soprattutto per l’enfasi posta sull’unicità delle atrocità dell’Olocausto. Come risponderesti ai critici che ritengono quei paragoni inappropriati o problematici?
Dobbiamo essere molto chiari: non paragono Gaza all’Olocausto. Non sostengo che ciò che sta accadendo oggi a Gaza sia una ripetizione dell’Olocausto. Dico semplicemente che quello che sta accadendo oggi a Gaza è un genocidio. L’Olocausto è stato un genocidio. Lo sterminio degli armeni è stato un genocidio. Anche lo sterminio degli Herero è stato un genocidio. I genocidi possono variare notevolmente nella loro fenomenologia, nei mezzi di distruzione e nelle popolazioni prese di mira.
Naturalmente, dobbiamo riconoscere l’esistenza di tropi antisemiti, che sostengono che gli ebrei si sono sempre ritratti come vittime e ora si comportano esattamente come i nazisti. Questo è un tipico argomento antisemita, oltre che apologetico. Il genocidio di Gaza, ad esempio, viene spesso utilizzato per banalizzare il nazismo e i suoi crimini. Dobbiamo rifiutare questa demagogia.
Tuttavia, non possiamo censurare o trascurare il genocidio a Gaza solo perché temiamo questo tipo di reazione. È inaccettabile. Non possiamo dire ai palestinesi: ci dispiace, ma non possiamo agire contro la violenza e l’oppressione che state subendo, perché questo potrebbe diventare il pretesto per riesumare vecchi tropi antisemiti. La lotta contro l’antisemitismo non è incompatibile con la lotta contro l’oppressione coloniale della Palestina.
Israele fa parte della comunità internazionale e deve essere giudicato secondo gli stessi criteri politici e legali applicati a tutti gli Stati e i membri di tale comunità. Se non riusciamo a farlo, rischiamo di creare una situazione perversa in cui l’antisemitismo viene indirettamente legittimato.
Se gli europei, soprattutto i tedeschi, sentono il dovere di difendere incondizionatamente Israele per combattere l’antisemitismo e il razzismo, la conclusione che molti potrebbero trarre è che l’antisemitismo non è poi così male. Se criticare le azioni di Israele a Gaza viene etichettato come antisemitismo, la logica conseguenza sarebbe che, per fermare un genocidio, bisogna essere antisemiti.
La premessa alla base dell’intero discorso di sostegno incondizionato a Israele, a prescindere dalle circostanze, è del tutto irrazionale. È il risultato di una strana idea che presuppone l’innocenza ontologica di Israele. In passato, un pregiudizio antisemita spiegava che gli ebrei erano dannosi per natura, non per i loro comportamenti ma semplicemente per la loro esistenza; oggi un discorso altrettanto sciocco e irresponsabile pretende che gli ebrei siano innocenti o benefici per natura: sono vittime e non possono diventare carnefici. È la versione rovesciata di un vecchio pregiudizio oscurantista.
Sostieni che i palestinesi stiano pagando il prezzo della colpa storica dell’Europa nei confronti degli ebrei. In che modo questa dinamica influisce sulla posizione morale dell’Europa e cosa rivela sulla continuità – o sul fallimento – dei suoi impegni etici?
Ho scritto diversi saggi per spiegare che la forma più rilevante e significativa di razzismo in Europa oggi non è più l’antisemitismo, ma l’islamofobia. In Italia, il capo del governo, Giorgia Meloni, proviene da un movimento postfascista. Prima di diventare primo ministro, era orgogliosa delle sue radici politiche in questa tradizione, che include il regime fascista che promulgò leggi antisemite nel 1938.
Allo stesso modo, in Francia, Marine Le Pen rappresenta un’eredità politica antisemita. Tuttavia, oggi movimenti come l’Alternative für Deutschland (AfD) di estrema destra in Germania non promuovono apertamente l’antisemitismo nella loro retorica ufficiale e mantengono forti relazioni con Israele. Allo stesso tempo, non possiamo ignorare l’aumento dell’islamofobia nel mondo occidentale, che prende di mira i rifugiati e gli immigrati, in particolare i musulmani, inquadrandoli come una minaccia all’identità «ebraico-cristiana» dell’Europa.
Questo cambiamento nelle dinamiche del razzismo significa che l’antisemitismo non è più la forma principale di razzismo nell’Europa contemporanea. Nel XXI secolo, il razzismo è stato riconfigurato e concentrarsi esclusivamente sull’antisemitismo rischia di essere usato come pretesto per giustificare politiche islamofobe e razziste.
Dato che la guerra di Gaza fa parte di un conflitto in corso, in che modo la nostra percezione attuale degli eventi modella la cultura della memoria del futuro?
È stato approvato un cessate il fuoco – una tregua temporanea, ma che è ben lontana da una soluzione duratura o pacifica. Questa guerra genocida ha irrimediabilmente offuscato l’immagine globale di Israele, trasformandolo da una nazione un tempo vista come risposta all’Olocausto, in uno Stato oppressivo e coloniale, che ricorda il Sudafrica dell’Apartheid. Oggi la causa palestinese è diventata centrale per chiunque si impegni per i principi di libertà, giustizia e uguaglianza, anche se questa causa non può essere identificata né con Hamas né con l’Autorità Palestinese, completamente screditata.
Nel dibattito tedesco, l’Olocausto è al centro della politica della memoria a causa della responsabilità storica della Germania (e dell’Austria), mentre la Nakba – sebbene centrale per i palestinesi – è ampiamente ignorata. Questa asimmetria si riflette anche nelle prospettive, in quanto gli israeliani ricordano l’Olocausto e i palestinesi la Nakba, spesso senza incorporare le esperienze dell’altra parte. Come si potrebbe sviluppare una politica della memoria nel mondo di lingua tedesca che colleghi queste esperienze storiche, renda visibile la sofferenza di entrambe le parti e permetta il dialogo senza mettere in discussione le rispettive esperienze di sofferenza o esacerbare le tensioni politiche?
La Germania è responsabile dell’Olocausto, non della Nakba. Questa è la ragione dell’asimmetria, e questo spiega perché negli anni del dopoguerra la coscienza storica e la memoria collettiva della Repubblica federale tedesca siano state costruite intorno all’Olocausto. Oggi, tuttavia, il contesto è cambiato. Da un lato, perché la Germania è diventata una società multietnica e multiculturale che comprende molti cittadini con origini postcoloniali o addirittura palestinesi; dall’altro, perché Israele giustifica le sue politiche oppressive e genocide invocando l’Olocausto e la lotta all’antisemitismo. In una situazione del genere, questa asimmetria non è più accettabile.
Non c’è equivalenza tra l’Olocausto e la Nakba, ma entrambe le tragedie devono essere riconosciute e rispettate. Questa è la premessa necessaria per una proficua politica della memoria, che richiede uguaglianza e comprensione reciproca. Una lotta contro l’antisemitismo basata sulla negazione della Nakba e della sofferenza palestinese non è né etica né efficace.
fonte: jacobinitalia.it - 27 gen. 2025
*Enzo Traverso insegna alla Cornell University.
Storico di fama internazionale, si è occupato a lungo della storia europea tra le due guerre mondiali. Tra i suoi libri più recenti Gaza davanti alla catastrofe (Laterza, 2024) e Rivoluzione, una storia intellettuale (Feltrinelli, 2021).
*Elias Feroz è uno scrittore freelance.
Si occupa, tra l’altro, di razzismo, antisemitismo e islamofobia, nonché di politica e cultura della memoria.