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La storia ignorata delle donne libiche nella lotta anticoloniale

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Neue Fabrik

Aug 23, 2024

Le storie di resistenza e coraggio femminile vanno ben oltre la triste epoca coloniale italiana e trovano eco in tempi più recenti.

di Beatrice Falcucci, Khalifa Abo Khraisse

14 agosto 2024


In Libia il cammino verso la libertĆ  dalla colonizzazione italiana (1911-1943) fu il frutto di un impegno collettivo, che costò i sacrifici di molte persone. Mentre figure come quella del leader guerrigliero Omar al Mukhtar sono ampiamente celebrate, ĆØ importante riconoscere il ruolo svolto dalle donne, spesso trascurato, nella lotta per l’indipendenza.


Nei paesi islamici resistenza politica e sociale, lotta per la libertĆ  e jihad – la lotta cioĆØ contro i nemici dell’islam – si sono spesso mescolati. I mujahidin (combattenti per la libertĆ ) caduti durante la lotta diventano shahid, ā€œmartiriā€, un titolo che ĆØ attribuito dopo la morte a coloro che si ritiene abbiano dimostrato eroismo, distaccandosi dai desideri e gli affetti terreni per sacrificarsi in nome di una causa religiosa o politica.


Nella tradizione cristiana e islamica si riconosce l’esistenza di donne martiri (come sant’Agata o Sumayyah bint Khayyat, la prima martire dell’islam), ma questa categoria riguarda principalmente gli uomini ed ĆØ attribuita da altri uomini.


Durante le lotte per l’indipendenza nei territori colonizzati abitanti in prevalenza da musulmani nell’ottocento e nel novecento, molti caduti ricevettero il titolo di shahid al momento della loro sepoltura. Del resto, succedeva lo stesso ai soldati italiani morti nelle colonie, spesso idealizzati come martiri e ā€œnuovi crociatiā€.


Anche se l’imam Omar al Mukhtar (1858-1931) non fu l’unico shahid della resistenza libica all’invasione italiana, il suo ruolo come guida spirituale e combattente per la libertĆ  lo rese una figura di rilevanza impareggiabile.


Da giovane, Al Mukhtar aveva studiato per diventare guida spirituale e si era impegnato nella lotta contro la colonizzazione francese in Ciad. Il 3 ottobre 1911 l’Italia bombardò Tripoli nel primo atto di quella che sarebbe passata alla storia come la guerra italo-turca. L’esercito ottomano si ritirò e avviò la resistenza dall’entroterra. Il controllo italiano sull’attuale Libia rimase parziale fino alla seconda metĆ  degli anni venti, quando le forze fasciste italiane sotto il comando di Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani risposero alle azioni dei partigiani libici con crescente brutalitĆ . Nelle sue opere lo studioso libico Ali Abdullatif Ahmida ha descritto i bombardamenti serrati che colpirono civili e bestiame, l’avvelenamento dei pozzi e delle fonti, le migliaia di impiccagioni pubbliche, l’uso dei gas tossici, la deportazione di civili e l’allestimento di grandi campi di concentramento. Nel suo Italiani, brava gente? (Neri Pozza 2005), lo storico italiano Angelo Del Boca (* v. nota a pie' pagina) ha paragonato il campo di Suluq (nell’est della Libia) a quello nazista di Auschwitz per la sua brutalitĆ .


La lotta anticoloniale di Al Mukhtar terminò il 16 settembre 1931, quando fu impiccato davanti agli occhi dei più di ventimila prigionieri del campo di Suluq. Aveva 73 anni.



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Nella Libia di oggi la sopravvivenza dell’ideale del martirio ĆØ stata testimoniata anche in tempi recenti, durante la prima (2011) e la seconda guerra civile (2014-2020). Durante questi conflitti le fazioni in guerra hanno fatto ampio riferimento alla narrazione e all’immaginario legato ai martiri, conferendo il titolo solenne di shahid ai propri morti.


La politicizzazione del termine lo ha legato ancora più profondamente a una narrazione dominata da ideali e presenze maschili. Per questo trovare i contributi femminili è un compito impegnativo.


I materiali sul tema negli archivi italiani sono scarsi. La ricercatrice statunitense Katrina Yeaw ha lavorato a lungo sulle registrazioni di interviste a vecchi combattenti della resistenza antitaliana realizzate negli anni settanta, e conservate presso il Centro studi libici di Tripoli. Tra gli intervistati c’era una piccola percentuale di donne, alcune delle quali avevano combattuto. Con il suo lavoro, Yeaw ha portato alla luce storie dimenticate, come quelle delle combattenti Mubruka al Qabtan e Maryam Sa’d al Khashabi, che persero la vita nella localitĆ  di Al Nadid. Accanto alle storie delle combattenti, ci sono i racconti di mogli, madri, figlie e sorelle di mujahidin, che a vario titolo parteciparono alla lotta.


Tuttavia, anche all’interno dell’archivio di Tripoli, questi materiali sono trascurati: in molti casi, le interviste alle donne non sono state trascritte. Nelle interviste con i mujahidin le donne hanno spesso ruoli di incoraggiamento morale per i combattenti maschi.


Nei pochi casi in cui queste storie sono state riconosciute, ĆØ stato grazie a fonti non libiche. La vicenda di Salima bint Maqouas ne ĆØ un buon esempio: madre di quattro figli orfani di padre, durante l’occupazione della Libia Salima fu costretta a cercare lavoro in un campo dell’esercito italiano, dove lavorava come assistente cuoca. Subiva innumerevoli difficoltĆ  e umiliazioni, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando un ufficiale italiano la colpƬ crudelmente sul viso senza motivo.


Il giorno successivo Salima affidò i figli a uno zio a GhadamĆØs, una regione ancora libera dall’occupazione italiana. La sera, mentre preparava la cena per il battaglione italiano, versò discretamente un veleno letale nelle pietanze: le conseguenze furono rapide e fatali, causando la morte di molti soldati italiani. Salima fuggƬ dal campo e si unƬ alle file dei compagni combattenti per la libertĆ , affrontando numerose battaglie.


Quello che sappiamo sulla sua vita lo dobbiamo al suo incontro con il corrispondente di guerra francese Georges RƩmond. Nel libro Aux camps turco-arabes. Notes de route et de guerre en Tripolitaine et en Cyrenaique, pubblicato nel 1913, RƩmond racconta la storia della combattente e di altre dodici donne coraggiose che lei guidava in battaglia. Il volume di RƩmond include una fotografia di Salima scattata da Pol Tristan, corrispondente di guerra per Le Petit Marseillais, che la ritrae mentre impugna una spada, pronta a combattere.


La sua storia ĆØ raccontata anche nel libro The arabs in Tripoli, pubblicato a Londra nel 1912 dal giornalista Alan Ostler. Ostler fornisce un resoconto dettagliato dei suoi incontri con la combattente libica, testimoniando la sua partecipazione ad alcune battaglie e descrivendone la determinazione e il coraggio. Il corrispondente britannico restò cosƬ impressionato dalla donna tanto da paragonarla a Giovanna d’Arco e alla dea della guerra.


Se le donne libiche dimostrarono coraggio e determinazione nel difendere la loro patria, anche in Italia alcune donne si schierarono apertamente. Fu il caso di Maria Goja: insegnante e attivista socialista, si oppose con tenacia all’invasione italiana della Libia nel 1911, condannandola con durezza sulla stampa e coinvolgendo altre donne nella causa anticoloniale.


Le storie di resistenza e coraggio femminile vanno ben oltre l’epoca di Salima e Goja, e trovano eco in tempi più recenti.

L’attivista per i diritti umani e politici Salwa Bughaighis e l’avvocata Hanan al Barassi, entrambe vittime della guerra civile, sono esempi di donne che hanno combattuto coraggiosamente per la libertĆ  e la giustizia in Libia.

Eppure, le loro storie sono spesso oscurate da narrazioni dominate dagli uomini e legate a virtù marziali, riflettendo una visione limitata di concetti come il sacrificio e la dedizione. Questa concezione trascura la resistenza portata avanti dalle donne e non fa altro che perpetuare gli stereotipi di genere.


Fonte: internazionale.it - 14 agosto 2024


Nota

Negli anni che vanno dall’unitĆ  del nostro Paese alla fine della seconda guerra mondiale si sono verificati molti episodi nei quali gli italiani si sono rivelati capaci di indicibili crudeltĆ . In genere le stragi sono state compiute da Ā«uomini comuniĀ», non particolarmente fanatici, non addestrati alle liquidazioni in massa. Uomini che hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione o perchĆ© persuasi di essere nel giusto eliminando coloro che ritenevano Ā«barbariĀ» o Ā«subumaniĀ».


Angelo Del Boca esamina, in questo libro, gli episodi più efferati, quelli che costituiscono senza dubbio le pagine più buie della nostra storia nazionale: i massacri di intere popolazioni del meridione d’Italia durante la cosiddetta Ā«guerra al brigantaggioĀ»; l’edificazione nell’isola di Nocra, in Eritrea, di un sistema carcerario fra i più mostruosi; le rapine e gli eccidi compiuti in Cina nel corso della lotta ai boxers; le deportazioni in Italia di migliaia di libici dopo la Ā«sanguinosa giornataĀ» di Sciara Sciat; lo schiavismo applicato in Somalia lungo le rive dei grandi fiumi; la creazione nella Sirtica di quindici lager mortiferi per debellare la resistenza di Omar el-MukhtĆ r in Cirenaica; l’impiego in Etiopia dell’iprite e di altre armi chimiche proibite per accellerare la resa delle armate del Negus; lo sterminio di duemila monaci e diaconi nella cittĆ  conventuale di DebrĆ  Libanòs; la consegna ai nazisti, da parte delle autoritĆ  fasciste di Salò, di migliaia di ebrei, votati a sicura morte.


ƈ vero che nell’ultimo secolo e mezzo molti altri popoli si sono macchiati di imprese delittuose, quasi in ogni parte del mondo. Tuttavia, soltanto gli italiani hanno gettato un velo sulle pagine nere della loro storia ricorrendo ossessivamente e puerilmente a uno strumento autoconsolatorio: il mito degli Ā«italiani brava genteĀ», un mito duro a morire che ci vuole Ā«diversiĀ», più tolleranti, più generosi, più gioviali degli altri, e perciò incapaci di atti crudeli.


Con la sua scrittura chiara e documentata, Angelo Del Boca mostra invece come dietro questo paravento protettivo di ostentato e falso buonismo si siano consumati, negli ultimi cent’anni, in Italia, in Europa e nelle colonie d’oltremare, i crimini peggiori, gli eccidi più barbari. Crimini ed eccidi commessi da uomini che non hanno diritto ad alcuna clemenza, tantomeno all’autoassoluzione.


Fonte: neripozza.it

Nella foto di copertina: Prigionieri libici scortati dai soldati italiani a Tripoli, novembre 1911. (Frank Magee, Mirrorpix/Getty Images)

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