top of page

Quanti eravamo?
di RAUL ZIBECHI

c4e0eb_244c3fe04efb43dfbce05525928c403a_mv2.jpg

Neue Fabrik

Oct 7, 2022

Le basi di appoggio dell’EZLN a Nuevo San Gregorio ci hanno mostrato che la resistenza non è per un giorno né per un anno. È un modo di vivere la vita

Raúl Zibechi

07 Ottobre 2022


C’è poco da fare, è un automatismo implacabile. Quando qualcuno ti racconta d’aver partecipato a una manifestazione o a un’assemblea a cui non sei riuscito ad andare, la prima domanda è sempre: quanta gente c’era? Al resto del resoconto, magari si presta anche un po’ d’attenzione. Soprattutto per cortesia. È un tratto indelebile della nostra cultura politica e nessuno nega che i numeri abbiano la loro importanza, ma spesso quella non né la sola informazione utile a capire né la più rilevante. Raúl Zibechi, sulla base del recente incontro con una minuscola comunità zapatista che resiste alle aggressioni di forze molto più numerose e armate, condivide con noi una riflessione: molto raramente l’affermazione dell’autonomia e della dignità dipendono dal numero dei partecipanti. Il discorso vale certamente per il Chiapas ma non può non mettere in discussione anche la superficialità con cui si guarda a questo aspetto nelle lotte di questa parte del mondo


Nelle città, quando andiamo alle manifestazioni, uno dei commenti abituali riguarda il numero di persone che hanno partecipato. Questo atteggiamento fa parte della nostra cultura politica, quella bianca e urbana della sinistra tradizionale, che poi è stata assorbita da quasi tutte le organizzazioni. Crediamo che più persone parteciperanno, più forte sarà il movimento e più probabile sarà che le nostre rivendicazioni vengano ascoltate.

In una certa misura, le cose sono senza dubbio così. Quando si tratta di rivendicazioni nei confronti delle autorità, più potente sarà la pressione, maggiori saranno le possibilità che vengano ascoltate. Tuttavia, la questione del numero lascia un paio di questioni cruciali scoperte.

La prima è che la partecipazione a una manifestazione non è direttamente correlata al comportamento nella vita di tutti i giorni. Molte persone, quando tornano alle loro faccende, continuano a fare esattamente quel che facevano prima, in attesa che i loro rappresentanti trovino soluzioni per soddisfare le loro richieste, tornando così a rivestire il ruolo di spettatori che avevano interrotto per alcune ore.

La seconda è che questa forma di azione collettiva, nella quale siamo coinvolti tutti noi dei movimenti “urbani”, non ottiene mai profonde trasformazioni, poiché continua a porre al centro del discorso le istituzioni statali che, in questa cultura politica, sono il soggetto dell’azione collettiva.

È evidente che con le manifestazioni non è possibile costruire autonomia, né si recuperano i territori dal militarismo e dall’estrattivismo, che stanno distruggendo i nostri paesi e le relazioni sociali esistenti abajo (nella parte della società che sta in basso, ndt). Intendiamoci, le manifestazioni sono legittime e necessarie, però abbiamo bisogno di qualcosa di più, in particolare nei movimenti urbani.

Non molti giorni fa ho trascorso alcune ore con le basi d’appoggio zapatiste a Nuevo San Gregorio, e vorrei evidenziare alcune questioni che mi sembra d’aver imparato da loro e raccontare quanto mi sia sentito messo in discussione dalla loro ostinata resistenza. In primo luogo, lì sono pochissime le famiglie che continuano a resistere (alle aggressioni dei gruppi armati al servizio del governo e degli interessi speculativi estrattivisti, ndt). Sono appena quattro. Negli ultimi mesi, altre due famiglie se ne sono andate. I loro avversari nella zona sono molti di più e sono armati. La condizione di ritrovarsi in poche persone e famiglie non impedisce loro di persistere, né di sostenere l’autonomia o la resistenza. Non sembrano essere sopraffatti per nulla da questa situazione.

In secondo luogo, nel dialogo a cui hanno partecipato la Rete Ajmaq e il Frayba, hanno insistito su qualcosa di molto importante: “Ora siamo più uniti e ci sentiamo più forti di quando eravamo un chingo [espressione idiomatica che significa “un sacco”], ci hanno detto. Questo punto mi sembra centrale. La forza di una lotta non dipende da quante persone partecipano ma dal fatto che ciascuna di esse mantenga l’impegno e la fermezza necessari per persistere in qualsiasi condizione, anche quando tutto è avverso, quando non c’è alcuna prospettiva che la nostra resistenza possa risultare vincente a breve o medio termine.

Nelle città, vediamo spesso che molte persone si ritirano quando le loro richieste non vengono accolte, quando la repressione aumenta o quando semplicemente si stancano. Alcune organizzazioni che sembravano solide e potenti, si indeboliscono rapidamente non appena incontrano difficoltà.

In terzo luogo, credo invece che la vera potenza appaia proprio di fronte alle avversità. Quando veniamo attaccati o restiamo isolati, spesso appare la demoralizzazione. Ecco perché mi sono chiesto, dopo quella visita al villaggio, ma come fanno a tener duro quando tutto è contro di loro? C’è lo Stato, con le sue guardie nazionali e gli eserciti, ci sono le “organizzazioni” parastatali, c’è la criminalità organizzata e, a volte, ci sono persino famiglie di amici ed ex compagni di lotta.

Questo è il punto. Molti movimenti si sentono solidi solo quando sono per le strade a migliaia. Eppure qui c’è un chiaro esempio che è possibile resistere, anche in pochi, nella solitudine più assoluta, perfino quando una semplice visita di solidarietà viene osteggiata e non si sa quando chi è venuto a mostrarla potrà tornare. È un esempio di dignità e integrità umana e politica. Le basi di appoggio dell’EZLN a Nuevo San Gregorio ci hanno mostrato insomma che la resistenza non è per un giorno né per un anno. È un modo di vivere la vita. Non si lotta per ottenere qualcosa di materiale, oppure per ottenere vantaggi personali o collettivi. Ancor meno per avere risultati immediati. La lotta è per rimanere differenti rispetto al capitalismo egemonico. E per la dignità.

Si tratta di una cultura politica differente, che si va formando, ma che mi pare non venga ancora per niente compresa (o assunta) dalla grande maggioranza delle organizzazioni e delle persone. Ci vorrà tempo perché avvenga un cambiamento di questa portata, ma potrebbe accadere che saremo spinti verso quest’altro modo di intendere il modo di organizzarci, di resistere e di cambiare il mondo, trasformando noi stessi.

Quelli descritti sono appena alcuni spunti, qualche idea su ciò che possiamo apprendere da quelle basi d’appoggio e, in particolare, da Nuevo San Gregorio. Certo, non possiamo apprendere un granché, né in modo individuale né collettivo, se non condividiamo, se non siamo dove accadono i fatti. Quel che mi pare certo, però, è che generalmente non abbiamo abbastanza umiltà per riconoscere che dobbiamo imparare da coloro che abajo resistono.


Fonte: “La autonomía y la dignidad no dependen del número”, in La Jornada Traduzione a cura di Camminardomandando

bottom of page