Neue Fabrik
Aug 26, 2022
L’accelerazione delle nostre vite non è una fatalità, né risponde unicamente a fragilità individuali. La sua spiegazione andrebbe piuttosto cercata nelle condizioni imposte dal nostro sistema economico, che non sono affatto le solo possibili
Una fretta del diavolo
26 Agosto 2022
Capita, a volte, che un bel tuffo nel passato possa aiutare a renderci conto meglio e a provare a comprendere una volta per tutte qualcosa. Per esempio che l’accelerazione che viene imposta ai ritmi delle nostre esistenze non è affatto una fatalità, né un fenomeno che riguarda solo noi (e che possa dunque essere spiegato e affrontato in modo esclusivamente individuale). Quella vorticosa accelerazione non dipende, insomma, solo dai nostri errori nell’organizzare le giornate, dalla mancanza di carattere o da altre nostre vulnerabilità. Viviamo ogni giorno più in fretta a causa della richiesta costante della nostra attenzione, e siamo sempre più impazienti per via della cultura dell’immediatezza in cui siamo inseriti. Non sarà mica un caso, in fin dei conti, che – come ricorda in questo bell’articolo Sonsoles Hernández Barbosa – la nascita del sistema che domina la vita e la cultura politica in cui viviamo ancora oggi sia consustanziale a quell’artefatto che serviva a chiudere il tempo in un oggetto demoniaco chiamato orologio
Viviamo sospinti e frastornati dalla fretta. Afflitti anche da sindromi organizzate in concetti come iperattività, disturbo da deficit di attenzione, dipendenze, stress, burnout, stanchezza cronica. Cosa c’è dietro questo numero crescente di disturbi mentali? Lo studio della cultura materiale del presente e del passato ci permette di pensare a come gli oggetti che accompagnano la nostra quotidianità condizionino la nostra psicologia, i comportamenti e il modo in cui ci mettiamo in relazione con il mondo. È probabile che l’esempio più evidente siano gli schermi. L’utilizzo generalizzato di tablet e smartphone, oltre a generare dipendenze, ci tiene in costante stato di allerta, con notifiche che ci segnalano cambiamenti di stato, favorendo un consumo accelerato dei contenuti e spingendoci a controllare varie applicazioni, o perfino più schermi simultaneamente. In Inghilterra, il quotidiano britannico The Guardian ha fatto notare che dopo il confinamento dei primi mesi della pandemia, gli studenti non riuscivano più ad abituarsi alle lezioni tradizionali. I contenuti a cui accedevano in streaming a una velocità di 1,5 diventavano lenti nelle solite lezioni teoriche. La velocità è diventata un elemento in più che compone la nostra vita quotidiana. Viviamo più in fretta, a causa della richiesta costante della nostra attenzione, e siamo sempre più impazienti, a causa della cultura dell’immediatezza in cui siamo inseriti.
Già quasi mezzo secolo fa, una delle scrittrici che meglio ha saputo cogliere i colpi di scena della vita quotidiana nella lingua castigliana, Carmen Martín Gaite, avvertiva di questa malattia della fretta e, in particolare, del pericolo che comporta la comprensione del fatto che questo stato di velocità routinaria potesse naturalizzarsi: “E quando vediamo che le stesse cose accadono a tutti, non ci fermiamo a pensare perché si verificano, o se potrebbero smettere di accadere. Ci abbandoniamo all’inerzia di accettare che ciò che accade sempre è perché ha radici fatali nell’essenza dell’umano» (Recetas contra la prisa, 1973). Quella fatale inerzia che ci affligge, quella che Martín Gaite ha formulato con giudizioso intuito, è stata messa in discussione dalla prospettiva storica. I modi in cui ci sentiamo non sono radicati “nell’essenza dell’umano” ma sono ancorati storicamente, sono condizionati in modo geografico e storico. Essere consapevoli di questo ci permette di de-universalizzare e de-naturalizzare certe pratiche e certi modi di sentire e agire.
Così, ad esempio, possiamo tendere a pensare lo stress come un fattore di condizionamento forzato delle nostre vite quando, invece, è legato in modo inestricabile alle condizioni di lavoro, quelle governate dalla produttività del sistema capitalista che soggioga il nostro mondo. I primi casi di stress, infatti, sono stati individuati alla fine dell’Ottocento, nel momento in cui l’economia industriale si stava consolidando, come recentemente dimostrato da colleghi britannici. Non è un caso che l’utilizzo di droghe sia diventato popolare allora, come palliativo di fronte alla comparsa di malattie nervose.
L’iper-stimolazione a cui viene sottoposto l’individuo con la comparsa della metropoli moderna e il suo impatto sulla psicologia del cittadino urbano furono notati alla fine del XIX secolo, nel pieno della modernità capitalista, dal sociologo Georg Simmel. Lui lo ha formulato nel modo seguente: sottolineando che la cultura oggettiva – le produzioni materiali – si impongono alla soggettività – la vita mentale degli individui –, vale a dire che le produzioni materiali finiscono per definirci come individui. Simmel precisò che la metropoli moderna esercitava un impatto sulla psicologia dell’individuo con il sopravvenire di stimoli: vetrine mutevoli piene di oggetti in trasformazione, pubblicità sistemate nell’arredo urbano e nei trasporti, oppure le nuove relazioni interpersonali definite dal contatto ravvicinato e fugace tra estranei. L’economia capitalista creava così le condizioni per una continua richiesta di attenzione che cercava di sedurre con i suoi prodotti. Tutto ciò comportava che la cultura oggettiva avesse un impatto definitivo sulla psicologia dell’individuo moderno, la cui memoria di sé come la sua identità si mostravano per la prima volta nella storia instabili alla fine dell’Ottocento.
Come componente fondamentale della moderna esperienza percettiva si aggiungeva l’impiego di tecnologie in continuo rinnovamento. La nascita stessa del capitalismo è consustanziale a un artefatto tecnologico: l’orologio, che con la Rivoluzione Industriale è diventato un oggetto necessario nella sincronizzazione del lavoro. I lavoratori dipendenti hanno dato priorità al suo acquisto non appena il loro tenore di vita è migliorato fino a consentirlo. La tecnologia fa la sua comparsa associata all’ideologia del progresso del diciannovesimo secolo. Per un individuo della fine dell’Ottocento risultava evidente che il cambiamento, la trasformazione storica, equivaleva al progresso. Erano proprio la tecnologia e le comunicazioni gli ambiti in cui esso si manifestava in modo più palpabile. Tecnologie che già nel XIX secolo erano associate all’idea di obsolescenza, cosa che esigeva, ed esige, un addestramento costante da parte dei suoi acquirenti. Tecnologie che si rinnovano per mantener vivo l’interesse per la loro acquisizione, cosa che a sua volta favorisce il consumo. A partire dal capitalismo industriale, il consumo appare però associato ad un altro fenomeno contemporaneo: la promozione dell’acquisto non necessario, per capriccio: da lì il ruolo cruciale della pubblicità, l’ostentazione dell’apparenza e dell’allestimento e altre tecniche di marketing . Le tecnologie nascono nel XIX secolo sotto il segno dell’utopia di renderci la vita più facile: evitarci di scrivere attraverso il dettato vocale o risparmiarci lo spostamento per andare ai concerti portandoci la riproduzione della musica a casa. Entrambe le situazioni si proiettavano nell’immaginario di fine Ottocento come utopie realizzabili nell’anno 2000.
Oggi, chissà, potrebbe essere il momento di immaginare nuovi scenari per il futuro. Un tuffo nel passato ci aiuta a capire che l’accelerazione delle nostre vite non è una fatalità, né risponde unicamente a fragilità individuali. La sua spiegazione andrebbe piuttosto cercata nelle condizioni imposte dal nostro sistema economico, che non sono affatto le solo possibili. In effetti, fin dall’origine del capitalismo c’erano aree del pianeta al di fuori dell’economia capitalista in cui gli abitanti continuavano ad avere le necessità materiali di base: cibo e alloggio. Senza far appello a evocazioni nostalgiche o a regressi tecnologici, possiamo immaginare altre condizioni di produzione e consumo che diano vita a una tecnologia più umana e confortevole, legata al benessere dell’individuo. Cambiare quelle condizioni significherebbe cambiare la nostra salute e anche quella di un pianeta che vacilla di fronte all’eccessiva crescita economica e all’esaurimento delle sue risorse. Forse in questo modo potremmo tornare a sentirci padroni dei nostri corpi e più in armonia con ciò che ci circonda. ——————-
Sonsoles Hernández Barbosa è professoressa ordinaria di Storia dell’Arte presso l’Università delle Isole Baleari. Il suo ultimo libro è Vidas excitadas. Sensorialidad y capitalismo en la cultura moderna (Sans Soleil, 2022).
Fonte e versione originale Ctxt Contexto y Acción: El capitalismo infiltrado en nuestros cuerpos: una reflexión desde la historia cultural
da: comune-info.net