Cathy La Torre, alias Avvocathy.
- erETICA
- 25 gen 2020
- Tempo di lettura: 5 min

Cathy La Torre.
Cresciuta a Castellammare del Golfo in provincia di Trapani, figlia di un siciliano e di una americana, oggi ha 39 anni.
“Eravamo lontani del paese, a Scopello, che oggi è un posto molto alla moda di villeggiatura, ma quando ero bambina lì non c’era nulla, solo il mare. I miei hanno fatto enormi sacrifici. Mio padre era un impiegato comunale, mia madre una casalinga; ha cominciato a lavorare a quarant’anni io ne avevo diciannove – e ha fatto 22 anni di precariato come vigile urbano: è stata assunta a tempo indeterminato solo a 64 anni”.
Un percorso di sacrifici e tanta volontà. “All’inizio mia madre non parlava bene l’italiano: ho imparato a leggere e a scrivere da una vicina di casa che era stata insegnante di matematica e fisica. A cinque anni già leggevo e scrivevo: imparai sul giornale, e a 7 anni come regalo di compleanno chiesi l’abbonamento a Repubblica. Lì ho capito cos’era un legislatore, cosa sono le leggi; e pensavo che questo volevo fare: lavorare con il diritto.

Un giorno, a nove anni, al mare, mio padre mise sul juke box una canzone di Battiato, Bandiera bianca. Il testo a un certo punto dice “Com’è misera la vita negli abusi di potere”: cominciai a chiedere cos’erano gli abusi di potere… E poi, inesorabilmente, a 14 anni ho ascoltato Storia di un impiegato di De André e compreso che non avrei mai fatto il giudice, ma l’avvocato”.
“Sono andata all’università grazie a una borsa di studio, cosa che oggi sembra impensabile. Scelsi Bologna perché pagavano tutto. Mi sono laureata a 23 anni, e ho iniziato immediatamente la mia pratica focalizzata sul diritto all’identità di genere: facevo la volontaria al MIT, che è il Movimento Identità Trans, la più grande associazione trans d’Europa. Poi mi sono specializzata in diritto della personalità, quel portato di diritti che vanno dall’identità di genere, all’immagine, al diritto alla riservatezza, ma anche ai diritti negati, come quello per persone dello stesso sesso di costituire una famiglia. Qualche tempo dopo ho cominciato a studiare il fenomeno dell’hate speech; e poi piano piano con l’avvento dei social mi sono specializzata in cyber law, la parte del diritto che intreccia il modo del digitale”.

Cathy La Torre oggi si definisce gender-fluid, non-binary. “Avevo anche pensato a cambiare sesso, ma non ero convinta di voler essere un uomo; però non mi sentivo totalmente una donna. E’ quello che oggi chiamiamo non-binary; l’ho capito, però, solo quando sono emerse le prime teorie nel 2004. Oggi le persone gender-fluid sono molte di più. E’ una definizione larga che non ha niente a che fare con un cambiamento di sesso, il che richiede una diagnosi di disforia di genere (sei biologicamente femmina per esempio, ma ti senti uomo). La verità è che le faccende che attengono all’identità sono sempre personalissime. Oggi il mondo è molto più articolato di un tempo: ma questo per molti è spiazzante, è inaccettabile, perché ci si sottrae al controllo sociale”.
Professionalmente Cathy difende molte persone famose; ma la campagna "Odiare ti costa" mira a tutelare tutti. E’ impressionante perché, semplicemente, funziona. “Noi partiamo da questo assunto, l’odio ha un costo e non può essere vero solo per le vittime, deve avere un costo anche per gli odiatori. Molto spesso basta una mediazione civile: chiediamo agli odiatori un risarcimento del danno per lesione della reputazione e della dignità. O delle scuse, della proposta di fare azioni concrete per migliorare il web e il proprio linguaggio sul web. Se attacchi la “tasca” vedi subito i risultati, e di fronte alle prime diffide abbiamo visto come leoni da tastiera sono pronti a chiedere scusa, a pagare, a fare volontariato. In generale pensiamo che traslando le parole sul piano della realtà, le conseguenze si facciano sentire: ‘io quest’anno volevo comprarmi la macchina, non posso più perché devo pagare un risarcimento danni a Cathy La Torre perché le ho detto ‘brutta lesbica, devi morire impalata da quattro metri di c..o di negroni’: perché questo mi arriva, tutti i giorni della mia vita”. Nelle sue battaglie, Cathy infatti ha cominciato a ricevere minacce, ha sperimentato sulla sua pelle cosa sia l’odio online. “Per me ho fatto partire 270 diffide. L’ultimo era un poliziotto che mi scriveva di notte, di tutto. Dopo due ore lo avevo già trovato: la caserma, come si chiamava.

E penso ad una “enorme class action contro l’odio; solo che non facciamo una sola azione, ma mille azioni contro mille odiatori. L’aspetto risarcitorio prettamente economico o con scuse e ravvedimenti concreti possono fungere da elemento deterrente. Abbiamo anche i primi risultati, con una filiera sui riconoscimenti degli odiatori; ormai su 100 ne riconosciamo in media 60. Quelli che augurano il forno a Liliana Segre, insultano Mattarella…”.
Ma c’è anche un altro fronte della campagna, quello del “livello educativo digitale, in cui spieghiamo qual è la differenza fra una libertà d’opinione e l’insulto” dice Cathy. “Dal punto di vista legale, attualmente le parole d’odio sono inquadrabili al 90% come diffamazione o come minaccia, cioè insulti che ledono la reputazione, il decoro di una persona; al 10% sono inquadrabili come incitamento all’odio razziale. Ma l’incitamento all’odio è ogni fatto o parola che possa portare a uno stigma verso qualunque categoria. Il problema esiste, bisogna capire come risolverlo. Per questo serve una legge che fissi i perimetri dell’odio online: non distruggerebbe la libertà d’opinione, anzi la proteggerebbe: perché il confine è labile, e la scelta di cosa sia libertà è demandata o alle piattaforme dei social, oppure ai giudici. E poi non abbiamo leggi adeguate ai fenomeni digitali. Moltissimi comportamenti dell’odio online – l’uso di meme con fotomontaggi, il furto di identità, le fake news, il sexting primario – cioè ricevere senza consenso immagini di organi sessuali, come succede a migliaia di donne -non sono proprio contemplati dall’ordinamento, neanche per analogia”.
"Di fronte all’odio online", dice ancora Cathy, “la politica è completamente schiacciata, o approfitta del vuoto normativo. Consideriamo ad esempio poi il blastaggio, cioè prendere le affermazioni o il viso di qualcuno, metterle sul proprio profilo che ha milioni di follower, ed esporre questa persona a una forma di gogna”. Proprio per ‘blastaggio’ Cathy La Torre ha fatto causa a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni, la candidata leghista in Emilia-Romagna. “La prima udienza sarà il 21 gennaio. Io chiedo, è normale che un politico in campagna elettorale usi l’immagine di comuni cittadini, non di personalità pubbliche, perché banalmente hanno detto qualcosa di dissidente, esponendoli a una visibilità estrema?”
Ma non diamo la colpa a Internet. “Io non so cosa muove gli odiatori, cosa spinge a insultare una persona che non conosci neppure. Ma qualsiasi strumento dipende da come lo usi, è anche un’arma: la puoi usare per difendere qualcuno e anche per fare del male. Internet puoi usarlo per informarti o per diffondere spazzatura. E spetta a tutti noi prenderne coscienza. Perché la fake news ha più presa di una notizia vera? Perché la notizia vera ha bisogno di approfondimenti, e di letture. Insomma: l’odio è una torta in cui ognuno di noi ha una fetta di responsabilità. Io penso che chiunque abbia un minimo di visibilità debba tenerne conto. E io sento il peso della responsabilità in ogni momento; la necessità sui social di usare un linguaggio consono, di non urtare mai la sensibilità di nessuno, verificare le fonti e quello che condividiamo”.
Aggiornamenti su Cathy La Torre >>>>> https://blognotes.wixsite.com/eretica/post/cathy-la-torre-%C3%A8-lei-che-sconfigge-l-odio
Fonti: Internet e IoDonna
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