Di Saman e altre storie di donne e Islam
- NEUE FABRIK
- 21 giu 2021
- Tempo di lettura: 2 min

(...) Quando accadono fatti di cronaca nera dove i protagonisti sono musulmani si manifestano principalmente due posizioni.
Da una parte, chi coglie l’occasione per trovare nell’Islam il capro espiatorio e il male assoluto, narrazione funzionale al già citato scontro di civiltà che legittima il discorso della superiorità culturale occidentale e le successive azioni restrittive verso i musulmani (si pensi ai continui dinieghi nei Comuni italiani per concedere spazi riconosciuti per moschee o sale di preghiera, alle leggi ad hoc per impedire l’apertura degli stessi; si veda la legge della Regione Lombardia del 2015 sulle attrezzature religiose più volte finita al Tar per passaggi incostituzionali; oppure la narrazione islamofobica che scatena intolleranza verso i musulmani, e così via).
Dall’altra parte, scatta d’ufficio la difesa dei musulmani che dicono “l’Islam non c’entra nulla è solo cultura”.
I sostenitori della prima posizione li vediamo spesso in televisione attraverso le figure di politici, opinionisti, giornalisti. Mediamente disinteressati al confronto e all’approfondimento ma solo allo show funzionale alla ricerca del consenso (elettorale, di share televisivo o ideologico).
I musulmani – che, legittimamente, si mettono sulla difensiva – commettono però, non di rado, un errore: pur di difendere la religione nell’appassionato tentativo di spiegare il senso originale dell’Islam che contrasta con certi retaggi patriarcali, dimenticano di ammettere che in alcuni paesi a maggioranza islamica ha prevalso comunque una interpretazione fanatica dell’Islam che avalla la discriminazione della donna e la negazione della sua libertà sposandosi perfettamente con tradizioni e usanze locali che vanno in quel senso. Quindi alla domanda: “L’Islam c’entra o meno con questi drammi familiari?”, come nel caso di Saman, si rischia di dire una evidente mezza falsità o verità, rispondendo di no.
(...) In tutto questo, in mezzo a tutto questo, si trovano i figli.
I figli di tante diaspore, tra loro diverse, ognuno con i propri bagagli identitari che presto o tardi dovranno confrontarsi tra loro e con la società di arrivo. Società che spesso li vede tutti uguali, tutti ridotti a cliché sostenuti da stereotipi e pregiudizi o semplicistiche mezze verità o mezze bugie.
Difficile “essere” in queste condizioni. Si è spesso lacerati nel profondo.
Eppure una soluzione c’è e si chiama alleanza. Alleanza tra le parti per lavorare sui diversi fronti e poi farli incontrare. Alleanza per contrastare obiettivi comuni, il patriarcato, ad esempio, che non è certo esclusiva del subcontinente indiano o di certi paesi mediorientali o africani o asiatici… ce lo abbiamo anche qui ed è duro a morire.
Questa alleanza va fatta tra le comunità e le istituzioni, con sostegno di mediatori professionisti, terzo settore e qualsiasi altra parte che possa contribuire a costruire percorsi e progetti di conoscenza reciproca, di protocolli di tutela là dove si creano condizioni di pericolo. Serve una scuola più attenta al tema della pluralità, con antenne preparate a cogliere i problemi e attivare procedure efficaci.
Alleanze possibili e anzi già in divenire che hanno solo bisogno di visibilità, sostegno e istituzionalizzazione delle buone pratiche.
Estratti da Sumaya Abdel Qader per valigiablu.it, 21 giugno 2021.
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