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Io sono uno degli altri. La poesia di ROCCO SCOTELLARO

📢 LE MALETESTE 📢

19 apr 2023

Rocco Scotellaro crede nella lotta politica per migliorare le condizioni di vita dei contadini e si dedica allo sradicamento di quelle fonti di malessere secolare, partecipando anche all’occupazione delle terre.

Quando Rocco Scotellaro esce dal carcere di Matera il 25 marzo 1950 «prosciolto dall’accusa, per non aver commesso il fatto», dopo averci trascorso 45 giorni, decide di dimettersi definitivamente da sindaco, amareggiato e sconfitto.

Era stato rieletto, dopo un primo mandato finito anzitempo per le mutate condizioni politiche – dopo il 18 aprile – ottenendo addirittura più voti con la lista di sinistra de “«L’aratro», ma non erano finiti gli attacchi contro di lui, politici e penali, senza scrupoli, sfociati in un’accusa di concussione e in un arresto ignominioso.

Nel 1943, ventenne, dopo aver studiato a Trento ed essersi iscritto all’università a Roma, era tornato nella sua Tricarico, già parte dell’Italia liberata, per stare con la famiglia dopo la morte del padre e venendo subito cooptato nel CLN locale. Rocco si vuole dare da fare, contribuire alla rinascita. Il 4 dicembre si iscrive al Partito socialista e il 10 giugno successivo partecipa al ventennale dell’uccisione di Giacomo Matteotti.



Passaggio alla città

Ho perduto la schiavitù contadina,

non mi farò più un bicchiere contento,

ho perduto la mia libertà.

 

Città del lungo esilio

di silenzio in un punto bianco dei boati,

devo contare il mio tempo

con le corse dei tram,

devo disfare i miei bagagli chiusi,

regolare il mio pianto, il mio sorriso.

 

Addio, come addio? distese ginestre,

spalle larghe dei boschi

che rompete la faccia azzurra del cielo,

querce e cerri affratellati nel vento,

pecore attorno al pastore che dorme,

terra gialla e rapata

che sei la donna che ha partorito,

e i fratelli miei e le case dove stanno

e i sentieri dove vanno come rondini

e le donne e mamma mia,

addio, come posso dirvi addio?

 

Ho perduto la mia libertà:

nella fiera di luglio, calda che l’aria

non faceva passare appena le parole,

due mercanti mi hanno comprato,

uno trasse le lire e l’altro mi visitò.

 

Ho perduto la schiavitù contadina

dei cieli carichi, delle querce,

della terra gialla e rapata.

 

La città mi apparve la notte

dopo tutto un giorno

che il treno aveva singhiozzato,

e non c’era la nostra luna,

e non c’era la tavola nera della notte

e i monti s’erano persi lungo la strada.



Nel 1946, viene eletto sindaco. Sono anni difficili, il suo mandato da sindaco è però positivo. Quando arriva il 18 aprile 1948, la «pozzanghera nera» infrange le sue e molte altre illusioni. «È finita, è finita». Tornerà a vincere, ma non sarà più come prima.

Per l’Italia nella tenaglia della guerra fredda sono cominciati gli anni della repressione dei movimenti, dell’esclusione delle sinistre – l’unità nazionale della Resistenza è un ricordo – all’insegna della ricostruzione, del «miracolo economico» trainato dall’industrializzazione e della crescita, sostenuta dall’enorme migrazione interna dalle campagne alle città industriali e dal Sud al Nord.

Nel Mezzogiorno, il problema della terra era riesploso già durante la guerra.



Le nenie

Rifanno il giuoco del girotondo

i mulinelli spirati nella via.

Anch’io c’ero in mezzo

nei lunghi giorni di fango e di sole.

Mia madre dorme a un’ora di notte

e sogna le mie guerre nella strada

irta di unghie nere e di spade:

la strada ch’era il campo della lippa

e l’imbuto delle grida rissose

di noi monelli più figli alle pietre.


Mamma, scacciali codesti morti

se senti la mia pena nei lamenti

dei cani che non ti danno mai pace.

E non andare a chiudermi la porta

per quanti affanni che ti ho dato

e nemmeno non ti alzare

per coprirmi di cenere la brace.

Sto in viuzze del paese a valle

dove ha sempre battuto il cuore

del mandolino nella notte.

E sto bevendo con gli zappatori,

non m’han messo il tabacco nel bicchiere,

come per lo scherzo ai traditori;

abbiamo insieme cantato

le nenie afflitte del tempo passato

col tamburello e la zampogna.



Le occupazioni delle terre si susseguono – spinte dalla fame – contro un sistema latifondiario bloccato da secoli. Contadini e braccianti si accampano sui terreni incolti, decisi a lavorarli ma le loro manifestazioni vengono represse, con morti e feriti. Anche Scotellaro vi partecipa e vive il fremito delle masse dei diseredati, dei «Subalterni», che non accettano più la loro condizione.



Noi non ci bagneremo

Noi non ci bagneremo sulle spiagge

a mietere andremo noi

e il sole ci cuocerà come la crosta del pane.

Abbiamo il collo duro, la faccia

di terra abbiamo e le braccia

di legna secca colore di mattoni.

Abbiamo i tozzi da mangiare

insaccati nelle maniche

delle giubbe ad armacollo.

Dormiamo sulle aie

attaccati alle cavezze dei muli.

Non sente la nostra carne

il moscerino che solletica

e succhia il nostro sangue.

Ognuno ha le ossa torte

non sogna di salire sulle donne

che dormono fresche nelle vesti corte.



Il ministro dell’agricoltura del governo CLN con a capo Badoglio, Fausto Gullo, comunista calabrese, aveva fatto approvare nel 1944 una prima legge per l’esproprio dei terreni incolti che aveva dato la spinta al movimento, che Partito comunista e socialista appoggiano, pur mancando ancora di un solido seguito al sud, che si estenderà negli anni. La CGIL, risorta nel 1944 dopo il buio del ventennio, è dentro ai moti di rivolta, li organizza e li sostiene (anche se poi perde la CISL e la UIL, patendo le divisioni tra i partiti). Socialisti e comunisti, pur uniti sotto il Fronte, mostrano divisioni, anche sul movimento contadino e sulla «questione agraria». Sono divisioni antiche, che però si riacutizzano anche sul ruolo da dare a braccianti e contadini nella prospettiva della lotta politica nazionale.


Scotellaro uscirà dalla sua esperienza politica guardando altrove, non cessando di credere nell’impegno, ma patendo quello che sente come tradimento dei vertici, per dedicarsi alla «politica del mestiere» dei suoi maestri, Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria.



Ti rubarono a noi come la spiga

Vide la morte con gli occhi e disse:

Non mi lasciate morire

con la testa sull'argine

della rotabile bianca.

Non passano che corriere

veloci e traini lenti

ed autocarri pieni di carbone.

Non mi lasciate con la testa

sull'argine recisa da una falce.

Non lasciatemi la notte

con una coperta sugli occhi

tra due carabinieri

che montano di guardia.

Non so chi m'ha ucciso

portatemi a casa,

i contadini come me

si ritirano in fila nelle squadre

portatemi sul letto

dov'è morta mia madre.

O mettetevi qui attorno a ballare

e succhiate una goccia del mio sangue

di me vi farà dimenticare.

Lungo è aspettare l'aurora e la legge

domani anche il gregge

fuggirà questo pascolo bagnato.

E la mia testa la vedrete, un sasso

rotolare nelle notti

per la cinta delle macchie.

Così la morte ci fa nemici!

Così una falce taglia netto!

(Che male vi ho fatto?)

Ci faremo scambievole paura.

Nel tempo che il grano matura

al ronzare di questi rami

avremmo cantato, amici, insieme.

E il vecchio mio padre

non si taglierà le vene

a mietere da solo

i campi di avena?



Lo fa a modo suo, con quei due originalissimi contributi che sono L’uva puttanella e Contadini del Sud, che usciranno postumi. «Noi siamo le pecore e i buoi dei macellai e dei proprietari di bestiame», dirà, inveendo contro gli eterni notabili come contro i nuovi dirigenti di partito.


Nel Psi, la questione agraria rimarrà incagliata sul ruolo da dare alla piccola proprietà contadina. Nel Pci, la divisione sarà sulle alleanze con la classe contadina e bracciantile nel processo di emancipazione guidato dalla classe operaia. Alicata e Salinari inveiranno contra la pretesa di ridestare «l’autonomia contadina», secondo l’impostazione gobettiana di Carlo Levi, con anche Giorgio Amendola, il «liberale», che si ricrederà. Ma sarà troppo tardi.



Come fresco era il mio limbo

Come fresco era il mio limbo

amici forestieri partiti per sempre.

Voi quando ve ne andate

partite davvero per sempre

miei amici forestieri

che venite a godere

i palmi di terra vergine

sotto i boschi incendiati.

Venite a scoprire i sacri altari

Ove è sommersa l'anima di un arabo

Del greco che si mise

La prima volta a cantare.

Vi ho fatto bere sotto le viti

Vi ho fatto sapere dallo spiritato

I suoi discorsi col cimitero.

Avete tremato ai laceri gridi

Del suino ucciso col rito antico.

E voi avete rovistato

Gli angoli della casa come ladri.



La riforma agraria di Segni sarà un palliativo che metterà il sonnifero alle rivolte: poche le terre distribuite, pochi i capitali messi a disposizione, una manovra di ridisegno sociale calata dall’alto. Anche Rossi-Doria ne criticherà l’inadeguatezza dell’impianto.

Finché arriverà l’industrializzazione del Nord ad avviare l’esodo che farà sparire per sempre quella «civiltà contadina» che avrebbe potuto essere uno dei semi fecondi della rinascita del Meridione. Che mai arrivò, se non sotto i denari veicolati dalla Cassa del Mezzogiorno per alimentare il sottobosco della clientela degli assistiti.

Rocco fu forse l’ultimo (e anche unico) esempio di intellettuale «collettivo» che voleva far sentire la voce di quelle masse che cercavano un riscatto, certo non l’intellettuale «rurale» distaccato, perché lui non era che «uno degli altri» quattro milioni (e 230mila lucani) che lasciarono la terra e la militanza politica, travolti dal torrente dell’emigrazione.



Sempre nuova è l'alba

Non gridatemi più dentro,

non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino!

che all'ilare tempo della sera

s'acquieti il nostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora

le teste dei briganti, e la caverna -

l'oasi verde della triste speranza -

lindo conserva un guanciale di pietra...

Ma nei sentieri non si torna indietro.

Altre ali fuggiranno

dalle paglie della cova,

perché lungo il perire dei tempi

l'alba è nuova, è nuova.



«È caduto Novello sulla strada all’alba, a quel punto si domina la campagna, a quell’ora si è padroni del tempo che viene» cantò Rocco Scotellaro nella sua Montescaglioso per ricordare Giuseppe Novello caduto durante le occupazioni delle terre nel dicembre del 1949.


Furono moti contadini che reclamavano terreni lasciati incolti, sui quali poterci vivere, per spezzare quel giogo di miseria e sottomissione che si era protratto per secoli. Ce n’erano state già al tempo della spedizione dei Mille, come a Bronte, in Sicilia, sedate nel sangue. Ce ne furono in tutto il Paese, dopo l’Unità, soprattutto in Meridione, dove diffusi erano i latifondi di proprietà di pochi possidenti, residenti nelle città, e braccianti e fittavoli addensati nei grandi borghi rurali da cui muovevano per il lavoro nelle campagne.


In Sicilia i Fasci siciliani di fine Ottocento furono repressi nel sangue, come gli scioperi e le occupazioni della «Lega dei Contadini» in Basilicata nel 1902, in cui morì il bracciante Giuseppe Rondinone. E anche nel primo dopoguerra vi furono occupazioni della terra da parte di quei contadini cui i generali l’avevano promessa per chiamarli alla guerra. Nulla era cambiato, però, e l’immobilità dell’economia rurale meridionale si era protratta.


Così, i movimenti contadini erano ripresi nel secondo dopoguerra con altre occupazioni in Sicilia, Calabria, Basilicata e Puglia. I contadini chiedevano «pane e lavoro», e volevano in concessione terreni per poterli lavorare anziché essere costretti al lavoro controllato dal caporalato, in virtù del decreto del 1944 che portava la firma del comunista Fausto Gullo.



Noi che facciamo?

Ci hanno gridata la croce addosso i padroni

per tutto che accade e anche per le frane

che vanno scivolando sulle argille.

Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti

nelle piazze per essere comprati,

la sera è il ritorno nelle file

scortati dagli uomini a cavallo,

e sono i nostri compagni la notte

coricati all’addiaccio con le pecore.

Neppure dovremmo ammassarci a cantare,

neppure leggerci i fogli stampati

dove sta scritto bene di noi!

Noi siamo i deboli degli anni lontani

quando i borghi si dettero in fiamme

dal Castello intristito.

Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.

Noi che facciamo?

Ancora ci chiamano fratelli nelle Chiese

ma voi avete la vostra cappella

gentilizia da dove ci guardate.

E smettete quell’occhio

smettete la minaccia,

anche le mandrie fuggono l’addiaccio

per qualche stelo fondo nella neve.

Sentireste la nostra dura parte

in quel giorno che fossimo agguerriti

in quello stesso Castello intristito.

Anche le mandrie rompono gli stabbi

per voi che armate della vostra rabbia. Noi che facciamo?

Noi pur cantiamo la canzone

della vostra redenzione.

Per dove ci portate lì c’è l’abisso, l’ì c’è il ciglione.

Noi siamo le povere pecore savie dei nostri padroni.



Varie rivolte si ebbero già tra il 1943 e il 1945, scatenando la reazione violenta degli «agrari», e poi nel 1949, quando si susseguono agitazioni ed occupazioni di feudi, terre incolte e demani.

La reazione delle forze dell’ordine guidate da Scelba fu però sempre dura, ed eccidi di contadini e braccianti si ebbero il 29 ottobre a Melissa (Crotone), con tre morti, e poi il 29 novembre a Torremaggiore (Foggia), con due morti. Moti per lo più spontanei, ma sostenuti dalle organizzazioni sindacali.



La mia bella Patria

Io sono un filo d'erba

un filo d'erba che trema

E la mia Patria è dove l'erba trema.

Un alito può trapiantare

il mio seme lontano.



In Basilicata, il centro del movimento è Montescaglioso, ove la Camera del Lavoro organizza l’occupazione dei terreni demaniali nella valle del Bradano. Le occupazioni per tutto il mese di dicembre 1949, in 19 comuni, vedono in prima fila soprattutto le donne.

Nella notte del 13 dicembre, a Montescaglioso, i Carabinieri mitragliano un corteo di contadini che cercano di impedire che i dirigenti del movimento siano tradotti nelle carceri. Giuseppe Novello cade tra le braccia della moglie Vincenza Castria (morirà il 17 dicembre). «Vollero colpire i contadini, ma anche i comunisti che li sostenevano», racconta Filippo Novello, figlio di Giuseppe e Vincenza.

«Questa terra mia è rossa, scrive Vincenza nel suo libro, ma lo è del sangue dei suoi figli», dice Francesco Candido, il figlio che Vincenza poi ebbe da Ciro Candido, anche lui un protagonista di quelle lotte.



Giovani come te

Quanti ne fissi negli occhi

superbi della strada, erranti

giovani come te.

Non hanno in ogni tasca

che mozziconi neri

di sigarette raccattate.

Non sanno che sperdersi

davanti alle lucide vetrine

alle dicende dei bar

ai tram in rapida corsa

alla pubblicità

padrona delle piazze.

Tanto perché il tempo si ammazzi

cantano una qualsiasi canzone,

in cui si chiamano fuorviati, si dicono

amanti del bassifondo

e si ripagano di comprensione.

Una canzone è per covare insano amore

contro le ragazze cioccolato

che sono un po’ le stelle sempre vive

che sono la speranza

d’una vita sorpresa in un sorriso.

 

E quanti, ma quanti

vorrebbero la luna nel pozzo

una loro strada sicura

che non si rompa tuttora nei bivii.

Quando compiono un gesto il solo gesto

son lì coi mietitori

addormentati ai monumenti

che aspettano la mano sulla spalla

del datore di lavoro.

Sono coi facchini di porto

contenti della faccia sporca

e le braccia penzoloni

dopo che il peso è rovesciato.

Son sprofondati talvolta in salotti

a far orgia di fumo e d’esistenzialismo

giovani malati come te di niente.

 

Spiriti pronti a tutte le chiamate

angeli maledetti

coscritti e vagabondi,

compagni dei cani randagi,

la nostra è la più sporca bandiera

la nostra giovinezza è

il più crudo dei tormenti.

Or quando la terra accaldata

ci mette addosso la smania del fuoco

nei lunghi meriggi d’estate,

è tempo di crucciarsi

di dir di sì all’Uomo che saremo

e che ci aspetta

alla Cantonata

con falce e libro in mano!



Erano le prime proteste per la terra del Meridione nell’Italia Repubblicana che mettevano in luce il rapporto feudale che ancora vigeva tra il proprietario terriero – il barone, l’agrario – e il contadino, condizione che era stata perpetrata e favorita dal fascismo.

Rocco Scotellaro ben conosceva quel dramma, dopo aver vissuto l’infanzia e la sua giovane età adulta nel suo paese, Tricarico, ed era conscio della situazione disumana in cui sopravviveva la «civiltà contadina»: le carenze alimentari e igienico-sanitarie, un caporalato spietato e intransigente, l’estrema e costante povertà.

Rocco scrive poesie e racconti, studia, si unisce ai sindacati e ai contadini che protestano, si iscrive al Partito Socialista e ne apre una sezione in paese. Nel 1946, all’età di ventitré anni, viene eletto sindaco di Tricarico e sarà rieletto quattro anni dopo.


Rocco Scotellaro crede nella lotta politica per migliorare le condizioni di vita dei contadini e si dedica allo sradicamento di quelle fonti di malessere secolare, partecipando anche all’occupazione delle terre, come quella dei feudi di Policoro del barone Berlingieri nel 1949.

«È fatto giorno», scriverà, «siamo entrati in giuoco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo».

Nei suoi canti, riverbera l’enfasi del riscatto politico e sociale della «civiltà contadina», nei suoi versi d’incitamento i protagonisti sono i contadini stessi, pronti a rivendicare i propri diritti, in una lirica incalzante, quasi epica, a celebrare l’ingresso nella modernità della civiltà rurale meridionale.



Salmo alla casa e agli emigranti

Inchinati alla terra, alla piccola porta mangiata della casa,

noi siamo i figli e la porta è carica di altri sudori,

e la terra, la nostra porzione, puzza e odora.

Mi uccidono, mi arrestano, morirò di fame, affogato

perché vento e polvere, sotto il filo della porta, ardono la gola;

nessuna altra donna mi amerà, scoppierà la guerra,

cadrà la casa, morirà mamma e perderò gli amici.

Il paese mio si va spopolando, imbarcano senza canzoni

con i nuovi corredi di camicie e mutande i miei paesani.

Che vanno a pigliare l'anello? Come nel giuoco,

sui muli bardati di coperte, e con le aste di ferro uncinato,

al filo teso sulla rotabile, nel giorno di San Pancrazio? (*)

Ve ne andate anche voi, padri della terra, e lasciate

il filo della porta più nero del nero fumo.

Quale spiraglio ai figli che avete fatto

quando la sera si ritireranno?



La Riforma agraria, promulgata nel 1950 con le leggi «stralcio» di Antonio Segni, portò all’assegnazione di una quota di fondi ai contadini, in appezzamenti spesso troppo piccoli, non sempre serviti di acqua. E in meno di un decennio quei terreni vennero gradualmente abbandonati.

Fallirono le cooperative, i contadini senza mezzi e un vero programma furono costretti ad emigrare.Fallì la riforma, ché all’Italia che ripartiva, lanciata verso il boom, ben serviva quell’esercito di manodopera disponibile per l’industrializzazione del Nord.


Ma fallì anche il mito dell’industrializzazione del Sud, fondato sulla grande impresa industriale motore dello «sviluppo», quella «ideologia» a cui si sacrificò nei decenni successivi ogni criterio di equilibrio, secondo cui per le regioni arretrate sviluppo è convergere verso un modello tutto esterno, senza tener conto delle risorse endogene e dei legami storici, geografici e biologici che sussistono con il territorio. Disperdendo così alla radice quella «cultura contadina» autonoma di cui Rocco aveva colto il potenziale aggregativo e progressivo, anche oltre Carlo Levi.



Pozzaghera nera il 18 aprile

Carte abbaglianti e pozzanghere nere

hanno pittato la luna

sui nostri muri scalcinati!

I padroni hanno dato da mangiare

quel giorno si era tutti fratelli,

come nelle feste dei santi

abbiamo avuto il fuoco e la banda.

Ma è finita, è finita è finita

quest’altra torrida festa

siamo qui soli a gridarci la vita

siamo noi soli nella tempesta.

 

E se ci affoga la morte

nessuno sarà con noi,

e col morbo e la cattiva sorte

nessuno sarà con noi.

I portoni ce li hanno sbarrati

si sono spalancati i burroni.

Oggi ancora e duemila anni

porteremo gli stessi panni.

Noi siamo rimasti la turba

la turba dei pezzenti,

quelli che strappano ai padroni

le maschere coi denti



Sotto la luce della poesia e dell’inchiesta sul campo, Rocco ne vide la vitalità, nella volontà di riscatto, al di là della sola valorizzazione, cristallizzata nel Cristo, espressa in quei nuclei che avrebbero potuto fare la differenza. «Noi siamo degli acini maturi, ma piccoli in un grappolo di uva puttanella».




Poesie di: ROCCO SCOTELLARO (Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953)

Ricostruzione de LE MALETESTE

Articoli di: Pier Giorgio Ardeni da: ilmanifesto.it

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