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5 maggio. IN ETIOPIA FESTA NAZIONALE DI LIBERAZIONE DAL FASCISMO ITALIANO
Il 5 maggio in Etiopia è festa nazionale: si ricorda quando nel 1941, dopo un lungo di esilio, l’imperatore Hailé Selassié fece ritorno ad Addis Abeba, a 5 anni di distanza esatti dall’ingresso in città di Pietro Badoglio.
Selassiè avrebbe potuto raggiungere la capitale alcuni giorni prima, ma rallentò la marcia perché volle compiere un vero e proprio pellegrinaggio, laddove si consumarono efferate stragi: Debre Marcos, Ficcé, Debra Libanos. Tenne discorsi incentrati sulla pacificazione nei quali invitò la popolazione a non compiere vendette contro gli italiani in quanto tali. Fece sempre una netta distinzione fra fascisti e italiani, anche negli anni successivi, pure nel 1970 quando si recò a Roma in visita ufficiale.
L’ASSENZA DI RAPPRESAGLIE unitamente all’invito rivolto a molti tecnici e operai di restare in Etiopia furono comportamenti e approcci da inquadrare entro una cultura tutto sommato pacifica, pur essendo gli etiopici orgogliosi delle proprie tradizioni guerriere, e capace di distinguere tra europei, italiani, bianchi e fascisti. Eppure revisionismo e negazionismo hanno spesso fatto leva su questo per sostenere che non vi furono rappresaglie perché la colonizzazione italiana non fu brutale e che tutto sommato portò a termine la sua missione civilizzatrice.
Sulla lotta di liberazione dei partigiani etiopici, arbegnuocc, purtroppo non esistono studi e ricerche esaustive ma solamente abbozzi. Da parte etiopica sono diversi i contributi che si basano sulle testimonianze orali, su interviste che, essendo state svolte per lo più tardivamente, non riguardano i principali comandanti partigiani, oppure su memorialistica e autobiografie non sempre scientificamente attendibili.
DA PARTE ITALIANA qualche informazione può essere ricavata dai volumi dei reduci che presero parte alle cosiddette Operazioni di grande polizia coloniale o dalle ricerche di storia militare che presentano però il forte limite di essere state svolte utilizzando soprattutto fonti italiane o britanniche. Ciò detto, è opportuno prendere atto del fatto che negli ultimi anni sono stati pubblicati importanti volumi sulle violenze e i crimini commessi dagli italiani.
Oltre le innumerevoli opere di Angelo Del Boca ricordiamo, dimenticando sicuramente qualcosa, gli studi di Giorgio Rochat, Nicola Labanca, Paolo Borruso, Ian Campbell, Simone Belladonna, Antonella Randazzo e il sottoscritto. Per quanto riguarda la divulgazione più che pregevoli sono i docufilm di Valerio Ciriaci, Sabrina Varani e Lucio Brunelli e i testi letterari di Francesca Melandri (Sangue giusto, bel volume, tradotto in più lingue) e Gabriella Ghermandi (Regina di fiori e di perle), artista italoetiopica, la quale ha raccolto le memorie, le canzoni e i detti dei partigiani del suo paese d’origine che riutilizza anche in spettacoli e concerti dal forte impatto emotivo.
INDIPENDENTEMENTE dalla frammentarietà delle varie ricerche, tali perché non offrono un quadro organico del fenomeno resistenziale degli arbegnuocc, possiamo stilare una cronologia per sommi capi ripartendola in tre fasi.
Dopo l’occupazione di Addis Abeba da parte di Badoglio nel maggio del 1936, il territorio dell’impero d’Etiopia per gli italiani rimase per parecchi mesi insicuro poiché al di fuori dei centri abitati imperversavano soldati nemici allo sbando e un gran numero di banditi, scifta.
Nelle regioni occidentali erano ancora in azione alcuni reparti del vecchio esercito etiopico ormai braccati e perennemente in fuga mentre in altre aree venivano segnalati continui scontri e assedi contro residenze, presidi o isolati fortini che il più delle volte si concludevano con pesanti sconfitte per gli etiopici. Si trattava di gruppi comandati da notabili del vecchio impero che si muovevano alla luce del giorno sfidando frontalmente il nemico perché per loro il combattimento era sinonimo di eroismo e per questo motivo doveva avvenire con criteri tradizionali e, in molti casi, all’arma bianca. Anche se isolati e circondati, gli italiani potevano contare su mitragliatrici, artiglieria e supporto da parte dell’aeronautica (bombardamenti, mitragliamenti e aviolanci).
NELL’ESTATE DEL 1937, dopo la proclamazione della guerra santa in risposta alle esecuzioni segrete avvenute nella zona del Lago Tana, alcuni comandanti partigiani tennero degli incontri nei quali stabilirono di darsi una struttura più snella e di ricorrere alla guerriglia. Diminuirono le perdite e gli attacchi cominciarono ad essere più efficaci. Si trattava però di una lotta condotta nel totale isolamento e con grande scarsità di mezzi, che divenne gradualmente sempre più ardua a causa della carestia e per l’invasione delle locuste. Inoltre le Operazioni di grande polizia coloniale e le relative violenze contro i villaggi e i civili aumentarono di numero e intensità. A Rodolfo Graziani vengono attribuite le più efferate stragi ma il suo rimpatrio non segnò una discontinuità, anzi. Con l’arrivo di Ugo Cavallero le cose non cambiarono, diciamo, piuttosto, che la ricerca non si è mai sufficientemente soffermata sulle sue responsabilità.
Con la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Gran Bretagna gli eventi presero decisamente una piega diversa. Gli arbegnuocc cominciarono a ricevere aiuti e molti si unirono alle truppe britanniche composte per lo più di kenioti, sudanesi e indiani. Ascari e bande collaborazioniste abbandonarono in massa gli italiani e tornarono ai loro villaggi.
OCCORRE RICORDARE che non vi fu solamente una resistenza in armi ma anche un’organizzazione ramificata persino tra coloro i quali offrivano servizi all’amministrazione coloniale: talpe e doppiogiochisti che raccoglievano informazioni e che svolgevano azioni di propaganda fin dentro i cosiddetti campi lavoro dove risiedevano operai, muratori, camionisti.
Alcuni italiani passarono dall’altra parte ma si contano sulle dita di una mano. Diverso fu il caso di Ilio Barontini che, insieme ad Anton Ukmar e Bruno Rolla, guidò una missione organizzata dal Partito comunista d’Italia e coperta dai servizi britannici. Rimase alcuni mesi tra i combattenti del deggiacc Mangascià del Goggiam dove insegnò l’utilizzo degli esplosivi, diede istruzioni sulle tecniche di guerriglia e diede alle stampe un giornaletto clandestino in lingua amarica e in italiano.
Per concludere. In occasione di una iniziativa in ricordo dei martiri delle stragi di Addis Abeba del 19-22 febbraio 1937 tenutasi a Roma lo scorso febbraio, la Association of Ethiopian patriots ha fatto pervenire agli organizzatori una lettera nella quale si può leggere: «le azioni delle associazioni che hanno a cuore l’Etiopia nel favorire presso il pacifico popolo italiano, soprattutto i giovani (…), sono molto incoraggianti. I vostri lodevoli sforzi servono cosicché questi crimini non vengano dimenticati».
Questo ci insegna che la lotta al fascismo non fu solamente europea. Sarebbe forse il caso di ripensare il 25 aprile in termini più vasti affinché l’antifascismo diventi un valore universale e perché gli altri non siano più considerati solamente come vittime di crudeltà e quindi passivi attori della Storia ma che venga loro riconosciuto di essere stati i primi a sconfiggere Mussolini.
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in foto: partigiani antifascisti etiopi, il 5 maggio 1941
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Click su frecce in alto a sin. per ingrandire (solo per pc)
Selassiè avrebbe potuto raggiungere la capitale alcuni giorni prima, ma rallentò la marcia perché volle compiere un vero e proprio pellegrinaggio, laddove si consumarono efferate stragi: Debre Marcos, Ficcé, Debra Libanos. Tenne discorsi incentrati sulla pacificazione nei quali invitò la popolazione a non compiere vendette contro gli italiani in quanto tali. Fece sempre una netta distinzione fra fascisti e italiani, anche negli anni successivi, pure nel 1970 quando si recò a Roma in visita ufficiale.
L’ASSENZA DI RAPPRESAGLIE unitamente all’invito rivolto a molti tecnici e operai di restare in Etiopia furono comportamenti e approcci da inquadrare entro una cultura tutto sommato pacifica, pur essendo gli etiopici orgogliosi delle proprie tradizioni guerriere, e capace di distinguere tra europei, italiani, bianchi e fascisti. Eppure revisionismo e negazionismo hanno spesso fatto leva su questo per sostenere che non vi furono rappresaglie perché la colonizzazione italiana non fu brutale e che tutto sommato portò a termine la sua missione civilizzatrice.
Sulla lotta di liberazione dei partigiani etiopici, arbegnuocc, purtroppo non esistono studi e ricerche esaustive ma solamente abbozzi. Da parte etiopica sono diversi i contributi che si basano sulle testimonianze orali, su interviste che, essendo state svolte per lo più tardivamente, non riguardano i principali comandanti partigiani, oppure su memorialistica e autobiografie non sempre scientificamente attendibili.
DA PARTE ITALIANA qualche informazione può essere ricavata dai volumi dei reduci che presero parte alle cosiddette Operazioni di grande polizia coloniale o dalle ricerche di storia militare che presentano però il forte limite di essere state svolte utilizzando soprattutto fonti italiane o britanniche. Ciò detto, è opportuno prendere atto del fatto che negli ultimi anni sono stati pubblicati importanti volumi sulle violenze e i crimini commessi dagli italiani.
Oltre le innumerevoli opere di Angelo Del Boca ricordiamo, dimenticando sicuramente qualcosa, gli studi di Giorgio Rochat, Nicola Labanca, Paolo Borruso, Ian Campbell, Simone Belladonna, Antonella Randazzo e il sottoscritto. Per quanto riguarda la divulgazione più che pregevoli sono i docufilm di Valerio Ciriaci, Sabrina Varani e Lucio Brunelli e i testi letterari di Francesca Melandri (Sangue giusto, bel volume, tradotto in più lingue) e Gabriella Ghermandi (Regina di fiori e di perle), artista italoetiopica, la quale ha raccolto le memorie, le canzoni e i detti dei partigiani del suo paese d’origine che riutilizza anche in spettacoli e concerti dal forte impatto emotivo.
INDIPENDENTEMENTE dalla frammentarietà delle varie ricerche, tali perché non offrono un quadro organico del fenomeno resistenziale degli arbegnuocc, possiamo stilare una cronologia per sommi capi ripartendola in tre fasi.
Dopo l’occupazione di Addis Abeba da parte di Badoglio nel maggio del 1936, il territorio dell’impero d’Etiopia per gli italiani rimase per parecchi mesi insicuro poiché al di fuori dei centri abitati imperversavano soldati nemici allo sbando e un gran numero di banditi, scifta.
Nelle regioni occidentali erano ancora in azione alcuni reparti del vecchio esercito etiopico ormai braccati e perennemente in fuga mentre in altre aree venivano segnalati continui scontri e assedi contro residenze, presidi o isolati fortini che il più delle volte si concludevano con pesanti sconfitte per gli etiopici. Si trattava di gruppi comandati da notabili del vecchio impero che si muovevano alla luce del giorno sfidando frontalmente il nemico perché per loro il combattimento era sinonimo di eroismo e per questo motivo doveva avvenire con criteri tradizionali e, in molti casi, all’arma bianca. Anche se isolati e circondati, gli italiani potevano contare su mitragliatrici, artiglieria e supporto da parte dell’aeronautica (bombardamenti, mitragliamenti e aviolanci).
NELL’ESTATE DEL 1937, dopo la proclamazione della guerra santa in risposta alle esecuzioni segrete avvenute nella zona del Lago Tana, alcuni comandanti partigiani tennero degli incontri nei quali stabilirono di darsi una struttura più snella e di ricorrere alla guerriglia. Diminuirono le perdite e gli attacchi cominciarono ad essere più efficaci. Si trattava però di una lotta condotta nel totale isolamento e con grande scarsità di mezzi, che divenne gradualmente sempre più ardua a causa della carestia e per l’invasione delle locuste. Inoltre le Operazioni di grande polizia coloniale e le relative violenze contro i villaggi e i civili aumentarono di numero e intensità. A Rodolfo Graziani vengono attribuite le più efferate stragi ma il suo rimpatrio non segnò una discontinuità, anzi. Con l’arrivo di Ugo Cavallero le cose non cambiarono, diciamo, piuttosto, che la ricerca non si è mai sufficientemente soffermata sulle sue responsabilità.
Con la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Gran Bretagna gli eventi presero decisamente una piega diversa. Gli arbegnuocc cominciarono a ricevere aiuti e molti si unirono alle truppe britanniche composte per lo più di kenioti, sudanesi e indiani. Ascari e bande collaborazioniste abbandonarono in massa gli italiani e tornarono ai loro villaggi.
OCCORRE RICORDARE che non vi fu solamente una resistenza in armi ma anche un’organizzazione ramificata persino tra coloro i quali offrivano servizi all’amministrazione coloniale: talpe e doppiogiochisti che raccoglievano informazioni e che svolgevano azioni di propaganda fin dentro i cosiddetti campi lavoro dove risiedevano operai, muratori, camionisti.
Alcuni italiani passarono dall’altra parte ma si contano sulle dita di una mano. Diverso fu il caso di Ilio Barontini che, insieme ad Anton Ukmar e Bruno Rolla, guidò una missione organizzata dal Partito comunista d’Italia e coperta dai servizi britannici. Rimase alcuni mesi tra i combattenti del deggiacc Mangascià del Goggiam dove insegnò l’utilizzo degli esplosivi, diede istruzioni sulle tecniche di guerriglia e diede alle stampe un giornaletto clandestino in lingua amarica e in italiano.
Per concludere. In occasione di una iniziativa in ricordo dei martiri delle stragi di Addis Abeba del 19-22 febbraio 1937 tenutasi a Roma lo scorso febbraio, la Association of Ethiopian patriots ha fatto pervenire agli organizzatori una lettera nella quale si può leggere: «le azioni delle associazioni che hanno a cuore l’Etiopia nel favorire presso il pacifico popolo italiano, soprattutto i giovani (…), sono molto incoraggianti. I vostri lodevoli sforzi servono cosicché questi crimini non vengano dimenticati».
Questo ci insegna che la lotta al fascismo non fu solamente europea. Sarebbe forse il caso di ripensare il 25 aprile in termini più vasti affinché l’antifascismo diventi un valore universale e perché gli altri non siano più considerati solamente come vittime di crudeltà e quindi passivi attori della Storia ma che venga loro riconosciuto di essere stati i primi a sconfiggere Mussolini.
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in foto: partigiani antifascisti etiopi, il 5 maggio 1941
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4 maggio 1954: LA STRAGE DEI 43 MINATORI DI RIBOLLA (GR)
“Rimasi quattro giorni nella piana di Montemassi, dallo scoppio ai funerali, e li vidi tirare su quarantatre morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Io mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare…
La sciagura di Ribolla non fu dovuta a una “tragica fatalità”, ma alla consapevole inadempienza di precise norme di polizia mineraria…
Non è stata fatalità, ripetiamo; la sciagura è successa perché non si teneva in sufficiente e doverosa considerazione la vita dei minatori”.
LUCIANO BIANCIARDI
___________
Il 4 maggio del 1954 in una miniera di lignite a Ribolla, gestita dalla società Montecatini, si verificò un’esplosione di grisou a 260 metri di profondità, provocando la più grave tragedia mineraria italiana del secondo dopoguerra. Quarantatré minatori persero la vita. Il processo contro i dirigenti della società, svoltosi a Verona per impedire che l’opinione pubblica locale ne condizionasse l’esito qualora si fosse tenuto a Grosseto, si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati.
Una tragedia annunciata, perché le misure di sicurezza erano poche e i pericoli invece erano tanti. Senza dimenticare quella strana coincidenza nella date, come se la Miniera pretendesse le sue vittime ogni dieci anni. Nel 1925 per uno scoppio di grisou, nel 1935 per una inondazione dopo l’esplosione di una mina, nel 1945 fu ancora il gas ad uccidere. Alle 8 e 40 del 4 maggio 1954 il destino della miniera fu deciso nella sezione «Camorra sud». Il primo turno era appena sceso, quarantasette persone, compreso il sorvegliante, avevano da poco iniziato a lavorare. L’esplosione fu di una violenza incredibile con effetti termici devastanti ma anche effetti dinamici di spostamento d’aria lungo le gallerie.
_________
Biblos: LUCIANO BIANCIARDI e CARLO CASSOLA: I minatori della Maremma: https://it.wikipedia.org/wiki/I_minatori_della_Maremma
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Qui sotto, il VIDEO dell'Istituto Luce dell'epoca:
La sciagura di Ribolla non fu dovuta a una “tragica fatalità”, ma alla consapevole inadempienza di precise norme di polizia mineraria…
Non è stata fatalità, ripetiamo; la sciagura è successa perché non si teneva in sufficiente e doverosa considerazione la vita dei minatori”.
LUCIANO BIANCIARDI
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Il 4 maggio del 1954 in una miniera di lignite a Ribolla, gestita dalla società Montecatini, si verificò un’esplosione di grisou a 260 metri di profondità, provocando la più grave tragedia mineraria italiana del secondo dopoguerra. Quarantatré minatori persero la vita. Il processo contro i dirigenti della società, svoltosi a Verona per impedire che l’opinione pubblica locale ne condizionasse l’esito qualora si fosse tenuto a Grosseto, si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati.
Una tragedia annunciata, perché le misure di sicurezza erano poche e i pericoli invece erano tanti. Senza dimenticare quella strana coincidenza nella date, come se la Miniera pretendesse le sue vittime ogni dieci anni. Nel 1925 per uno scoppio di grisou, nel 1935 per una inondazione dopo l’esplosione di una mina, nel 1945 fu ancora il gas ad uccidere. Alle 8 e 40 del 4 maggio 1954 il destino della miniera fu deciso nella sezione «Camorra sud». Il primo turno era appena sceso, quarantasette persone, compreso il sorvegliante, avevano da poco iniziato a lavorare. L’esplosione fu di una violenza incredibile con effetti termici devastanti ma anche effetti dinamici di spostamento d’aria lungo le gallerie.
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Biblos: LUCIANO BIANCIARDI e CARLO CASSOLA: I minatori della Maremma: https://it.wikipedia.org/wiki/I_minatori_della_Maremma
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Qui sotto, il VIDEO dell'Istituto Luce dell'epoca:
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GIANLUCA FOGLIA "FOGLIAZZA" -
25 Aprile 2024
MAICOL & MIRCO
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