top of page

ITALIA ARMAMENTI. L’Italia guadagna più di tutti dalle guerre: +86% di armi. Urge trasparenza

🚀 LE MALETESTE 🚀

12 mar 2024

Industria bellica a pieno regime dopo gli Stati Uniti, Francia, Russia, Cina e Germania. Gli affari armati vanno già molto bene, ma chi li controlla non vuole che siano visibili.
di ROBERTO CICCARELLI e FRANCESCO VIGNARCA

L’Italia guadagna più di tutti dalle guerre: +86% di armi

LO SPORCO BOOM. Rapporto Stockholm International Peace Research Institute (Sipri): record delle esportazioni in 4 anni, al sesto posto nell’economia di morte. Industria bellica a pieno regime dopo gli Stati Uniti, Francia, Russia, Cina e Germania. Bonelli (Avs): "È vergognoso che il Qatar importi più armi dal nostro paese, in uno scambio con il gas. Il Qatar è accusato di fornire armi anche a Hamas"


di Roberto Ciccarelli


L’Italia è il paese che sta guadagnando di più dalle guerre in corso. Ha aumentato più di ogni altro paese le sue esportazioni di armi: l’86% tra il 2019 e il 2023. Questo boom ha fatto fare un balzo alla sua quota nell’export mondiale di pistole, proiettili e quant’altro. Tra il 2014 e il 2018 valeva il 2,2 per cento, oggi esporta il 4,3. L’Italia è così diventata il sesto paese esportatore mondiale, dopo Stati Uniti, Francia, Russia, Cina e Germania.


Nello specifico, i maggiori acquirenti di armi italiane – per la maggior parte velivoli terrestri, aeromobili, siluri, bombe, missili e razzi – sono, in ordine, Qatar (27% delle vendite), Egitto (21) e Kuwait (12). L’Italia è poi il secondo fornitore della Turchia e il terzo della Norvegia, del Brasile e della Francia, che acquista da Roma il 18% dei suoi sistemi d’arma.


Si tratta di un record superiore a quello francese. L’industria della distruzione di questo paese si è piazzata al secondo posto con +47 per cento, un aumento prodotto soprattutto dalla vendita dei suoi aerei da combattimento.


SONO I DATI dell’ultimo report pubblicato ieri dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), un gruppo di scienziati svedesi amanti della pace che tengono sotto controllo le fibrillazioni della terra e quelle prodotte dal commercio delle armi. «È vergognoso – ha detto Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde alleato con Sinistra Italiana in parlamento (Avs) – che il paese che importa più armi dal nostro paese sia proprio il Qatar, in uno scambio di armi per il gas che è moralmente riprovevole alla luce delle accuse che vedono armi fornite dal Qatar finire nelle mani di organizzazioni terroristiche come Hamas. Ma Giorgia Meloni, che ne dice di questa vergogna? Questo accordo evidenzia una doppia dipendenza nociva del nostro Paese: dai combustibili fossili e da regimi che non esitano a sfruttare il mercato delle armi per i propri fini ambigui, calpestando la vita e i diritti umani».


NELL’ ECONOMIA DI GUERRA tracciata dal rapporto sui flussi commerciali militari si è rafforzata anche la concorrenza interna all’Unione Europea. Se da un lato, la Francia e soprattutto l’Italia hanno registrato un aumento del loro export, altri paesi hanno invece perso contratti. La Germania ha perso il 14 per cento del suo export in armi, la Gran Bretagna il 14, la Spagna il 3,3. Israele, considerato afferente all’economia europea, avrebbe perso il 25 per cento nel periodo considerato.


IL SIPRI ha segnalato che i principali importatori delle armi europee sono in Asia, Oceania e Medio oriente, dove si trovano nove paesi dei dieci maggiori importatori. Il 55 per cento delle armi importate dagli alleati europei arrivano dagli Stati Uniti, era il 35 per cento nel periodo 2018-2018. Gli Stati Uniti in questo periodo hanno aumentato del 17 per cento le armi esportate nel mondo.


LA GUERRA RUSSA in Ucraina, e il rilancio della Nato, hanno modificato gli equilibri in questo mercato di morte. Mentre gli Stati Uniti, e i loro alleati militari, aumentavano le loro esportazioni, nello stesso periodo quelle della Russia si sono dimezzate (meno 53 per cento). Mosca ha perso volumi e clienti: nel 2019 ha venduto a 31 Paesi, nel 2023 a 12. Il 68 del suo export è diretto in Asia e Oceania, il 34 per cento in India, il 21 per cento in Cina.


LE IMPORTAZIONI di armi da parte della Cina sono diminuite del 44 per cento dal 2019 al 2023 rispetto ai cinque anni precedenti, collocando il Paese asiatico al decimo posto nella lista dei maggiori acquirenti mondiali di armamenti stranieri. Nel quadriennio analizzato dal Sipri la Cina ha mantenuto una quota elevata di acquisti dalla Russia, che ha contribuito al 77 per cento delle importazioni nel paese asiatico, seguita dalla Francia con una quota del 13 per cento. L’Ucraina, le cui importazioni si sono attestate all’8,2 per cento, è rimasta la principale fonte d’approvvigionamento di turbine a gas per cacciatorpediniere, oltre che di motori per aerei da combattimento leggeri e da addestramento L-15.


L’UCRAINA è il quarto importatore di armi nel mondo. Il principale nel 2023. Almeno 30 paesi riforniscono Kiev dopo l’inizio dell’invasione russa. Fra il 2019 e il 2023, i rifornimenti a Kiev hanno assorbito il 23 per cento delle importazioni in Europa.


PER CHI STA AL VERTICE della Fortezza Europa, e si sta adoperando ad armare questa sghemba aggregazione tecno-burocratica di Stati-Nazione combattenti, il problema è gestire la concorrenza interna sulle armi ed equilibrarla con quella esterna. Un esempio dei toni bellicisti che spirano nel continente, anche in vista delle elezioni europee del 9 giugno, è quello del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel. Per MIchel la soluzione si chiama «European Peace Facility».


IN UNA PRIMA FASE il conflitto russo-ucraino «ha incoraggiato l’industria europea a produrre di più. E ha permesso un meccanismo di solidarietà per la sostituzione degli stock» di munizioni. Ora, però, si tratta di strutturare investimenti e coordinamento affinché le industrie europee non si facciano concorrenza. C’è una proposta di Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno e i servizi della commissione Ue, che vorrebbe sviluppare un «mercato unico della difesa». L’uso della Banca Europea degli investimenti (Bei) potrebbe essere inoltre ripensato in questa prospettiva.


«DOBBIAMO potenziare molto velocemente la nostra capacità industriale di difesa nei prossimi cinque anni» ha aggiunto la presidente della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen. «L’Europa – ha aggiunto – deve spendere di più» per la difesa, dando priorità agli «appalti congiunti». «Proprio come abbiamo fatto con i vaccini o con il gas naturale».


DIRIMENTE, in questa torsione dei vertici europei, è stata la guerra in Ucraina. Secondo l’«alto rappresentante» della politica estera Ue, lo spagnolo Josep Borrell (un socialista), «il conflitto si è evoluto da una guerra di scorte a una guerra di produzione». Borrell ieri ha aggiunto che la produzione di munizioni deve essere ulteriormente incrementata perché limitata «non tanto dalla mancanza di capacità produttiva, ma piuttosto dalla mancanza di ordini e finanziamenti», aggiungendo che i leader del settore sostengono che «effettuando ordini ne produrremo di più». Borrell ha invitato gli Stati membri a lavorare insieme, sottolineando che «non stanno ancora coordinando la pianificazione e gli appalti della difesa».


PAOLO GENTILONI, commissario Ue all’Economia (ex presidente del consiglio, in quota Pd), ha inoltre ipotizzato il ricorso agli «Eurobond» per finanziare un piano di riarmo da 100 miliardi di euro «all’anno». Progetti che con ogni probabilità continueranno anche con la prossima commissione Ue. E contemplano anche l’ipotesi estrema, quella dettata la lucido delirio del presidente francese Macron secondo il quale non andrebbe esclusa «una guerra con Putin». Cioè un conflitto nucleare.


NELL’ATTESA, ha aggiunto Macron, bisogna «assicurarsi di avere la giusta quantità di materiale e la superiorità tecnologica di cui potremmo avere bisogno in futuro». In queste uscite pesano, tra l’altro, le avvisaglie di un cambiamento politico di rilievo negli Stati Uniti: il paventato ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump dal quale si attende un cambiamento della strategia della Nato (che ha comunque chiesto l’aumento della spesa militare al 2 per cento del Pil) e del finanziamento della guerra in Ucraina.



 


Un mercato che non può sfuggire ai controlli

AFFARI BELLICI. I dati del Sipri di Stoccolma sono sempre molto utili per andare a corroborare con numeri e cifre le tendenze del mercato delle armi, in generale delle spese militari, che […]


di Francesco Vignarca

I dati del Sipri di Stoccolma sono sempre molto utili per andare a corroborare con numeri e cifre le tendenze del mercato delle armi, in generale delle spese militari, che sono evidenti a chi si occupa di questo settore. In particolare i Trends in international arms transfers appena usciti con riferimento al 2023 ci permettono di capire quali industrie militari (e di conseguenza quali Paesi) stiano spingendo sul commercio di armi non solo come fonte di ritorno economico ma anche – in alcuni casi soprattutto – come strumento di influenza e intervento nei conflitti e nelle zone più turbolente del globo.


Per tali motivi è sicuramente importante valutare gli aspetti più rilevanti che si possono trarre dagli ultimi dati.Ricordando che le cifre del Sipri sul commercio di armi fanno riferimento ad un trend-indicator value (Tiv) che per sua natura va preso come segnale di una dinamica e non nel suo valore assoluto.


Il primo elemento riguarda il valore globale del commercio di armi, che continua a salire sia su base annua che valutando andamenti a blocchi di cinque anni (per sua natura sia di accordi che di produzione, la vendita di armamenti si realizza su periodi medio-lunghi, da qui la necessitò di uno sguardo pluriennale). Non deve trarre infatti in inganno che l’ultimo quinquennio abbia totali leggermente inferiori al precedente, perché in tale periodo sono inseriti gli anni del Covid che hanno in un certo senso messo in pausa anche l’economia di questo comparto. La ripresa degli ultimi due anni è già ben visibile e sicuramente andrà a rafforzarsi ulteriormente nell’immediato futuro, a causa delle robuste crescite già previste per la spesa miliare nel suo complesso e per quella particolare relativa al procurement armato.

Tendenza che va ad irrobustire un aumento di spesa militare comunque già presente, ma che viene accelerato dal coinvolgimento in conflitti di grossa portata di alcuni tra i maggiori produttori di armamenti (Ucraina e Palestina su tutti).Se la spesa militare globale è quasi raddoppiata negli ultimi venti anni non è dunque un caso che anche il commercio di armamenti abbia subito un trend di crescita chiaro, dopo il punto di minimo toccato alla fine del secolo scorso.


Il secondo elemento è quello relativo ai paesi esportatori e alle direttrici di vendita internazionale. L’invasione dell’Ucraina, che inizialmente lo stesso Putin ipotizzava poter essere un volano per le armi russe ma che poi si è trasformata in una guerra più lunga di quanto atteso, ovviamente ha fatto crollare l’export militare di Mosca prontamente sostituita da altri Paesi fornitori. Tra essi sicuramente la Francia, che ha strategie di vendita pubblico-private molto aggressive in questo comparto, ha saputo approfittare della situazione anche se ovviamente rimangono sempre gli Stati uniti i veri protagonisti dell’export di armamenti: oltre il 40% del mercato internazionale è loro appannaggio.

Un dato davvero rilevante ed esplicito. Figlio anche del raddoppio di importazioni di armamenti da parte dei paesi europei (per il 23% dovuto al dato dell’Ucraina) che nel quinquennio 2019-23 hanno avuto origine negli Usa (era solo il 35% nei quinquennio precedente).Nonostante ciò il commercio internazionale di armi continua ad avere una direzione precisa: dagli stati produttori (in particolare occidentali, più Russia e Cina) a quelli in cui le tensioni sono maggiori, e dunque si cerca di influenzare se non alimentare il conflitto. Non a caso è verso l’Asia e l’Oceania che finisce il 37% di tutte le armi esportate nell’ultimi lustro, seguite dal Medio oriente con il 30%.


E l’Italia dove si colloca, in questo quadro? Due sono gli elementi chiave da trarre dal +86% di balzo registrato (con una quota di mercato pari al 4,3% del commercio internazionale di armi).


Il primo è la conferma della stessa, problematica, direzione di vendita: il 71% delle esportazioni di armi italiane degli ultimi cinque anni è finito in Medio oriente.


Il secondo è la chiara smentita delle motivazioni date dal governo e dalla lobby dell’industria militare (con analisti collegati) alla proposta di peggioramento della Legge 185/90: non è vero che le aziende italiane delle armi siano più controllate e quindi fragili rispetto alla concorrenza (anche europea).


Gli affari armati vanno già molto bene, ma chi li controlla non vuole che siano visibili: motivo in più per sostenere la grande mobilitazione promossa dalla società civile per mantenere trasparenza sul commercio di armi.


fonte: ilmanifesto.it - 12 marzo 2024

bottom of page