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PASCOLARE LE CAPRE È UN PIACERE UNICO

🐐 LE MALETESTE 🐐

15 mag 2025

Intervista alla pastora e scrittrice Marzia Verona premiata con una della Bandiere Verdi assegnate dalla Carovana delle Alpi di Legambiente - MAURO RAVARINO

di Mauro Ravarino

15 maggio 2025


Quando la raggiungiamo al telefono, prima che la linea si stabilizzi, un’orchestra intonata di campanelle accompagna l’attesa. Sono le capre di razza valdostana di Marzia Verona, scrittrice e pastora, premiata con una delle Bandiere verdi assegnate dalla Carovana delle Alpi di Legambiente.


Scelta «perché ha saputo ascoltare le persone delle montagne, cercando di comprendere le loro difficoltà, mettendosi nei loro panni e vivendo sulla propria pelle le sfide, i problemi e il fascino dell’allevamento in alta quota». Mentre la contattiamo si trova al pascolo, a mille metri, sopra Nus, piccolo comune in provincia di Aosta. Con le capre che scampanellano e il cane Miel che sta scavando una buca. Nella tasca del gilet ha come sempre un libro e un quaderno, «a seconda se voglio leggere o scrivere».


Nella sua carriera ha pubblicato diversi libri: l’ultimo è il romanzo L’ora del pastore (Araba Fenice, 2022), qualche anno prima era invece uscito Storie di pascolo vagante (Laterza, 2016), in cui accompagnava il lettore in una scoperta sorprendente del mondo dei pastori nomadi. Un mondo che ha vissuto dall’interno.


Per ricevere il premio ha dovuto abbandonare il gregge, cosa significa questo per lei e che effetto le ha fatto riceverlo?

È un lavoro che ti impegna 365 giorni l’anno, fatto di fatica e passione. Il mio compagno ha una piccola azienda agricola e ci siamo organizzati per permettermi di andare a ricevere il premio a Orta San Giulio (Novara). La maggior parte del tempo lo dedico agli animali, l’altra alla scrittura e alla divulgazione. Mi ha fatto piacere questo riconoscimento anche perché dei pastori si sa poco, se si escludono quadretti romantici o pittoreschi e stereotipi vari. Nasco come tecnico, sono laureata in scienze forestali e ambientali, mi sono avvicinata alla pastorizia ascoltando le storie dei pastori.


La motivazione del premio sottolinea questo suo piglio da antropologa. È così?

Sì, non me ne vogliano gli antropologi di professione, mi è sempre piaciuto osservare, ascoltare e raccogliere testimonianze. Non vengo da una famiglia di pastori, sono nata e cresciuta in Piemonte. Sono entrata a far parte di questo mondo rubando con gli occhi, non è un mestiere che può essere insegnato sui banchi di scuola. In realtà esistono delle scuole di pastorizia, dove magari si può imparare a gestire un’azienda, ma certe nozioni si capiscono solo accanto a persone di esperienza, osservando quello che fanno dal vivo.


Quando è stato il momento di svolta nella sua vita?

Probabilmente nel 2003, ero fresca di laurea in scienze forestali ed ero impegnata per conto della Regione Piemonte in un censimento delle strutture d’alpeggio nelle province di Torino e Cuneo. Compilando con un pastore una scheda, dove bisognava indicare il luogo di provenienza degli animali, la sua risposta mi spiazzò: «I miei animali non hanno mai visto una stalla», mi disse. Praticava, infatti, il cosiddetto pascolo vagante, che non è un nome suggestivo detto a caso ma risponde a una definizione di una normativa sanitaria. Si tratta di una pratica di allevamento nomade, in perenne spostamento. Greggi che attraversano territori e regioni, montagne e pianure. Riguarda in particolare greggi di pecore con qualche capra, più raro con i bovini. È una pratica diffusa in tutto il Nord Italia, dal Piemonte al Friuli. Per me fu una folgorazione, i pastori mi dicevano: «Attenta che ti prendi la malattia».


E alla fine com’è andata?

La malattia, quella per la pastorizia e per gli animali, l’ho presa. Non sono pentita, ogni giorno si impara qualcosa. Ho fatto pascolo vagante per un po’ di anni, ora è un pascolo tradizionale: siamo a venti minuti da casa. Non è un lavoro facile, in montagna il clima è mutevole e ci vuole dedizione. Il tempo richiesto è forse la limitazione maggiore per chi vuole intraprendere questo mestiere. Gli animali, d’altronde, non possono essere mai trascurati. Può capitare quel giorno in cui ti senti soffocare, ma poi ti guardi intorno ed essere qui con i miei animali resta qualcosa di unico. Le capre sono anarchiche, ciascuna con il proprio carattere. Oltre alle capre di razza valdostana, riconoscibili per le grandi corna pure negli esemplari femminili, abbiamo anche delle vacche di cui vendiamo il latte al caseificio.


E in tutto ciò che ruolo gioca la scrittura?

I miei primi libri erano saggi con interviste per raccontare ambiti specifici come il pascolo vagante. Da quando ho più tempo per stare con gli animali, qui al pascolo, ho sperimentato la narrativa. Nei romanzi posso inserire tematiche che mi stanno a cuore e raggiungere un pubblico più ampio e non specializzato. Scrivo su carta, il tablet che ho provato non era compatibile con l’irruenza delle caprette. Ho letto la classica letteratura di montagna, uno su tutti Nuto Revelli, ma sono onnivora nelle letture.


I cambiamenti climatici come influiscono sulla pastorizia?

Sono sotto gli occhi di tutti, nonostante qualcuno ancora li neghi, compreso qualche allevatore. Quest’anno non c’è problema di cibo per le mie capre, c’è tantissima vegetazione visto che piove tutti i giorni. Il territorio non si è però dimenticato la terribile siccità di due anni fa, ci sono ancora i segni, vedi le piante morte. Anche la troppa pioggia è un problema perché non si riesce mai a far fieno. Tutti elementi che incidono su un bilancio aziendale. E, se non è certo una singola annata a definire il cambiamento climatico, le temperature non sono più quelle di un tempo. Se parli con un anziano, ti dirà che una volta non si pascolava a Natale, faceva troppo freddo e c’era troppa neve. Non è più così.


E di una montagna trasformata in parco giochi per turisti cosa ne pensa?

È una questione delicata, ci sono problemi di convivenza. Basterebbe comprendere che gli alpeggi o le malghe non sono un parco giochi ma un luogo di lavoro di chi vive in montagna. Basterebbe seguire delle regole di buon senso, di rispetto reciproco e di rispetto del territorio, invece di abbandonare immondizia nella natura. Servirebbe più ascolto e comprensione.



Fonte: ilmanifesto.it - 15 maggio 2025

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