
LE MALETESTE
23 nov 2025
La trappola post-fascista sull’ordine pubblico di Enrico Manera.
Dare un nome a una paura: maranza di Gabriel Seroussi.
Caccia al Nemico pubblico di Angelo Miotto.
Bauman e la sicurezza: perché il futuro genera paura? di David Bidussa.
Securitarismo e disuguaglianze: le radici di una crisi democratica di Anna Simone.
di La Redazione di PUBBLICO
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
22 novembre 2025
All’ultimo esame di accesso alla professione giornalistica del 28 ottobre, una delle tracce di attualità proponeva una narrazione stereotipata e allarmistica su “anarchici, antagonisti, collettivi studenteschi e maranza”, descritti come responsabili delle violenze nelle piazze italiane.
Il testo accostava i “maranza” – una categoria sociale associata alla cultura delle periferie e alle seconde generazioni – a un pericolo per l’ordine pubblico (Scomodo). La traccia, diffusa online, ha suscitato un esposto all’Ordine dei Giornalisti per il suo carattere “discriminatorio, inopportuno e contrario ai principi deontologici”, raccogliendo 128 firme (Professione reporter).
Secondo un’indagine Eurispes, il 52,5% degli italiani ritiene che i reati legati al teppismo e alla delinquenza giovanile siano aumentati nella propria zona. I dati del Ministero dell’Interno mostrano invece che la quantità di reati giovanili non cresce: nel 2023, nella fascia 14-17 anni ha registrato una diminuzione del 4,15 % del numero di denunciati/arrestati rispetto al 2022.
Dato il peso pubblico e politico dei temi legati alla sicurezza, sarebbe fondamentale garantire trasparenza, scrive Roberto Cornelli: le banche dati utilizzate nei rapporti ministeriali e delle forze di polizia dovrebbero essere accessibili a Università, enti di ricerca e cittadini, così da permettere un dibattito informato e realmente democratico.
Nella terza stagione del podcast “Ellissi”, l’attore e autore Gianmarco Saurino racconta le storie dei diritti violati dalle forze di polizia, cioè da quelle stesse autorità che dovrebbero proteggere. Violenze, come afferma l’autore, che generano “un paradosso fortissimo, che mostra come certi diritti, in Italia, restino appannaggio di una parte. Ma i diritti umani non sono di sinistra o di destra. Sono di tutti” (Domani).
Le organizzazioni per i diritti civili europee segnalano l’uso crescente di misure penali e forza fisica contro movimenti ambientalisti, accampamenti studenteschi pro-Palestina e proteste sociali: sgomberi forzati, tecniche dolorose di immobilizzazione —“pain grips” —, idranti e spray urticanti su manifestazioni pacifiche in paesi come Germania, Olanda, Irlanda e Svezia (Liberties).
A livello europeo, la reazione repressiva contro movimenti ambientalisti — “greenlash” — sta contribuendo ad una forte restrizione della libertà di associazione e di manifestazione nei paesi membri (Carnegie endowment).
In Spagna proliferano società “sgombera-occupazioni” come Desokupa, che vantano migliaia di sgomberi extragiudiziali con metodi intimidatori, diventando un attore politico della destra sul tema casa (Ft).
Nel Regno Unito e in altri paesi Ue aumentano i raduni anti-migranti e anti-rifugiati, spesso organizzati o amplificati da gruppi dell’estrema destra, con le autorità che rispondono schierando migliaia di unità antisommossa per il timore di scontri (Guardian).
In Irlanda fino a 2.000 manifestanti con bandiere nazionali e retorica anti-migranti assediano un hotel che ospita richiedenti asilo. La polizia irlandese parla apertamente di “teppismo” e segnala il ruolo della destra radicale nel fomentare la piazza (Guardian).
***
La trappola post-fascista sull’ordine pubblico
20 Novembre 2025
I recenti fatti avvenuti in alcune scuole superiori di Torino risultano paradigmatici dell’accelerazione verso il nero che caratterizza i nostri anni, sia per le ambiguità che coinvolgono partiti di governo e forze di polizia sia per la centralità politica dell’educazione in questo specifico momento.
I volantini “contro la cultura maranza”.
La mattina del 27 ottobre 2025 a Torino forze di pubblica sicurezza hanno scortato e protetto un volantinaggio di Gioventù nazionale davanti a una delle sedi dell’IIS Einstein. In una scuola considerata “di sinistra” e in cui è presente un collettivo molto attivo sono stati distribuiti volantini “contro la cultura maranza”.
Alle proteste degli studenti/sse per quella presenza sgradita sono seguiti momenti di concitazione; gli agenti sono entrati in azione in assetto da manifestazione e hanno fermato un sedicenne, portato via in manette.
Le testimonianze parlano di provocazioni da parte dei “giovani di destra”, spinte e insulti ai danni di ragazze che rifiutavano di prendere i volantini, in un clima di sconcerto e paura; cose che non risultano nei resoconti ufficiali. I disseminatori di volantini attivi nella propaganda sono adulti preparati al confronto di strada e i loro video, divenuti virali nei network di area, sono stati girati con operatori e montaggi ad hoc.
A seguito del clamore suscitato dai fatti, e delle richieste di chiarimento in Comune, Regione e Parlamento, la direzione di Gioventù Nazionale si è dissociata dagli eventi, mentre altre fonti lo rivendicavano: la destra sembra non riconoscere i propri militanti né la propria base, i “retrobottega” di partito di cui è storicamente accertato l’uso della violenza di strada e dell’eversione, tollerato e dosato.
Allo stesso modo, sono sembrate poco convincenti le spiegazioni della presenza immediata sul posto delle forze di Pubblica sicurezza, con un dispiegamento fuori misura. Un contesto scolastico che richiede specifica sensibilità e attenzione è stato trattato come questione di ordine pubblico e generica violenza, nel più ampio scenario ideologico di allarme legato alle mobilitazioni per la Palestina e contro le guerre.
Solidarietà contro repressione
Lo scenario è inquietante, anche se non sorprende. C’è una regìa di provocazione e repressione, azioni organizzate dagli strateghi delle “guerre culturali” per creare casi politici in favore della propaganda populista e del protagonismo della destra locale, che li sfrutta per posizionarsi a livello nazionale e di area.
La solidarietà di studenti, docenti e associazionismo è stata immediata e ha riattivato il coordinamento tra le forze democratiche e antifasciste che sta producendo riflessione per promuovere un argine culturale contro le destre e presìdi territoriali contro intolleranza e autoritarismo, con proposte per disinnescare le provocazioni fasciste e per una più ampia mobilitazione sul tema della cittadinanza.
Mancano infatti ovunque spazi di adeguato confronto tra docenti, studenti, genitori; e mentre le scuole diventano oggetto di violenza di tipo squadrista, come a Roma o Genova, una miope opinione pubblica criminalizza l’impegno di sinistra, enfatizzandone i passi falsi dello spontaneismo, o si lagna di una generica ondata generazionale di degrado e decadenza; salvo poi difendere i nuovi (post-)fascisti sottovalutandone la pervasività e benedire la loro copertura istituzionale nel nome della libertà di espressione.
Saper riconoscere cos’è democrazia
La campagna a Torino contro la “cultura maranza”, un pastiche in cui si sovrappongono stereotipi su “immigrati”, “baby gang”, writers e “zecche comuniste”, è una riformulazione di parole d’ordine e retoriche fascistizzanti.
Questi e simili messaggi sono stati portati nel quartiere di Barriera di Milano, etichettato con disprezzo come “problematico” (dove si intende “ad alta densità di migranti”), con intento razzista e islamofobo e sono stati rigettati da chi opera nel costruire alleanze educative.
Tale configurazione di idee si innesta su un allarme securitario e promuove censura, silenzio e autoritarismo nelle scuole, come mostrano indicazioni ministeriali e prassi di alcuni dirigenti scolastici, volte a sterilizzare la discussione con il silenzio o con una malintesa par condicio. Il che rinforza la polarizzazione, l’immaturità, la strumentalizzazione proprio dove si dovrebbero aiutare giovani cittadini/e a crescere. (...)
*** Enrico Manera (Torino, 1973)
è docente di storia e filosofia nei licei e ricercatore presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Torino (Istoreto), è specializzato in Scienze della cultura e dottore di ricerca in Filosofia teoretica, morale ed ermeneutica.
Autore della monografia Furio Jesi. Mito, violenza, memoria (Carocci 2012) ha curato con Giovanni Leghissa il volume collettivo Filosofie del mito nel Novecento (Carocci 2015). I suoi studi nell’ambito della storia delle idee vertono sulle teorie del mito e della memoria culturale in età contemporanea.

Caccia al Nemico pubblico
20 Novembre 2025
Chi colpisce davvero il governo Meloni?
Chi è il public enemy di Giorgia Meloni? In uno scatto fotografico lo troveremmo ritratto dietro i manganelli. In piazza o in uno sfratto, fra chi dissente o chi rivendica diritti.
E per questo, però, vale la pena domandarsi anche: quali sono i ceti sociali e le istanze culturali e di diritto che soffrono di più sotto il governo delle destre?
La lista, a studiare provvedimenti economici, sociali e fiscali, è presto fatta: persone a basso reddito, famiglie povere, ex beneficiari del reddito di cittadinanza, il ceto medio con le note difficoltà salariali, lavoratori precari con contratti instabili o salari bassi, famiglie giovani e con figli, le regioni del Sud, dove la povertà è più diffusa.
Ma come! – qualcuno si domanderà -, e chi l’ha votato Fratelli d’Italia? Il partito di maggioranza ha raccolto nel 2022 oltre sette milioni di voti; tutto il governo raggiunge oltre il 12%, cioè il 27% degli italiani.
Ma proseguiamo: alle scelte di politica economica e fiscale dell’Esecutivo si devono aggiungere le battaglie ideologiche che vanno a colpire i diritti; quello alla libera circolazione delle persone, il diritto alla casa, il diritto di espressione, il dissenso, il continuo attaccare il sindacato, il diritto allo sciopero.
E così assistiamo in maniera crescente al volteggiare dei manganelli sugli studenti, nelle occupazioni, negli sfratti esecutivi, oltre ai nuovi entusiasmi degli estremisti di destra, che, con le spalle coperte e spesso indisturbati, assaltano, distruggono e picchiano.
Dal punto di vista operativo, le Digos (Polizia moderna, 2025) hanno eseguito 29 misure cautelari e denunciato 296 persone per reati di terrorismo, di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, ovvero di matrice politica.
Infine, siamo dentro una compressione dei diritti acquisiti nelle lotte sociali ed economiche del ‘900 che si fonda su teorie identitarie e securitarie, come se avessimo ulteriormente importato dagli Usa un’altra palata di sovranismo, ma declinato ‘alla Meloni’.
Una società più povera e più controllata
L’erosione dei diritti acquisiti è costante.
La retorica e la propaganda, amplificata dai fogliacci della destra e dai suoi araldi, tutti rigorosamente invitati negli studi della tv pubblica e privata, riescono ancora a evocare le vecchie tecniche del berlusconismo (‘chi non salta comunista è’) o a evitare risposte, oppure a lanciare melassa nelle orecchie del pubblico televisivo: ‘tutto va bene’, ci dicono sorridenti, tipico messaggio dell’autoritarismo.
Ma bene per chi? Il rapporto della Caritas 2025, ci dice che: “Dal 1990 al 2020, l’Italia è il fanalino di coda dei Paesi OCSE e l’unico Paese con un valore negativo (-2,9%) di variazione dei salari reali medi”.
C’è una forbice che si sta allargando a dismisura nel nostro Paese:
“Nel 2023, ogni italiana o italiano deteneva in media circa 190.000 euro di patrimonio, scrive la Caritas. Il patrimonio medio dei 50,000 adulti più ricchi del paese è più che raddoppiato rispetto agli anni Novanta, mentre i 25 milioni di italiani più poveri hanno visto la propria ricchezza media ridursi di più di tre volte e oggi detengono un patrimonio medio di circa 7 mila euro pro-capite. Si stima che almeno 10 milioni di adulti abbiano risparmi liquidi inferiori ai 2.000 euro”.
Human Rights Watch sottolinea nel suo Report 2025 grandi problemi su migrazione, lotta alla violenza di genere, povertà, diseguaglianza e che a ottobre 2024 “la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza ha raccomandato misure per contrastare il razzismo all’interno delle forze dell’ordine e il persistente pregiudizio nei confronti dei Rom”.
‘Chiamatemi Giorgia': le risate, il broncio da dura, la pletora di riciclati dalle organizzazioni fasciste di gioventù che ora hanno la cravatta nel Palazzo; il potere vive nel messaggio. Poche interviste, quasi nessuna conferenza stampa, veline ‘attribuibili alla Presidenza del Consiglio’, in un clima di aggressività contro il giornalismo specie di inchiesta (Report e l’attentato a Sigfrido Ranucci e gli odiatori scatenati contro chi chiede trasparenza o esprime un parere diverso).
Vale sempre citare Hannah Arendt, fatto salvo che non siamo dentro una dittatura totalitaria, ma in uno scivolamento costante verso limitazioni e imposizioni che non trovano risposte antagoniste di contenimento:
“Ciò che permette a una dittatura totalitaria, o a qualsiasi altra dittatura, di regnare è la disinformazione delle persone; come possiamo avere un’opinione se non siamo informati? Quando tutti ci mentono costantemente, il risultato non è che crediamo a quelle bugie, ma che nessuno crede più a nulla. […] E un popolo che non può più credere a nulla non può formarsi un’opinione. È privato non solo dell’azione, ma anche della capacità di pensare e giudicare. E con un popolo simile si può fare quello che si vuole”.
Repressione, disuguaglianze e il rischio di un nuovo scivolamento
Se molti si immaginavano di vedere una predilezione per l’ambito di azione della destra sociale, lo sfratto di Bologna del 23 ottobre scorso e l’inazione verso le classi più povere degli e delle italiane ha detto tutta un’altra cosa: ordine e sicurezza, ma solo per gli italiani, con i caschi azzurri della polizia e i manganelli, a ricordare lo stornello.
E così è stata anche la presenza di polizia e mezzi nelle proteste per Gaza con le piazze stracolme di studenti, con cariche e lacrimogeni sui cortei, gli idranti, i discorsi d’odio paragonando il dissenso ad Hamas. Occupazioni scolastiche con professori delatori, grazie alle norme del ministro Valditara, giovani costretti a travisarsi, scuole di Genova prese d’assalto da bande di destri che distruggono e imbrattano e questure che non sanno, non vedono, non odono.
Agenti prodighi di bastonate, invece, laddove la nostra Repubblica prevede l’istituto della polizia a difesa dei cittadini, tutti i cittadini, soprattutto gli emarginati e i più poveri. E invece.
Pene aumentate per resistenza a pubblico ufficiale – cioè qualsiasi cosa l’agente dica -, avvocati per le divise violente pagati dal governo, niente sospensione in caso di denuncia.
Non un bel panorama, se non per la casta dei ricchi, che continua a crescere: secondo Oxfam nel 2024 la ricchezza dei miliardari italiani è aumentata di 61,1 miliardi di euro – al ritmo di 166 milioni di euro al giorno – raggiungendo un valore complessivo di 272,5 miliardi di euro detenuto da 71 individui. La classe media, invece, si impoverisce e scivola in basso.
Il privato e il profitto che viene dal privato diventa una questione predominante e ideologica, con agenti di pubblico servizio che operano come se fossero più dei bodyguard che da istituzione a salvaguardia della popolazione.
C’è un lento scivolamento, lo stesso che contraddistingue l’insidioso infiltrarsi di una mentalità fascista dentro il corpo sociale, con accenti identitari e cercando di costruire il solito nemico, che oramai non c’è più.
Come scrive la giornalista e saggista francese Salomé Saqué in Resistere (Payot, 2024): c’è un solo modo per far sì che non si sbricioli la democrazia ed è prendersi cura di essa. Lo deve fare il popolo. E il popolo siamo noi, noi siamo la democrazia. Il capitolo da cui ho tratto queste ultime parole si intitola: Svegliamoci! Una esortazione pedagogica.
*** Angelo Miotto
Nato a Milano, classe 1969. È giornalista, comunicatore e podcaster. Ha lavorato per diversi anni nella radiofonia, Radio popolare, per poi sperimentarsi nel web e carta stampata – Peacereporter ed E Il Mensile – con incursioni nel webdocumentario, documentario video e audiodoc. È fondatore e direttore di Q Code Mag, rivista di geopoetica, insieme a Christian Elia. Nel 1997 con Filippo Del Corno e Carlo Boccadoro fonda Sentieri selvaggi, ensemble di musica contemporanea. È autore di diversi saggi per i tipi di Altreconomia, Verde Nero, NdA, Milieu editore. Dirige la comunicazione di Avanzi, Sostenibilità per Azioni e del Festival dei Diritti Umani.

Dare un nome a una paura: maranza
20 Novembre 2025
In questo estratto, tratto dal libro “La periferia vi guarda con odio. Come nasce la fobia dei maranza” (Agenzia X, 2025), il giornalista Gabriel Seroussi sottolinea che la retorica contro i maranza nasce da due paure profonde dell’Italia: i giovani e le persone non bianche, proprio mentre le seconde generazioni iniziano a rivendicare spazio, visibilità e potere culturale, soprattutto attraverso la musica rap. Dietro lo stereotipo “maranza”, c’è una realtà viva, dinamica e in trasformazione.
I maranza, diventati ormai fenomeno mediatico nazionalpopolare, si trovano vittime di rappresentazioni imposte dall’alto. Infatti, se da una parte su TikTok prevale il racconto folcloristico dei maranza che attraverso l’ironia propone una versione macchiettistica ma benevola del fenomeno, dall’altra sui media si propaga una narrazione che demonizza e deumanizza questa figura.
La parte più conservatrice del paese si impegna in una criminalizzazione dei maranza, attraverso una retorica razzista e classista. L’esempio più calzante, in questo senso, è la trasmissione televisiva di Rete 4 Dritto e rovescio, diretta da Paolo Del Debbio.
Nella quinta stagione del talk, quella iniziata nell’autunno del 2023, il presentatore inizia a ospitare nel suo salotto giovani che si definiscono maranza.
In cerca di fama e attenzioni, queste persone si prestano a dibattiti umilianti e razzisti che hanno la sola finalità di alimentare le paure dei telespettatori di Rete 4.
Schiacciati tra un blocco dedicato all’“Islam che fa paura” e un’intervista al ministro dell’Interno Piantedosi sugli sbarchi irregolari, in una delle puntate autunnali sono presenti in studio due giovani italiani di origine marocchina e l’europarlamentare leghista Silvia Sardone.
Dopo che i due giovani dichiarano, su espressa domanda di Del Debbio, di sentirsi “più marocchini che italiani”, Sardone li attacca, tra i crescenti applausi del pubblico utilizzando questi toni:
Quando tu dici [riferendosi al conduttore n.d.r.] che dicono Allahu Akbar senza nemmeno saperne il significato, io temo che invece lo sappiano bene che cosa voglia dire. Io credo che abbiano in mente il guadagno facile. Se io non faccio i soldi facili allora è cattivo il paese che mi ospita, che mi dà la sanità gratuita, la scuola gratuita, che mi dà la casa se ne ho diritto, un lavoro regolare con tanto di contratto. Sommessamente io vi dico: se proprio voi vi trovate male qua anche se avete la cittadinanza italiana, tornate in Marocco! Le porte sono aperte a tornare indietro, non solo a venire qua!
(…) Sarebbe però riduttivo ricondurre tutta la narrazione mediatica sui maranza alla destra più conservatrice. La criminalizzazione e il razzismo di questa parte politica sono espliciti, senza false ipocrisie.
Ci sono invece elementi di questa narrazione che sono trasversali nel dibattito pubblico.
Un paese vecchio a livello anagrafico e culturalmente conservatore come l’Italia fa tremendamente fatica a compiere, anche a sinistra, dei passi in avanti verso una rilettura in ottica decoloniale del proprio passato e del proprio presente.
Anche a sinistra si moltiplicano quindi narrazioni deumanizzanti e svilenti nei confronti delle comunità migranti e razzializzate, viste nella migliore delle ipotesi come forza lavoro da sfruttare.
(…) Si può quindi dire che la figura del maranza incarni due delle categorie sociali più temute dalla maggior parte degli italiani: i giovani e le persone non bianche.
Non è un caso che queste paure si siano palesate in maniera più netta negli ultimi anni, quando, per la prima volta in Italia, sono emersi i bisogni, gli interessi e le ambizioni delle cosiddette “seconde generazioni”.
Se prima erano poche le figure pubbliche italiane non bianche, oggi, soprattutto attraverso la musica, sono avvenuti i primi segnali di un processo di empowerment di comunità da sempre marginalizzate nel nostro paese.
Il successo trasversale del rap, per anni osteggiato dal sistema dell’intrattenimento italiano, sta producendo cambiamenti sociali e culturali significativi che una parte dell’Italia vede come pericolosi. Dietro alla parola maranza c’è quindi una realtà in movimento.
(Estratto da Gabriel Seroussi, La periferia vi guarda con odio,
Agenzia X, Milano 2025 [pp 38,39, 40])
*** Gabriel Seroussi
giornalista che si occupa di musica rap, sottoculture giovanili e comunità marginalizzate. Ha collaborato con “Rivista Studio”, “Rolling Stone”, “Outpump”, “Lucy. Sulla Cultura” e altre testate. Dirige il magazine indipendente “oltreoceano”, dedicato alla cultura della comunità afroamericana.

Securitarismo e disuguaglianze, le radici di una crisi democratica
di Anna Simone
19 Novembre 2025
Sembrano ormai lontanissimi gli anni in cui la nozione di sicurezza veniva immediatamente ricondotta al welfare e alla cultura politica dei diritti sociali intesi come diritti fondamentali. In altre parole, sembrano ormai fantasmatici gli anni in cui si poteva ancora immaginare l’idea di sicurezza sociale senza dover per forza attingere al lessico panpenalistico che fa della nozione stessa di sicurezza un sinonimo del concetto di “ordine pubblico”.
Disuguaglianze e “securitarismo”
L’ultimo tentativo fu fatto negli anni Novanta quando, attraverso il progetto pilota “Bologna città sicura” del medesimo comune, si provava — con il supporto di sociologi, giuristi e cittadini — a trovare strumenti condivisi e democratici per far fronte alla percezione diffusa di insicurezza negli spazi urbani attraverso la prevenzione.
Naturalmente gli anni Novanta sono stati anche gli anni dell’affermazione del “blairismo” e del suo neoliberismo temperato nel centro sinistra.
Ma, come ormai noto, sono stati anche e soprattutto gli anni della prima ascesa della Lega Nord, il primo partito politico italiano che ha trasformato la percezione dell’insicurezza sociale in “securitarismo”, una vera e propria ideologia politica coadiuvata da una strategia comunicativa efficace, mirata a strumentalizzare le paure sociali al fine di trasformarle in un bacino elettorale garantito. Come? Attraverso la costruzione della figura del “migrante delinquente” o del “migrante che ruba il lavoro agli italiani”.
Tuttavia, quegli anni non sono stati determinati solo dalle prime migrazioni consistenti verso l’Italia. Accadeva anche che si faceva strada un modello di sviluppo economico fortemente determinato a privatizzare ingenti settori produttivi al fine di ridurre la spesa pubblica — dunque il welfare state — per andare solo nella direzione del mercato, della competizione, della libera concorrenza e della religione del “diventa anche tu imprenditore di te stesso!”, scomponendo e precarizzando anche il lavoro.
In sintesi, come nella famosa e popolare metafora del cane che si morde la coda, potremmo dire che il “securitarismo”, inteso come puro strumento di ripristino dell’ordine pubblico autoritario e totalmente funzionale ad annientare la cultura redistributiva dei diritti, è stato ed è utilizzato strumentalmente dagli stessi attori sociali che hanno generato insicurezza sociale generalizzata, nuove forme di povertà e un discreto picco dei tassi di diseguaglianza sociale.
Infatti è scientificamente provato che le devianze e le marginalità sociali, la povertà e le diseguaglianze non sorgono da sole, ma vengono generate dai modelli di sviluppo e nel caso della criminalizzazione del dissenso, come vedremo più avanti, dalle gradazioni dell’assetto democratico. Per cui risulta piuttosto paradossale criminalizzare le marginalità sociali prodotte dagli stessi attori politici che le hanno generate.
Il corto circuito repressivo
Non è un caso, infatti, che tra molti sociologi della devianza sia diffusa la formula: meno diritti uguale maggiore propensione a delinquere, più diritti uguale meno propensione a delinquere. Un vero e proprio corto circuito che oggi ha assunto proporzioni sempre più preoccupanti.
Infatti, la stretta securitaria ha cominciato a colpire e a criminalizzare anche il dissenso politico, trasformando molte forme di azione politica in fattispecie di reato: si va dal reato di occupazione abusiva di immobili in disuso all’inasprimento delle pene per comportamenti che erano già stati depenalizzati, quali il blocco stradale durante le manifestazioni, e così via.
Senza considerare che molti strumenti di carattere amministrativo, come l’uso delle ordinanze, la detenzione amministrativa e strumenti quali il Daspo, agiti prevalentemente contro le cosiddette “marginalità sociali”, sono ormai divenuti la norma.
Le città “securizzate”
Le nostre città sono oggi “securizzate” non a causa dell’aumento dei crimini, bensì a causa dell’aumento delle diseguaglianze sociali e della retrocessione della funzione redistributiva dei diritti — primo fra tutti il diritto al reddito. Sono diventate insicure anche per chi tenta di manifestare il proprio dissenso.
La logica questa volta è: più tolleranza zero e criminalizzazione del dissenso uguale più autoritarismo; meno tolleranza zero e criminalizzazione del dissenso uguale più democrazia.
Lo dimostrano, oltre all’ultimo pacchetto sicurezza, anche l’ultimo ddl Gasparri, non ancora approvato, il quale mira a equiparare l’antisionismo con l’antisemitismo tramite l’istituzione di un ennesimo reato, questa volta di opinione.
Una nuova stagione politica?
Eppure, il dato davvero interessante è che, nonostante questa nuova stretta securitaria abbia generato una nuova batteria di reati politici, gli scioperi e le molteplici manifestazioni contro la complicità del governo Meloni con le politiche nazionaliste di Israele dimostrano che la paura sociale non è più così complice del processo di depoliticizzazione e di sfiducia verso il sistema politico.
Anzi, per trovare una nuova misura del mondo — a partire dalla critica radicale a ogni forma di “deumanizzazione” dei dispositivi che mirano a reprimere il dissenso in un contesto solo apparentemente “democratico” — lo stesso dissenso diventa e può ancora diventare un motivo di ripoliticizzazione delle coscienze assopite e disorientate dalla storia.
E che, anzi, per trovare una nuova misura del mondo, a partire dalla critica radicale a ogni forma di “deumanizzazione”, è ridiventato fondamentale ripoliticizzarsi, stare insieme, ripopolare le piazze, difendere i propri quartieri. Un dato estremamente interessante che rovescia il clima di depressione politica prima e di sfiducia politica è il “processo di depoliticizzazione di massa”. Un processo che nell’ultimo decennio ha generato l’astensionismo, nonché il dilagare del qualunquismo, ovverosia il terreno più fertile per l’ascesa delle destre nazionaliste e autoritarie.
Eppure, possiamo dire che nonostante l’ultimo “pacchetto sicurezza” (D.L. 159/2025) sia stato pensato ad hoc per ridurre al minimo il dissenso e il conflitto sociale nei confronti del governo in carica, nei fatti non ha sortito l’effetto desiderato. Anzi, potremmo dire che ha funzionato proprio come un detonatore per una nuova stagione di ripoliticizzazione dal basso. D’altronde nessuna sicurezza è mai davvero possibile senza diritti e giustizia sociale!
*** Anna Simone
Sociologa e autrice, insegna presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma Tre “Sociologia della politica, del diritto e della devianza” e “Genere e Conflitti”. Si è occupata e si occupa di rischio e sicurezza urbana, di corpi e norme sociali, di arte e società, di femminismi internazionali e pensiero della differenza sessuale, di diseguaglianze e giustizia sociale, nonché dell’impatto che hanno sugli attori sociali i processi di neoliberalizzazione. Ha scritto numerosi saggi e volumi tra cui ricordiamo “I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio” (Mimesis 2010), “I talenti delle donne. L’intelligenza femminile al lavoro” (Einaudi 2014), “Femminismo giuridico” (Mondadori 2019), “La Società della prestazione” (Ediesse 2017, sec. ed. 2025), “Il Soggetto imprevisto” (Meltemi 2022), “Arte, pratica di resistenza. Dialoghi tra una sociologa e un’artista” (Meltemi 2024). Ha scritto e scrive sulle pagine culturali de Il Manifesto e su vari siti di diffusione culturale tra cui la Fondazione Feltrinelli, OperaViva, Il Lavoro Culturale, Alfa Beta. E’ tra le fondatrici del network “Sociologia di posizione” e della collana editoriale che porta il medesimo nome per la casa editrice Meltemi.

Bauman e la sicurezza: perché il futuro genera paura
20 Novembre 2025
In questi giorni, in occasione del centenario della nascita, riflettere su Zygmunt Bauman ha significato tornare a considerare la parabola complessiva della sua vita e della sua riflessione pubblica.
Propongo di considerare un segmento non meno significativo che caratterizza il suo percorso «ultimo»
Un mondo incerto
Nel novembre 2016 (meno di due mesi prima di morire) Zygmunt Bauman tiene una lezione sulla fine del mondo. Il tema su cui invita a riflette è l’incertezza che descrive come “la sensazione di non poter prevedere come sarà il mondo quando ci sveglieremo la mattina seguente” per concludere: “Il mondo ci coglie sempre di sorpresa, impreparati per il futuro” [p. 5].
È un’osservazione saliente che riprende dal libro che ha da poco ultimato – Retrotopia (Laterza) dove sostiene che futuro e passato si siano scambiati i ruoli. Il futuro ci spaventa, dice, perché lo percepiamo come una retrocessione, come perdita della possibilità di avanzamento, perché non siamo in grado di controllarlo. E comunque dal futuro riceviamo immagini che non ci piacciono, immagini di retrocessione. Per questo preferiamo rifugiarci nel passato.
Quella mossa tuttavia non è salvifica. “Il passato è immaginario quanto il futuro – scrive in L’ultima lezione (Laterza) – Non siete stati nel futuro e non lo conoscete, ma non siete stati nemmeno nel passato. Potete solo leggere libri sull’argomento, che però difficilmente possono restituire le sensazioni di una vita realmente vissuta nel passato” [p. 15]. E poche pagine dopo scrive: “Ricordare è interpretare il passato; o, più correttamente, raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati” [pp. 42-43].
Bauman e l’idea di futuro
Sono cambiate molte cose in questi dieci anni senza Zygmunt Bauman. Restano vere, tuttavia, le sue parole ultime: la prima cosa da recuperare è un’idea di futuro. Per iniziare quel percorso conviene modificare il nostro agire.
La prima mossa non è cercare certezze. Investire sul futuro, scrollandosi di dosso un potere che ha paura forse potrebbe essere un’idea. È ancora Bauman che ci può essere utile.
Percorso possibile se ci prendiamo la briga di provare ad assumerci la responsabilità. È il significato della sua pubblica riflessione a Futura Festival, nell’agosto 2014. Il testo di quella conversazione è stato poi pubblicato con il titolo Scrivere il futuro (Castelvecchi).
Sono significative le considerazioni finali di quella conversazione [p. 43] quando riprende l’esortazione a liberarsi dall’illusione che il futuro si faccia da solo (il riferimento implicito di Bauman è a una lettera di Antonio Gramsci dal carcere al fratello Carlo il 12 settembre 1927).
Per assumersi quest’impegno occorre fare ricorso alla storia leggendola con occhio disincantato.
Che cosa sottintende Bauman? Non solo essere disposti a abbandonare una condizione di fatalismo, ma riscoprire una dimensione di investimento su una generazione dopo di noi.
Dietro, sullo sfondo, Bauman ha il sentore di una crisi che sta arrivando e su cui peraltro aveva invitato a riflettere all’inizio degli anni duemila. La questione riguarda cosa intendiamo con il termine «comunità».
Voglia di comunità
Quando nel 2001 esce Voglia di comunità (Laterza) l’Europa è alle soglie della sua nascita sostanziale. L’idea è che al di là dello Stato nazionale si stia formando una nuova realtà in grado di dare soddisfazione alle diseguaglianze. Bauman guarda con diffidenza a quel mito politico perché in quel patto che si presume fondi l’Europa intravede già gli elementi della crisi quale si presenta oggi.
Scrive Bauman in quel suo testo, per molti aspetti premonitore, che alla parola comunità è sempre associata una dimensione «buona» o «felice», comunque «calda» e «protettiva». In breve, positiva.
Subito dopo precisa come essa, però, abbia anche una dimensione soffocante, tra ciò che promette e ciò che pretende. Tra promessa (da vedere se poi mantenuta) e richiesta preliminare.
Tra «comunità dei nostri sogni» e «comunità realmente esistente».
“Una collettività, – scrive all’inizio di quel testo – che pretende di essere la comunità incarnata, il sogno realizzato, e che in nome di tutto il bene che si presume possa dispensare, esige una lealtà incondizionata e considera qualsiasi altro atteggiamento un imperdonabile atto di tradimento. La ‘comunità realmente esistente’, qualora ce ne trovassimo partecipi, reclamerebbe ubbidienza assoluta in cambio dei servizi erogati o che promette di erogare. Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa spiacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Installa un allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far entrare gli estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri. Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una. Il problema è che se si segue questo consiglio e si tengono le finestre chiuse, l’aria all’interno diventa ben presto stantia e alla fine irrespirabile” [p. 6].
Come risolvere il problema della sicurezza?
La questione, dunque, è quella di risolvere il problema della sicurezza, una funzione intorno a cui — a differenza di quanto si pensava nel 1989 — sono tornati ad essere attuali i muri. Quei muri ora non rappresentano un residuo, ma si accreditano come garanzia di futuro: non più segno della vergogna o dell’offesa, ma della tutela. Per questo la loro abolizione non è più urgente. Anzi: ora ognuno rivendica il suo muro. È la conseguenza della società multiculturale anziché interculturale: una condizione che al massimo propone spazi per tutti, ma senza contaminarsi. Ciascuno “a casa sua”.
“Comunità”, dunque, acquista un significato anche per questo.
Perché, come scrive Bauman con grande premonizione già venticinque anni fa, “il problema è che la ricetta con cui vengono realizzate le ‘comunità realmente esistenti’ non fa altro che rendere ancor più acuta e difficile da sanare la dicotomia tra sicurezza e libertà” (pp. 6–7).
Quanto ci manca Bauman?
Molto. Forse ancora di più ci manca qualcuno che sia in grado di replicare al linguaggio egemone di questo nostro tempo senza fare spallucce, ma prendendo seriamente in carica le sfide e i malesseri, provando a dare risposte coinvolgenti.
*** David Bidussa
Storico sociale delle idee, è consulente editoriale di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Collabora a “Il domenicale – il Sole 24 ore”. Ha pubblicato: La France de Vichy (Feltrinelli, 1997); I have a dream (BUR, 2006); Siamo italiani (Chiarelettere, 2007) Dopo l’ultimo testimone (Einaudi, 2009); Leo Valiani tra politica e storia (Feltrinelli, 2009). Per Feltrinelli ha curato Il volontariato (con Gloria Pescarolo, Costanzo Ranci e Massimo Campedelli; 1994), per i “Classici” ha curato Fratelli d’Italia (2010) di Goffredo Mameli e ha scritto la postfazione a Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne (2014). Ha collaborato al volume Sinistra senza sinistra (Feltrinelli, 2008) con la voce ‟Uso pubblico della storia”.
Fonte unica per tutti gli articoli:
FONDAZIONE GIANGIACOMO FELTRINELLI
.png)
