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JOHN HOLLOWAY. La critica è un canto di lodi alla rivoluzione

📚 LE MALETESTE 📚

20 set 2024

"Qualsiasi trasformazione in profondità della società è un processo, inevitabilmente contraddittorio e lento, che riguarda le persone comuni e non le avanguardie, gli attivisti e i militanti, un processo da alimentare con la critica e l’autocritica..." - dalla prefazione di JOHN HOLLOWAY al libro "Rojava in focus"

Non parliamo più di rivoluzione, eppure il sogno di una società diversa esiste ovunque. Solo quanto accade nel Rojava e in Chiapas dona a tanti e tante la forza per continuare a lottare in molti modi differenti, contro il mondo del denaro. Al centro, in entrambi i casi, c’è l’incredibile idea, che ha rotto con la tradizione leninista, secondo la quale qualsiasi trasformazione in profondità della società è un processo, inevitabilmente contraddittorio e lento, che riguarda le persone comuni e non le avanguardie, gli attivisti e i militanti.

Ma c’è anche l’idea che sia un processo da alimentare con la critica e l’autocritica.

Il libro di Cihad Hammy e Thomas Jeffrey Miley, "Rojava in focus", è il frutto di un coraggioso esercizio di autocritica. Perché, ad esempio, si chiedono gli autori, offrendo alcune risposte, le comunità locali non funzionano come dovrebbero per vivere nel confederalismo democratico tanto auspicato?

In un’appassionante e assai atipica prefazione, scrive John Holloway: “C’è un bel paradosso in questa aspra critica alla rivoluzione del Rojava: la critica è un canto di lodi alla rivoluzione che pone al suo centro la capacità autocritica”



di John Holloway

17 Settembre 2024


Questo è un bel libro. Con questo non voglio dire che è un buon libro. Cioè, si, in effetti è un buon libro, è veramente un ottimo libro. Ogni singolo capitolo è utile e stimolante. Ciascun capitolo sviluppa argomentazioni leggermente differenti, ma sono tutte legate tra loro da un’unità argomentativa introdotta dal capitolo di apertura a firma di Cihad Hammy e Thomas Jeffrey Miley, “Lezioni dal Rojava per un paradigma di ecologia sociale”. È veramente un libro eccellente, che ho apprezzato moltissimo.


Ma non è questo che intendo quando dico che è un bel libro. C’è della bellezza nell’idea stessa del libro, che si percepisce sin dall’inizio e il suo fulcro è una chiara linea di demarcazione tra impegno e identificazione. Ci sentiamo coinvolti in questo movimento, siamo parte della sua lotta per un mondo diverso, ma non accettiamo i suoi limiti, non ci identifichiamo in esso.


Come chiaramente sottolineato da Hammy e Miley in apertura del libro “ci posizioniamo inequivocabilmente a favore della rivoluzione, anche quando cerchiamo di aiutarla ad affrontare le sue contraddizioni e a trascendere i suoi limiti”. E poi: “Insieme, partecipiamo tutti lottando con le nostre stesse contraddizioni – il processo attraverso il quale l’identità nega se stessa per evolversi e svilupparsi a uno stadio diverso – al fine di creare una ‘crepa’… nella rigidità dell’identità in Rojava, consentendo così al Confederalismo Democratico di raggiungere i suoi obiettivi.”


Sviluppano una critica in due modi collegati: loro (e in effetti un po’ tutti gli autori) criticano i fallimenti che vedono nella rivoluzione curda in Rojava, ma non è una critica che viene dall’esterno; criticano perché la critica è essenziale ai fini della rivoluzione. Una caratteristica sorprendente della rivoluzione in Rojava e degli scritti di Öcalan, è che la critica pubblica e l’autocritica sono viste come una parte importante del processo rivoluzionario. I saggi contenuti in questo libro spingono ancor più in avanti questo processo, andando oltre la critica di particolari carenze e spingendo verso una certa comprensione delle contraddizioni centrali del processo stesso. Ciò si riflette nella struttura del libro, che si configura sottoforma di dibattito, partendo dal saggio provocatorio di Hammy e Miley e proseguendo con una serie di risposte molto ponderate alla loro provocazione, e poi con una risposta discorsiva da parte dei due autori. Per concludersi poi con un capitolo di riflessione da parte di chi sta vivendo il processo in Rojava.

Il dibattito si inserisce all’interno dell’idea stessa del libro: questo è quello che pensiamo, parliamo apertamente di questi temi perché sono cruciali per il futuro della rivoluzione in Rojava (e, aggiungerei, del mondo).


Questo è ciò che trovo bello nel libro: si respira un dibattito critico.

Forse può sembrare ovvio e non così speciale. Eppure, la storia ci insegna che non è affatto così. Forse non c’è stato niente di peggio per distruggere la speranza rivoluzionaria nell’ultimo secolo quanto il senso di identificazione e la chiusura che essa comporta. Probabilmente tutti abbiamo la tendenza a identificarci, a difendere ciò che suscita il nostro entusiasmo, a tapparci le orecchie alle critiche, a seguire il leader. La Rivoluzione russa ha ispirato tanti che sognavano un mondo diverso, ma per tanti milioni si è poi trasformata in qualcosa da difendere dalle critiche, qualcosa in cui identificarsi, fino al punto di adorare Stalin e rifiutarsi di vedere gli orrori dello stalinismo e del comunismo sovietico in generale, con il risultato che quando è collassato, sembrava non esserci più speranza, nessuna rivoluzione possibile. È un esempio estremo, ovviamente, ma sicuramente possiamo pensare a molti altri esempi, dalla Cina a Cuba al Venezuela e così via. Per non parlare del settarismo che tanto ha fatto per distruggere la speranza: noi siamo X, tu sei Y, linee chiare, non possiamo pensare, non possiamo parlare.


Non è solo una questione di atteggiamento, ma di organizzazione. Il Partito è una forma organizzativa basata sull’identificazione. Il Partito definisce le persone stesse: si è iscritti o non si è iscritti. Il Partito ha un programma, una definizione di idee e di scopi; il Partito ha una gerarchia, un modo fisso di fare le cose; il Partito ha un leader e una struttura dirigente. Il Partito è orientato alla presa del potere e all’esercizio del potere e questo si riflette in ogni aspetto del suo funzionamento. Può darsi che ci sia spazio per la critica, ma solo all’interno del partito ed entro certi limiti.


La critica ha una forma organizzativa diversa. È l’assemblea, il consiglio, la comune, il soviet: quella forma organizzativa che ha fatto da contrappunto al Partito durante tutta la storia della lotta anticapitalista. Se funziona bene, è un luogo di dibattito aperto, in cui poter dire “pensiamo che questo sia sbagliato”, “abbiamo un’idea diversa”, “come possiamo andare avanti non essendo d’accordo e tuttavia condividendo il nostro progetto comune?”. L’assemblea, nella bella espressione di Sixtine Van Outryve e Paula Cossart nel loro capitolo che include una discussione sul movimento dei gilets jaunes in Francia, è un modo di democratizzare non il consenso ma di democratizzare il dissenso.


Questa è la bellezza di questo libro: si propone di democratizzare il dissenso. È un libro di assemblea e non un libro di partito. E questo va al cuore del dilemma della rivoluzione del Rojava: la tensione tra la forma-Partito (rappresentata dal PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il Partito che nega se stesso e tuttavia non lo fa) da un lato, e dall’altro l’obiettivo dichiarato del confederalismo democratico, dell’ecologia sociale e del comunalismo. Non si tratta di un semplice contrasto, poiché ciascuna parte esiste contro e oltre l’altra.


II

Rojava in Focus si chiama il libro, e sì, si focalizza sulla rivoluzione in Rojava, ma c’è anche molto più di questo. Non sono (ancora) mai stato in Rojava, ma i capitoli di questo libro mi entusiasmano perché i loro argomenti vanno al cuore della speranza rivoluzionaria, ovunque ci troviamo. Il Rojava non è isolato: è parte di un mondo di lotta. Il sogno di una società diversa esiste ovunque, portato avanti dalle lotte contro gli orrori dell’ordine esistente. Lottiamo contro il mondo del Denaro in milioni di modi diversi: dicendo No alla creazione di una discarica vicino a dove vivo e che contamina il terreno per chilometri quadrati intorno all’area; allestendo campi per gridare contro il genocidio compiuto dallo stato israeliano a Gaza (sostenuto da tanti altri stati); scioperando o sabotando il processo lavorativo; leggendo il Capitale; organizzando gruppi rivoluzionari che svaniscono poi dopo pochi mesi, o forse no; cercando di trovare modi di vivere che non siano modellati sulla mera ricerca del profitto; lottando in ogni modo possibile contro i combustibili fossili e le altre misure che stanno distruggendo il futuro dell’umanità.


Il mondo è pieno di persone che cercano di camminare nella direzione opposta, alla ricerca di un percorso verso un modo di vivere migliore. E poi quando vediamo un movimento che avanza con forza, chiarezza e nuove idee su come creare un mondo diverso, la distanza geografica non ha importanza. Il Rojava è nei nostri cuori, nei nostri pensieri, così come il movimento zapatista in Chiapas. Sembrano offrire un modo per ottenere ciò che stiamo cercando. Sono fari di speranza che ci danno la forza per continuare a lottare contro la catastrofe globale in cui viviamo. Non sorprende, quindi, se idealizziamo questi movimenti, se guardiamo ad essi per una perfezione che non esiste e non può esistere. È molto positivo che qualcuno ci ricordi che la creazione di mondi diversi è una lotta incessante e faticosa.

In qualsiasi assemblea comunitaria, ad esempio, i dibattiti sono destinati a essere contagiati da faide personalistiche, pratiche misogine, superstizioni, bambini che piangono o cellulari che squillano, ammiccamenti. Tutte queste cose rientrano nella “democratizzazione del dissenso” che è probabilmente l’unica via da seguire per l’umanità. La trasformazione rivoluzionaria può essere solo un processo, come Azize Aslan ci ricorda con forza nel suo capitolo: “l’azione collettiva organizzata che guida tale trasformazione è intrinsecamente non lineare, non prevedibile e non omogenea”. In questo processo è di fondamentale importanza che un libro come questo dica “qui qualcosa non va, c’è un divario tra quello che diciamo e quello che facciamo, cerchiamo di capire quali sono i problemi, così da poter spostare la nostra direzione”.


III

Le comunità locali non funzionano come dovrebbero. Spesso sono scarsamente frequentate e non svolgono un ruolo importante nel processo decisionale sociale. Il loro empowerment e il loro sviluppo non sono presi abbastanza sul serio dai leader del movimento. Ciò va contro la nozione di rivoluzione comunitaria proclamata negli scritti di Öcalan ed espressa nell’obiettivo del confederalismo democratico.

Questo è il fulcro della critica di Hammy e Miley all’attuale sviluppo della rivoluzione del Rojava. È un’opinione condivisa, con alcune variazioni, dai diversi autori. La domanda centrale è allora: perché? Perché sta succedendo questo?

Una risposta scontata è che le terribili condizioni di guerra che hanno dominato l’area hanno reso impossibile lo sviluppo dell’auspicata partecipazione comunitaria. Nella loro risposta al dibattito, sia Miley che Hammy respingono questa spiegazione come insufficiente: “Attribuire la colpa esclusivamente all’opposizione (fattori esterni) è un approccio facile e superficiale, e la vera complessità sta nell’affrontare le contraddizioni interne. Il percorso autentico verso l’emancipazione, la libertà e la creazione di una politica radicale e di una critica immanente, implica il confronto con queste contraddizioni interne”.

Quali sono, allora, queste contraddizioni interne? Questa è una questione particolarmente importante per noi che non viviamo in condizioni di guerra aperta, almeno per il momento, ma che condividiamo le aspirazioni del movimento. Quali sono queste contraddizioni interne e possono essere superate? Nel suo capitolo, Kamal Chomani taccia Hammy e Miley di utopismo, poiché basano le loro critiche all’attuale sviluppo della rivoluzione in Rojava su aspettative irrealistiche. Ma l’aspirazione a creare una società basata su una sorta di confederalismo democratico, o sul riconoscimento reciproco della dignità, è irrealistica? Per qualcuno come me, seduto a migliaia di chilometri di distanza dal Rojava, questa è una domanda importante. Il Rojava è una luce splendente di speranza, come mi piace pensare, o ci sta mostrando che ci sono limiti a ciò che può essere raggiunto attraverso la trasformazione sociale?


Trovo utile fare una distinzione tra rivoluzione per conto di e rivoluzione di. La concezione classica di rivoluzione che ha prevalso per gran parte del secolo scorso era l’idea che la rivoluzione dovesse essere portata avanti in nome e a beneficio di coloro che sono più oppressi dal capitalismo. Ciò è espresso brillantemente da Lenin nel suo libro del 1902, Che fare?, in cui sostiene che i lavoratori da soli possono raggiungere solo un livello limitato di coscienza, che egli chiama coscienza sindacale, la quale, pur essendo militante, rimane entro i limiti del sistema capitalista. Per andare oltre ad essa, è necessario costruire il Partito, un gruppo dedicato di rivoluzionari professionisti che prenderanno il potere e realizzeranno una profonda trasformazione sociale. Inevitabilmente si andrà a formare una leadership, un’avanguardia, che porterà avanti il cambiamento sociale in nome delle masse, creando una società non basata sullo sfruttamento. Provo un’enorme ammirazione per Lenin, i bolscevichi e tutti gli altri militanti devoti che hanno dato la vita e la morte nella lotta per creare una società diversa. Ma il risultato fu un disastro.


L’idea di una rivoluzione per conto di è certamente attraente: sembra realistica e fa appello anche a sentimenti profondi di solidarietà umana. Ma porta con sé enormi problemi. L’idea del “per conto di” implica una separazione destinata a diventare tossica. La separazione tra coloro che guidano e coloro che sono guidati implica che coloro che guidano comprendano gli interessi di coloro che sono guidati, meglio di quanto non possano fare loro stessi. Coloro che sono guidati, le masse, hanno una falsa coscienza o una mentalità sbagliata. Tuttavia, per quanto ben intenzionati siano i leader, si viene a creare in questo modo una relazione autoritaria. Ed è probabile che i leader sviluppino interessi distinti e possibilmente opposti a coloro che sono guidati. Per realizzare il cambiamento, hanno bisogno di acquisire potere, e la conquista e il mantenimento del potere diventano rapidamente l’obiettivo centrale dei leader. Sempre a nome degli oppressi, ovviamente. Trotsky scrisse una critica molto precoce (1904) dell’idea di Partito di Lenin, sostenendo che avrebbe portato ad un “sostituzionismo”, per cui il Partito si sarebbe sostituito alla classe operaia, anche se si può sostenere che lui stesso successivamente cadde nello stesso approccio sostitutista. Il sostituzionismo non è solo un pericolo, ma è insito nella forma del partito.

Nonostante le buone intenzioni e la straordinaria dedizione di tante persone, le rivoluzioni di Partito, le rivoluzioni per conto di, hanno portato nel XX secolo alla creazione di società molto autoritarie (URSS, Cina, Corea del Nord) in cui quelli che venivano guidati, le masse, giocavano un ruolo molto limitato nei processi decisionali sociali. Il crollo dell’Unione Sovietica fu visto da molti come la fine delle possibilità di cambiamento rivoluzionario. Ma in una società basata sullo sfruttamento e la distruzione, il desiderio di una trasformazione sociale radicale non può essere seppellito così facilmente. Ciò che crolla è l’idea di rivoluzione in nome di, di rivoluzione di partito, di rivoluzione centrata sulla conquista del potere statale. La rivoluzione deve essere ripensata, riorganizzata. La rivoluzione in nome del popolo deve diventare rivoluzione fatta dal popolo stesso.

Il ripensamento della rivoluzione ha avuto luogo attraverso molte lotte in tutto il mondo, ed era andato avanti molto prima del crollo dell’Unione Sovietica. Ci sono, tuttavia, due immensi esempi di lotte in cui coloro che hanno iniziato a mettere in discussione le rivoluzioni dei leader, sono giunti a una conclusione simile: “La vecchia idea non funziona, dobbiamo ripensare l’intera idea di rivoluzione”.

Questi due esempi eccezionali sono il PKK, sotto la guida di Öcalan, in Kurdistan e gli zapatisti nel sud-est del Messico. In entrambi i casi si passa dalla rivoluzione in nome di, alla rivoluzione di. Nel caso degli zapatisti, un piccolo gruppo di rivoluzionari di un’organizzazione chiamata Forze di Liberazione Nazionale (FLN), una “organizzazione politico-militare il cui scopo è la presa del potere politico da parte dei lavoratori”, secondo il suo stesso statuto, erano andati nello stato del Chiapas pensando di insegnare agli indigeni la rivoluzione, ma presto impararono attraverso l’esperienza che erano loro che avevano da imparare dalla popolazione locale. Nel caso del movimento curdo, la consapevolezza che la vecchia idea di rivoluzione dovesse essere sostituita da una nuova è venuta dal leader del PKK, Abdullah Öcalan, influenzato dalla sua lettura in carcere degli scritti di Murray Bookchin.

Contesti molto diversi, ma in entrambi i casi è emerso un cambiamento radicale che va nella stessa direzione: la rivoluzione anticapitalista è più necessaria che mai, ma deve essere una rivoluzione molto diversa da quelle che hanno dominato il XX secolo. E poiché molte lotte e movimenti nel mondo sono giunti a conclusioni simili, questi due movimenti particolari hanno avuto un’enorme influenza tra i ribelli del mondo.


Il processo di ripensamento e riorganizzazione di una trasformazione sociale radicale non è certamente semplice. Al centro, in entrambi i casi, c’è l’incredibile idea espressa dagli zapatisti: “Siamo uomini, donne, bambini comuni, cioè ribelli”. Questa è una rottura radicale con la tradizione leninista. Nella tradizione leninista la rivoluzione deve essere guidata da persone straordinarie, quelle che, per una ragione o per l’altra, sono andate oltre la comprensione delle masse. Nel nuovo approccio non c’è distinzione né gerarchia tra leader e masse. Ciò è racchiuso nella nozione di dignità, un concetto sviluppato dagli zapatisti, soprattutto nei primi anni della rivolta.

Pensare a una rivoluzione di popolo significa riconoscere la sua dignità. La società attuale si basa sulla negazione della dignità delle persone (come curdi, come indigeni, come lavoratori, come contadini, come donne), ma la nostra dignità è il nostro rifiuto di accettare quella negazione. È una dignità contro la sua stessa negazione.


Inevitabilmente, ciò significa pensare all’organizzazione in modo diverso, come una forma di organizzazione che facilita l’articolazione delle dignità. Questa non può essere il partito, deve essere una sorta di assemblea o comune in cui le persone possano esprimere le proprie paure e speranze e giungere a una sorta di decisione comune. Ciò, a sua volta, è legato a una diversa comprensione del tempo. Le assemblee sono probabilmente molto più lente dei partiti: il partito mira a prendere decisioni in modo efficiente per funzionare come strumento di cambiamento. Il partito è rivolto al futuro e la sua esistenza è giustificata dalla prospettiva di una rivoluzione futura. L’assemblea, invece, tende a giustificarsi da sola. In una società basata sulla gerarchia, un’organizzazione antigerarchica è già un cambiamento, qui ed ora e non nel futuro. L’obiettivo della trasformazione radicale dell’intera società resta ancora da raggiungere, ma non c’è la netta separazione tra presente e futuro che risiede nel concetto stesso di Partito. Si tratta piuttosto dell’espansione graduale o rapida del cambiamento che l’assemblea già incarna. Se pensiamo all’assemblea come la prefigurazione di una forma di organizzazione sociale che potrebbe riempire il mondo (in luogo di merce-denaro-stato), o come esistenza attuale di un mondo che non ancora esiste ma che potrebbe essere (per rifarsi ad Ernst Bloch), allora il tempo rivoluzionario è qualcosa di completamente diverso da quello del partito. “Camminiamo, non corriamo, perché andiamo lontano”, come dicono gli zapatisti.

Il passaggio dall’idea di rivoluzione “per conto di” a quella di rivoluzione di, implica profondi cambiamenti nel modo di pensare e agire. Questi cambiamenti sono al centro del concetto curdo di confederalismo democratico, al centro anche dei ripetuti cambiamenti nell’organizzazione degli zapatisti (vedi, ad esempio, la ventesima parte dei comunicati che hanno preceduto la celebrazione del trentesimo anniversario della rivolta del gennaio 1994), e anche al centro di tanti movimenti in tutto il mondo.

In tutto questo torniamo all’accusa di utopismo che Chomani muove contro Hammy e Miley. Stiamo camminando su una corda tesa sopra un abisso, l’abisso della distruzione umana. La domanda è sempre: possiamo passare dall’altra parte, a una società basata sul riconoscimento reciproco delle dignità umane? Il vecchio modo di pensare alla trasformazione sociale ha fallito e ha portato a risultati miserabili, ma il nuovo modo di pensare alla rivoluzione potrà avere successo, o è semplicemente un’assurdità irrealistica? “Siamo gente comune”, dicono gli zapatisti: ma è proprio vero e, soprattutto, la gente comune può davvero realizzare la trasformazione sociale di cui abbiamo bisogno? Questa è la domanda per tutti noi che sta dietro la critica contenuta in questo libro.

Ci sono probabilmente due questioni qui. La prima è il peso delle strutture e delle pratiche ereditate. Non è facile per coloro che sono stati educati nelle pratiche di rivoluzione per conto di, intraprendere i cambiamenti fondamentali nel modo di pensare e di agire necessari per un passaggio alla rivoluzione di, soprattutto quando tali cambiamenti provengono da un leader tradizionale e nel contesto della struttura organizzativa esistente del Partito (PKK), una struttura che cozza con il concetto di confederalismo democratico. Questa discordanza è molto presente nelle critiche alla rivoluzione del Rojava sviluppate in questi capitoli, e penso che sia inevitabile, o perché le persone vogliono mantenere il potere o semplicemente perché sono cieche di fronte a ciò che implica il radicale cambiamento grammaticale promosso da Öcalan. Il conflitto non è necessariamente insuperabile, ma è importante riconoscerlo, come fanno i capitoli di questo libro.


C’è una seconda questione che trovo più difficile da risolvere; è lo spaventoso “siamo gente comune”. Dico “spaventoso” perché è la sfida teorica e politica più profonda nel ripensamento della rivoluzione. Come possono le persone comuni essere il soggetto rivoluzionario quando sappiamo come loro/noi siamo risucchiati nella riproduzione quotidiana del capitalismo, nell’acquisto di merci per sopravvivere, nella vendita o nel tentativo di vendita della nostra stessa forza lavoro per guadagnare un po’ di soldi? L’appello alla “gente comune” deve essere un appello alla gente comune schizofrenica (nel senso comune) o divisa internamente, che riproduce il capitalismo e allo stesso tempo si ribella ad esso. Entrambi gli aspetti sono sicuramente presenti in ognuno di noi, in misura diversa. Il nostro aspetto di riproduzione del capitale è articolato e rafforzato attraverso le forme astratte e individualizzanti delle relazioni sociali capitaliste, più ovviamente lo Stato.

La scommessa della rivoluzione della gente comune è quella di articolare e rafforzare il lato ribelle e collettivizzante attraverso assemblee, comuni o altre forme simili di organizzazione: un processo disordinato, prolungato, segnato da alti e bassi, interrotto dal pianto dei bambini e dallo squillo di cellulari. In ogni caso le contraddizioni sono destinate a restare e saranno tanto più forti quanto più saremo strettamente integrati nelle relazioni sociali capitaliste.

Qui il salario è di fondamentale importanza: se dobbiamo guadagnare un salario per vivere, difficilmente avremo molto tempo o energie per partecipare alle riunioni della comune o partecipare alle responsabilità comunitarie. L’organizzazione capitalistica delle attività come il lavoro crea una separazione tra attività produttiva e convivialità sociale.

Forse la comunalizzazione (o “comunizzazione”, come preferisco chiamarla, per evitare la romanticizzazione delle comuni esistenti spesso associate all’idea di comunalismo) deve superare questa separazione al fine di poter articolare la spinta utopica in modo più efficace.

In altre parole, la forza delle comuni dipenderà in ultima analisi dalla trasformazione del lavoro: l’impegno nelle comuni deve essere parte dell’attività quotidiana delle persone, della riproduzione di se stesse e di coloro che dipendono da loro.

Potrebbe essere importante in questo contesto rilanciare le idee del comunismo dei Consigli (o consiliarismo) con la sua enfasi sui consigli operai: pensare all’organizzazione comunitaria come inseparabile dall’attività produttiva delle persone. Ritengo che il capitolo di Azize Aslan sull’economia sociale spinga in questa direzione.


IV

Una Prefazione? Sicuramente non è così che dovrebbe essere una prefazione. In realtà è solo un entusiastico miscuglio di idee ispirate al libro, una sorta di improvvisazione jazz. Mi sono lasciato trasportare. Ma è così che sento il libro. È estremamente stimolante, trasmette idee in tutte le direzioni, e tuttavia ha una base molto solida e seria: la lotta quotidiana in condizioni terribili per trasformare la vita in Rojava e in tutto il mondo.

C’è un bel paradosso in questa aspra critica alla rivoluzione del Rojava: la critica è un canto di lodi alla rivoluzione che pone al suo centro la capacità autocritica.


fonte: comune-info.net - 20 set. 2025

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