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LAVORO. Il lavoro ci (s)finisce

LE MALETESTE

10 nov 2025

Nuove coordinate per orientarci meglio sui cambiamenti locali e internazionali nel mondo del lavoro, per una prospettiva contemporanea di interventi per ri-collocare i lavori e noi stessi - AUTORI VARI

La grande bufala: gli imprenditori come creatori di posti di lavoro

Gli imprenditori sarebbero i "creatori di posti di lavoro" che sostengono la società; lo dicono per giustificare i bassi salari, lo sfruttamento e la distruzione fisica e mentale dei lavoratori.


di Helena Vidal Brazales

9 novembre 2025 12:00


Si ripete spesso, quasi come un mantra indiscutibile, che gli imprenditori sono i "creatori di posti di lavoro" che sostengono la società. Tuttavia, questa visione idealizzata oscura una realtà economica più dura e fondamentale:

l'obiettivo primario di un imprenditore non è creare posti di lavoro, ma creare una struttura – un'azienda – per moltiplicare il proprio capitale e ottenere un profitto personale che superi sempre quanto potrebbe guadagnare come dipendente. L'occupazione è, nella migliore delle ipotesi, una conseguenza secondaria di questa ricerca del profitto, mai l'obiettivo finale. Quando un datore di lavoro assume un lavoratore, è perché il lavoro di quella persona è necessario per generare più valore di quanto costi il ​​suo salario. Si tratta di uno scambio economico, non di un atto filantropico.

Questa dinamica, se slegata da qualsiasi considerazione etica o sociale, dà origine a pratiche profondamente dannose che smentiscono la narrazione dell'imprenditore benevolo:


1. Lo sfruttamento del lavoro come vantaggio competitivo:

  • Offshoring:  la decisione di delocalizzare la produzione dall'Occidente ai Paesi in via di sviluppo non viene presa per "creare posti di lavoro" in quei luoghi, ma per sfruttare salari da fame, leggi sul lavoro permissive e condizioni di lavoro che sarebbero inaccettabili nel Paese di origine. L'obiettivo è ridurre i costi per massimizzare i profitti, anche se ciò significa sfruttare persone vulnerabili.

  • Precarietà locale:  anche nei paesi sviluppati vengono incoraggiati contratti temporanei, falsi lavori autonomi e salari insufficienti per vivere, tutto questo per preservare il più possibile i margini di profitto.


2. Frode fiscale come "efficienza":

Alcuni considerano l'inganno del fisco non un reato, ma un atto di astuzia finanziaria. L'evasione fiscale priva la comunità di risorse essenziali per l'assistenza sanitaria, l'istruzione e le infrastrutture, che sono il fondamento del bene comune. Mentre le piccole e medie imprese e i lavoratori sopportano il peso fiscale, alcune grandi aziende eludono le proprie responsabilità attraverso complessi schemi finanziari.


3. Irresponsabilità sociale e ambientale:

  • Imprese edili e qualità:  un costruttore che utilizza materiali di scarsa qualità o ignora le norme di sicurezza non pensa al benessere dei futuri residenti o alla sicurezza dei propri lavoratori. Pensa piuttosto a tagliare i costi per aumentare i profitti, esternalizzando il costo umano (sotto forma di rischi o alloggi non sicuri) sulla società.

  • Aziende inquinanti:  chi costruisce fabbriche che inquinano i fiumi o emettono gas tossici dà priorità ai propri profitti privati ​​rispetto alla salute pubblica e al diritto a un ambiente pulito. Il danno ecologico è un "effetto collaterale" di cui l'azienda si rifiuta di assumersi la responsabilità, lasciando che sia la comunità a pagare il prezzo delle operazioni di bonifica e dei problemi di salute.


4. Sfruttamento della vulnerabilità:

Assumere lavoratori senza documenti è l'esempio più chiaro di questa logica perversa. Approfitta della situazione disperata di chi non può rivendicare i propri diritti, pagandolo meno, negandogli condizioni di lavoro dignitose ed evadendo i contributi previdenziali. È puro sfruttamento, dove la massimizzazione del profitto si basa sulla negazione dell'umanità e dei diritti del lavoratore.


5. La distruzione silenziosa della salute: l'eredità tossica del lavoro:

L'esaurimento fisico e mentale che molti lavori generano è un'ulteriore esternalità che l'azienda trasferisce al lavoratore e al sistema sanitario pubblico.

  • Malattie fisiche: molti lavori, dall'edilizia alle pulizie o alla produzione, causano malattie croniche (problemi alla schiena, dolori articolari, problemi respiratori, perdita dell'udito, ecc.). I lavoratori raggiungono la pensione, spesso oltre i 67 anni e con decenni di contributi, con un fisico esausto. Quello che dovrebbe essere un periodo di piacere è rovinato dal dolore e da una qualità della vita ridotta, aumentando ulteriormente la pressione e la spesa per i servizi sanitari pubblici.

  • Problemi di salute mentale: la pressione per rispettare le scadenze, i carichi di lavoro eccessivi, l'insicurezza lavorativa e le molestie stanno generando epidemie di stress, ansia e burnout. Queste condizioni non sono difetti individuali, ma conseguenze dirette di ambienti di lavoro tossici progettati per massimizzare la produttività, indipendentemente dal costo umano.


La sproporzione che rivela l'ingiustizia: il caso dei mega-ricchi:

Questa logica diventa chiara quando osserviamo i profitti esorbitanti di alcuni magnati. Se a un imprenditore come Elon Musk può essere offerto un pacchetto retributivo da mille miliardi di dollari, è perché la ricchezza generata collettivamente dai suoi dipendenti è astronomicamente superiore alla somma dei loro stipendi. Questa ricchezza estrema ai vertici è la prova matematica che il vero valore generato dal lavoro di ciascuno non viene equamente compensato. Le fortune di pochi si costruiscono, in parte, sul plusvalore non distribuito tra coloro che rendono possibile l'impresa.


CONCLUSIONE:

Sfatare il mito del "creatore di posti di lavoro" è essenziale per responsabilizzare le aziende. Non si tratta di demonizzare l'imprenditorialità o l'impresa privata, che possono essere motori di innovazione e progresso. Si tratta di riconoscere che, senza un solido quadro giuridico, una rigorosa supervisione e una sensibilizzazione sociale attiva, la ricerca del profitto privato può degenerare nello sfruttamento delle persone, nella frode ai danni della comunità e nella distruzione ambientale.

La vera ricchezza di una società non si misura solo dal numero di imprese, ma dalla  qualità dei posti di lavoro che creano, dal loro giusto contributo al sistema e dal loro rispetto per le persone e il pianeta.  Un lavoro che nasce dallo sfruttamento non è una conquista; è il sintomo di un sistema che premia l'abuso.


Fonte: (ESP) EL SALTO (https://www.elsaltodiario.com/opinion-socias/gran-bulo-empresarios-creadores-empleo) - 9 novembre 2025

Traduzione dallo spagnolo a cura de LE MALETESTE



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Fondata sul lavoro: Il welfare del futuro è nelle community? 

di Matteo Roversi

07 Novembre 2025


Il lavoro è cambiato radicalmente negli ultimi vent’anni.  

Le forme di organizzazione del lavoro tradizionali erano basate su una doppia promessa: stabilità e appartenenza. I contratti garantivano regole, orari, percorsi di carriera; gli ordini professionali stabilivano identità e ambiti di competenza; i sindacati offrivano protezione, tutela e forza di contrattazione collettiva.  

In cambio: meno possibilità di scegliere su cosa lavorare e come, meno intraprendenza e crescita personale. Uniformazione dei ruoli e rapporti di forza immutabili.  

Nel sistema italiano tutto è ancorato a questo rigido compromesso: dalla previdenza al credito, dall’assicurazione sanitaria alla maternità. Con paradossi sempre più evidenti: un professionista autonomo che fattura 80.000 euro all’anno, genera valore e paga le tasse, per il sistema è un precario, per la banca un profilo rischioso, per il welfare non esiste.  

Regole e categorie rigide non funzionano più per identità professionali che diventano più fluide, multiple e in continua ricomposizione.  

In quale ordine staranno i professionisti ibridi che useranno l’AI per fare lavori eterogenei in modo trasversale e dinamico? Quale corpo intermedio è in grado di tutelare figure che lavorano per aziende diverse, con ruoli diversi, ed evolvono continuamente?  

Così la nostra democrazia “fondata sul lavoro” riesce a tutelare sempre meno lavoratori, né trova più nel lavoro una leva di crescita e sviluppo. 


I contratti ieri, le community oggi 

Sempre di più i professionisti cercano nelle community professionali una forma di appartenenza compatibile con l’autonomia che per loro è diventata irrinunciabile.  

Cosmico è un sintomo: oltre 30.000 professionisti tra esperti tech, consulenti, creativi, marketer, fractional executive cercano un’alternativa all’isolamento che li rende più fragili ed esposti.  

Per appartenere a una community professionale non devi rientrare in una definizione legale codificata per legge. Devi dimostrare che sai fare bene il tuo lavoro, attraverso meccanismi trasparenti e verificabili: progetti di qualità, feedback, riconoscimento dei pari. 

Un professionista può stare contemporaneamente in tante community diverse, e le membership multiple si rafforzano reciprocamente, perché ognuna valida una delle competenza necessarie a lavorare su progetti complessi. Chi cambia lavoro non perde l’identità professionale costruita negli anni, che continua a vivere nella reputazione trasversale verificabile dalla community.  

Le community hanno sostituito il contratto di lavoro come fonte primaria di appartenenza professionale per una porzione crescente di chi lavora, e questa sostituzione è irreversibile perché risponde a un bisogno reale che le strutture novecentesche non possono più soddisfare. 


Un nuovo laboratorio di welfare? 

Appartenenza, però, non significa tutela né sicurezza. La validazione tra pari non si traduce in potere contrattuale. Quando si tratta di tutele e negoziazioni, il freelance continua a essere solo. Le community non sono soggetti giuridici riconosciuti – né dallo Stato che eroga welfare, né dalle aziende che comprano lavoro, né dalle istituzioni finanziarie che valutano il rischio creditizio.

Forse, però, hanno il potenziale per evolvere. La reputazione professionale verificabile potrebbe diventare una base legittima per accedere alle tutele: chi dimostra continuità e qualità nel lavoro accede alla protezione collettiva gestita dalla community.

Le banche guardano la busta paga, ma se la community certificasse la stabilità attraverso dati aggregati e trasparenti, l’accesso al credito cambierebbe per tutti. Lo stesso meccanismo si applicherebbe ad assicurazioni sanitarie integrative, fondi pensione, protezione per periodi di malattia o mancanza temporanea di progetti.

Le community hanno dimostrato di saper garantire autonomia e appartenenza. Vale la pena testare se possano fare il salto successivo: diventare soggetti che rappresentano chi non rientra in una categoria stabile, costruiscono tutele compatibili con il lavoro frammentato, sviluppano potere contrattuale senza replicare le rigidità delle strutture novecentesche.

Piattaforme private e Stati non stanno risolvendo questo problema e probabilmente non lo risolveranno perché hanno incentivi strutturali diversi. Chi lavora in modo fluido può aspettare decenni che qualcun altro trovi la soluzione perfetta, oppure può iniziare a costruirla dal basso attraverso una sperimentazione distribuita. Le community esistono già e funzionano: resta da capire se possono diventare il nucleo di una nuova società, ancora fondata sul lavoro.



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Lavoratori di tutti i contratti unitevi. Superare la frammentazione per affrontare le sfide del lavoro che cambia 

di Pietro Galeone

07 Novembre 2025


Negli ultimi decenni il lavoro sembra aver perso la sua centralità simbolica. Non è più il fondamento della cittadinanza sociale e il collante di un’identità collettiva. La promessa di emancipazione attraverso la lotta per obiettivi condivisi si è dissolta dentro un’economia frammentata, reticolare, in cui il valore non nasce più in luoghi riconoscibili ma in interazioni sempre più effimere e impersonali. La cultura del lavoro, fatta di linguaggi comuni, diritti, rivendicazioni e solidarietà, si è progressivamente disarticolata, trascinata dalla trasformazione dei rapporti produttivi e da riforme che hanno moltiplicato le forme contrattuali fino a renderle una giungla normativa.


Il lavoro frammentato 

Dall’operaio vuole il figlio dottore all’“occupabilità” la traiettoria è chiara: il rischio è stato individualizzato. Il lavoratore non è più parte di una classe o di un corpo collettivo, ma un soggetto che deve amministrare il proprio capitale umano in un mercato instabile. Le riforme del lavoro dagli anni Novanta in poi – dal pacchetto Treu fino al “Decreto 1° maggio” del governo Meloni – hanno progressivamente introdotto flessibilità contrattuali, con l’obiettivo dichiarato di favorire l’accesso per i giovani o l’adattabilità delle imprese. Il risultato è stato la frantumazione del concetto stesso di lavoratore.  

Oggi, in Italia, si contano decine di forme contrattuali: dal tempo indeterminato alle partite IVA – vere e finte – passando per il tempo determinato, il lavoro intermittente, in somministrazione, stagionale, le collaborazioni parasubordinate, occasionali e così via. A questo, con le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni, si è aggiunta una proliferazione di categorie produttive e nuovi settori, ciascuno con le proprie regole, tutele e rivendicazioni. Tutto ciò ha eroso la possibilità di una solidarietà orizzontale, rendendo più difficile condividere il disagio, riconoscersi nella medesima condizione e organizzare conflitto o cooperazione.  

Basti pensare che all’interno di una stessa azienda possono convivere il giovane avvocato legato con partita IVA in monocommittenza, un impiegato sottoinquadrato a cui non viene riconosciuto lo scatto di livello e l’aumento salariale, e l’addetto alle pulizie esternalizzato a una ditta specializzata. Questi tre lavoratori si vedono ogni giorno, possono anche prendere un caffè insieme sfogandosi ognuno dei propri problemi, ma nessuno dei tre si immedesima nelle diverse istanze degli altri due. Due di loro non figurano neanche come dipendenti dell’impresa – come potranno condividere una battaglia unitaria in sede di rappresentanza aziendale? 

Anche in quest’ottica si può leggere il calo di sindacalizzazione registrato negli ultimi decenni a livello globale. Il sindacato stesso si trova in una crisi strutturale di rappresentanza: non perché i problemi non esistano più o perché i sindacalisti siano diventati meno bravi, ma perché il lavoro è diventato enormemente più complesso. Se la fabbrica fordista permetteva di unificare esperienze e interessi, la piattaforma digitale e la giungla contrattuale li disperdono. Il risultato è una nuova solitudine produttiva.  


Una perdita di linguaggio politico 

La perdita della cultura del lavoro come bene condiviso si traduce in una perdita di linguaggio politico: non sappiamo più nominare la precarietà se non come condizione privata, psicologica, individuale. Per questo la sinistra si è ritrovata sorda e muta di fronte a questo mutamento.  

Terminata con il crollo sovietico l’esperienza internazionalista della sinistra novecentesca, in balia di un capitale sempre più transnazionale e di trasformazioni produttive sempre più globali, le sinistre nazionali si sono trovate sempre più sole e smarrite. L’approccio macroeconomico di lotta alla sovrastruttura ha così ceduto il posto all’intervento normativo microeconomico, che mira ad agevolare l’inserimento del lavoratore marginale ma perde la visione di classe e d’insieme. Di questo cambio di paradigma la sinistra è stata dapprima vittima ideologica e in seguito anche carnefice normativo.  

Oggi, che le disuguaglianze di reddito e di opportunità stanno raggiungendo picchi troppo difficili da ignorare, si prende coscienza dell’errore. Laddove possibile tornano le rivendicazioni sindacali più tradizionali, perfino negli USA dove da tempo mancavano. Al tempo stesso, varie realtà si interrogano su come costruire nuovi spazi di senso e di protezione dentro la frammentazione.


Esperienze collettive e nuovo mutualismo 

Emergono così esperienze nuove: cooperative di comunità che uniscono cittadini, enti locali e imprese per gestire servizi e beni comuni; piattaforme mutualistiche che redistribuiscono reddito e welfare tra freelance; reti territoriali di innovazione che legano pubblico e privato in logiche di co-progettazione; imprese benefit e società cooperative che mettono al centro l’impatto sociale prima del profitto. Sono forme ibride, spesso piccole, ma portano un messaggio politico forte: il lavoro può tornare a essere strumento di appartenenza e di costruzione di valore condiviso, anche laddove l’identità del lavoro è mutata radicalmente. 

Nuove realtà non devono significare però meno tutele. Bisogna saper leggere le nuove soggettività del lavoro e proporre strumenti di protezione universali: proprietà dei dati, welfare portabile, formazione accessibile, garanzie di reddito e rappresentanza. Alcune esperienze di nuovo mutualismo stanno sperimentando questa strada: sindacati di rider, cooperative di professionisti, fondi territoriali per la sicurezza sociale. Dove lo Stato arretra e il mercato disgrega, queste reti ricostruiscono tessuto.

 

Arginare la frammentazione delle rivendicazioni 

C’è chi prova a mettere i due approcci in contrapposizione, sostenendo che le nuove forme di condivisione devono superare la modalità di sindacato più tradizionali. Io non credo che vi sia antitesi, né soprattutto che ci si possa permettere di far prigionieri. Oggi le catene globali del valore, la transizione ecologica e digitale, e la competizione sui tempi e sui dati sono forze troppo destabilizzanti da potersi affidare a un unico modello o perder tempo in diatribe semantiche. Bisogna valorizzare e mettere a sistema tutte le diverse forme che (ri)emergono. 

Soprattutto in una rivoluzione digitale come quella dell’intelligenza artificiale, che accentra sempre più la ricchezza produttiva nelle mani di pochissimi, serve più che mai recuperare la condivisione delle rivendicazioni. L’IA in fin dei conti non è altro che una tecnologia che, come nelle precedenti rivoluzioni industriali, aumenta la produttività di un’ora di lavoro.

La questione è come questa produttività viene distribuita. È naturale che la tendenza dei detentori della tecnologia sia di tenere per sé il beneficio, attraverso una riduzione della forza lavoro e un aumento dei profitti. Sta ai lavoratori pretendere la distribuzione di una parte di quella produttività attraverso salari più alti e una riduzione delle ore lavorate.  

È quello che è successo in passato, non per coincidenza o per generosità: è stato il risultato di lotte e richieste precise condivise dai lavoratori, organizzati da un sindacato forte e rappresentativo, sostenuti da una parte politica di sinistra senza ambiguità. Oggi il rischio di disgregazione sociale e crescita delle disuguaglianze non è endemico nell’IA, è dovuto al contesto sociale frammentato e disorganizzato. 

Per questo serve prendere coscienza del pericolo e rafforzare tutte le forme di rivendicazione, accomunandole e provando ad arginare – sia sindacalmente che legislativamente – la frammentazione contrattuale. In un’epoca in cui la produttività è misura dell’individuo e il valore si crea nei flussi digitali, il lavoro organizzato può e deve tornare a essere una risposta a domande di identità e imprescindibile difesa della coesione sociale. 



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Le tredici ore greche e il tempo perduto del lavoro

di Luigi Vergallo

07 Novembre 2025


Grecia: la legge che consente di lavorare fino a tredici ore al giorno

In Grecia è entrata in vigore la possibilità di lavorare fino a tredici ore al giorno, sei giorni alla settimana. Formalmente non è un obbligo: la legge parla di una “facoltà” concessa alle imprese, attivabile solo con l’accordo individuale del lavoratore. Eppure, come spesso accade, la differenza fra facoltà e obbligo è più fragile di quanto sembri.

Quando la contrattazione collettiva viene sostituita da un rapporto individuale, l’asimmetria di potere fra chi offre e chi cerca lavoro diventa quasi totale. Nella teoria giuridica resta il principio di libertà contrattuale; nella pratica, in contesti segnati da disoccupazione, precarietà e salari bassi, il “consenso” si trasforma facilmente in necessità. Non sei obbligato a lavorare tredici ore, ma potresti non avere alternative. E, comunque, il punto non è ancora quello più essenziale.


Lavorare di più non significa guadagnare di più

La riforma greca non può essere letta come un episodio isolato. È un esperimento europeo: un laboratorio politico e sociale che misura la capacità del continente di accettare un arretramento storico in nome della competitività e della flessibilità. Ogni crisi — economica, energetica, o demografica — diventa il pretesto per rimettere in discussione conquiste che sembravano acquisite, come la limitazione dell’orario o la tutela collettiva.

Da decenni i salari reali restano fermi, soprattutto nei paesi del Sud Europa. In Grecia e in Italia, chi lavora guadagna in media meno di vent’anni fa, al netto dell’inflazione. Lavorare di più non significa guadagnare di più: significa semplicemente riempire con ore e straordinari il vuoto lasciato da politiche salariali inadeguate, da produttività stagnante, da un modello di sviluppo che non redistribuisce. I salari dovrebbero finalmente cominciare a salire, a parità di tempo di lavoro. Solo questo darebbe un primo segnale e una prima risposta al problema dei working poor.

La logica del “più lavoro individuale” non produce più occupazione, ma solo più sfruttamento del tempo di chi lavora già. È la trasformazione silenziosa di un principio economico in un principio morale: l’idea che lavorare di più equivalga a essere più meritevoli, più utili, più moderni. In realtà, è l’opposto. Ogni ora in più sottratta al tempo libero, alla formazione, alla vita familiare e sociale, non accresce la ricchezza collettiva: la sposta, la concentra, la impoverisce nella sua qualità umana.


Otto ore per vivere: la libertà del tempo e la sfida del futuro

Le lotte per la giornata lavorativa di otto ore — che in Italia si affermarono nel primo dopoguerra e poi nel compromesso sociale del Novecento — non furono una semplice battaglia sindacale. Furono una battaglia culturale, antropologica. Riguardavano l’idea stessa di libertà.

Otto ore per lavorare, otto per vivere, otto per dormire: questa divisione, apparentemente aritmetica, fu una rivoluzione morale. Significava che la vita non poteva essere interamente assorbita dal lavoro, che la cittadinanza non coincideva con la produttività.

Oggi, in un continente che discute di intelligenza artificiale e di riduzione degli orari grazie alla tecnologia, la reintroduzione di giornate da tredici ore suona come una regressione simbolica. È la riproposizione di un’idea arcaica di lavoro come misura della sopravvivenza individuale, non come fondamento di una vita comune.

La Grecia, in questo senso, è il laboratorio di una deriva che ci riguarda tutti. Ci mostra la direzione verso cui rischiamo di muoverci: una società in cui il tempo torna a essere merce, e la contrattazione si riduce a una trattativa fra solitudini.

Forse la vera modernità non è lavorare di più, ma poter vivere del proprio lavoro.

E avere ancora, alla fine della giornata, del tempo che resti nostro.



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Libertà dal lavoro, libertà nel lavoro 

di Francesco Gentilini

07 Novembre 2025


In Vita Activa, Hannah Arendt ripropone, in versione contemporanea, una visione del lavoro di origine classica: un’attività animalesca, da ridurre al minimo e confinare alla sfera privata. L’idea del lavoro come negazione della libertà, infatti, rappresenta uno dei fondamenti storici dell’Occidente.

Che si guardi all’antica Roma o all’antica Grecia, il pensiero, la politica e l’arte erano riservati a coloro che non dovevano lavorare per vivere. Un disprezzo per il labor che sembra oggi godere di inedita popolarità, soprattutto tra quelle fasce della popolazione – giovani in primis – che non godono di un lavoro con sufficienti tutele e garanzie di stabilità. D’altronde, se il lavoro ci maltratta, perché dovremmo amarlo? Ma soprattutto, come possiamo immaginarci liberi e felici in un contesto dove siamo subordinati e precari per legge? 

L’utopia di un mondo senza lavoro e le profezie sulla sua fine esistono da quando esiste l’umanità. La cattiva notizia, secondo Marx, è che di lavoro ce ne sarà sempre, anche nel più socialista dei mondi possibili. Non possiamo non interessarci del lavoro perché il lavoro non smetterà di interessarsi di noi.

Quella buona è che il lavoro, se concepito come istanza universale, può liberare energie trasformative ed essere spazio di autorealizzazione e di una libertà tanto individuale, quanto collettiva. I principali lavori di filosofia del lavoro – disciplina non ancora formalmente riconosciuta, ma comunque indispensabile – esplorano il rapporto tra libertà e lavoro attraverso due direttrici principali.


Ridare umanità al lavoro 

Qual è un modo di lavorare veramente umano? Questa è la domanda che Simone Weil, forse la più importante filosofa del lavoro della sua epoca, si pone verso la fine del Diario di Fabbrica, e che oggi ritorna al centro del dibattito sul decent work.

La democratizzazione del lavoro, condizione sine qua non per una sua umanizzazione, non è comunque sufficiente: anche nei contesti di lavoro formalmente più democratici e orizzontali si possono fare strada forme alienanti di organizzazione del lavoro. L’obiettivo è costruire ambienti di lavoro che stimolino le e avanzino una concezione collettiva della libertà, favorendo l’agency dei lavoratori e limitandone assoggettamento e uniformità. 

Un problema ancor più rilevante nell’epoca della transizione digitale, dove è anche necessario chiedersi, sia da un punto di vista tecnologico che etico, quali sono i lavori che le macchine non possono e non devono poter fare. La relazione tra macchina e lavoro scadente è di natura etimologica: la parola “robot” – usata per la prima volta dallo scrittore Karel Čapek per definire indicare automi condannati a lavori da schiavi – deriva dal lemma ceco “robota”, ovvero “lavoro pesante o forzato”.


Ridare senso al lavoro 

 In quella che Umberto Galimberti ha definito come “età della tecnica”, ridare senso al lavoro diventa un’aspirazione rivoluzionaria, per citare Thomas Coutrot e Coralie Perez

Quando David Graeber, anticipando di qualche anno il dibattito accademico contemporaneo, iniziò a parlare di bullshit jobs, colse un problema fondamentale: l’epidemia di lavori senza senso, anche tra quelli ben retribuiti e formalmente tutelati. 

Che piaccia o no, il lavoro continua ancora a mantenere una forte centralità nella vita della grande maggioranza delle persone, sia in termini di rilevanza soggettiva che di ingombro temporale, ma al giorno d’oggi sembra essere sempre più difficile dotarlo di un senso che ecceda la mera retribuzione (cifra minima affinché un’attività possa definirsi “lavoro”).

Se “lavorare meno, lavorare tutti” continua ad essere uno splendido programma di riscatto dell’otium, la ricerca di una libertà nel lavoro rappresenta una battaglia politica altrettanto necessaria e non rimandabile, e continuerà a farlo anche in un mondo – che speriamo venga presto – di settimane corte, lavori non scadenti e salari dignitosi. Lavorare meglio, lavorare tutti.



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Lavorare da uomini liberi o da sudditi? 

di David Bidussa

07 Novembre 2025


Consideriamo due ipotesi diverse. 

La prima. Sottolinea Axel Honneth nel suo Il lavoratore sovrano (il Mulino), che il lavoro oggi, non è più identificabile con il lavoro industriale.  Lavoro è, anche, quell’insieme di attività (spesso non retribuite) che consentono la riproduzione sociale. Per questo propone di favorire quelle iniziative (in particolare le cooperative di lavoratori) che si muovono in direzione opposta alla atomizzazione. Il fine è incrementare e allargare la partecipazione. 

 Honneth individua cinque condizioni minime per consentire a tutti i lavoratori di partecipare al processo democratico senza vincoli sociali o psicologici. Più precisamente: 

  • un reddito minimo; 

  • disporre di tempo sufficiente per seguire gli eventi e i dibattiti politici in modo da potersi impegnare, se lo si desidera, nell’arena pubblica; 

  • riconoscimento pubblico del lavoro che si svolge; 

  • beneficiare di un diritto minimo di codeterminazione delle modalità di lavoro e degli obiettivi del proprio impegno; 

  • livello minimo di complessità e rigore intellettuale in ogni lavoro, per evitare gli effetti psicologici disastrosi di lavori passivi e ripetitivi. 


Ora consideriamo la seconda ipotesi. A proporla è Massimo De Carolis nel suo Rifeudalizzazione, (Gramma). 

De Carolis insiste su due tratti. 

  • centralità di un legame sociale basato sullo scambio tra autorità e fedeltà. All’opposto della concezione paritaria su cui poggia l’ideale moderno di un «contratto sociale» tra cittadini liberi e eguali, quello che qui entra in gioco è un patto asimmetrico di affiliazione o vassallaggio, in cui uno dei due poli acquista il monopolio dell’autorità mente l’altro si impegna all’obbedienza. 

  • Simbiosi tra denaro e potere, tra economia e politica. Pur rimanendo parametri distinti – precisa de Carolis – denaro e potere fungono all’atto pratico, da criteri interscambiabili del patto, potendo figurare entrambi sia come misura dell’autorità di chi occupa la posizione di comando, sia come premio per la fedeltà degli affiliati. 

Una ipotesi diversa e complementare, non opposta, rispetto a quella di Honneth. 


Il sottotesto di entrambi è che senza intraprendere un percorso che ridia dignità al lavoro, il rischio è quello di procedere a passi rapidi verso la schiavitù. 


Percorso opposto a quello che sta all’inizio del percorso verso la libertà che inaugura quel tempo che intende abolire il privilegio. Progetto che risale a 350 anni fa e che ha un capostipite: Baruch Spinoza. 


Il nodo sta nella definizione di «uomo libero» e di «schiavo» che Spinoza propone nel Trattato politico, laddove la soglia consiste nel sentirsi dipendenti da qualcuno tanto da non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di ribellarsi [Trattato Politico, cap. II, §.X]. Una condizione che ha il suo fondamento nell’obbedienza e che nel tempo dà luogo alla consuetudine, al fatalismo, alla convinzione che l’ordine sia immodificabile.  [Trattato Politico, cap. V, §. IV]. La conseguenza è l’eclissi della libertà. 


Forse è una distinzione troppo netta, ma serve per capire dove passa il confine tra libertà e obbedienza, in un tempo in cui la parola disobbedienza sembra spesso essere indicata come «tradimento». 


Non solo. Serve anche a capire ciò di cui ci mettono in guardia sia Axel Honneth sia  Massimo De Carolis: la mancanza di una dimensione collettiva delle rivendicazioni politiche e del lavoro significa aprire le porte alla schiavitù. 



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Ripartire dalla collettività per riprendersi il lavoro 

di Circolo Lato B Milano

07 Novembre 2025


Generazioni e lavoro: come TikTok racconta il cambiamento

Se passate un po’ di tempo su TikTok vi sarete sicuramente imbattuti in un certo tipo di video: “Come lavorano le generazioni a confronto?”. Il copione è sempre lo stesso. Il boomer si sveglia presto, arriva in ufficio per primo, tratta male i sottoposti e torna a casa soddisfatto, pronto a ricominciare il giorno dopo. Il lavoratore della Gen X è più rilassato, ma comunque sicuro di sé e orgoglioso del proprio ruolo. Il millennial, invece, è sull’orlo di una crisi di nervi: ansioso, frustrato, sempre pronto a scusarsi con tutti e pieno di sensi di colpa. Poi c’è la Gen Z, che sembra aver perso del tutto interesse: arriva tardi, minimizza le sue negligenze, scrolla sullo smartphone, aspetta solo l’ora di uscita. 

Questi video, nati per divertire, raccontano in realtà molto del nostro tempo. Mostrano un cambiamento profondo: il lavoro non è più il centro della vita, ma un ingombro necessario, un frammento tra gli altri. Dove un tempo si cercava nel lavoro un senso, oggi si cerca solo di sopravvivere al suo peso e spesso è percepito come un fastidio, un passaggio obbligato per poter permettersi qualcos’altro: tempo libero, vacanze, passioni, o semplicemente il diritto di staccare.


Quiet quitting e il declino del mito del lavoro come autorealizzazione

Questo mutamento di prospettiva racconta molto di come oggi si sia incrinato il mito del lavoro come autorealizzazione. Per decenni lavorare non è stato solo un mezzo, ma un fine in sé: l’identità, il valore personale, la rispettabilità sociale passavano tutti di lì. “Che lavoro fai?” era una domanda che sottintendeva, implicitamente, “Chi sei?”.  

La verità è che non sogniamo più il lavoro — e forse, finalmente, lo abbiamo smascherato. Abbiamo capito che non ci salva, non ci garantisce sicurezza e raramente ci restituisce il tempo che gli offriamo.  

Il lavoro contemporaneo, soprattutto per chi è nato dopo gli anni Novanta, è diventato un territorio ambiguo: onnipresente ma vuoto di senso. Si lavora sempre — anche quando non si è “al lavoro” — rispondendo a messaggi, aggiornando cv, coltivando competenze. Ma allo stesso tempo si fatica a crederci davvero. Si fa per necessità, non per desiderio. È una recita di efficienza che non promette più niente in cambio. 

Nessuno, infatti, crede più alla promessa del “fatica, studia, impegnati e vedrai che riuscirai ad emergere” o anche solo a cambiare la tua condizione sociale. Il mito è caduto, si cercano altre strade, si spera di “svoltare” con altri mezzi, soprattutto grazie ad Internet. 

“Non sognare il lavoro” però non è solo una forma di apatia, ma anche una forma di resistenza. 


Diritti, collettività e nuove forme di resistenza al lavoro precario

Al Lato B Milano – circolo sociale, culturale e politico di viale Pasubio – è aperto, ormai da 5 anni, uno sportello di prima consulenza legale gratuita a cui è possibile rivolgersi per comprendere meglio il proprio contratto, per chiedere informazioni, per risolvere un problema o un contenzioso col datore o con l’azienda.

Da sempre molto partecipato, è affiancato anche da un corso di alfabetizzazione ai diritti del lavoro che, in tutte le sue edizioni, ha visto avvicendarsi sempre più un’utenza giovane e, spesso, precaria.

Le persone vogliono conoscere i propri diritti per resistere, per non farsi divorare dal lavoro, per poter ottenere ciò che gli spetta e smettere di accettare condizioni che promettono visibilità ed esperienza, ma che non servono per ciò per cui si lavora: vivere una vita degna.

Non accettare di passare il proprio tempo a lavorare, richiedere la settimana corta, rivendicare il proprio tempo libero per sé, senza dover rispondere alle mail o ai messaggi h24, smettere di credere che “siamo una famiglia, ognuno deve fare qualche sacrificio per gli altri e per l’azienda”, sono passi fondamentali per emanciparsi dal ricatto del salario.  

E se ancora la generazione dei millennials, come ci insegna Tiktok, è prigioniera di questo ricatto, pur sapendo che non porterà realmente a potersi permettere una famiglia, un tetto sopra la testa, un futuro solido, sono proprio i giovanissimi a ribaltare il paradigma finora vigente. 

Capire che bisogna lavorare per vivere e non vivere per lavorare è il primo passo per poter uscire dalla precarietà, dalla foresta di contratti e stage sottopagati, dalla promessa che se oggi ti fai sfruttare forse, un domani, potrai vivere la tua vita.  

Tuttavia, a questo rifiuto manca ancora un tassello fondamentale: la collettività. Solo insieme possiamo costruire un nuovo mondo del lavoro, che non si fondi sul profitto e sullo sfruttamento del più forte sul più debole; un mondo in cui il lavoro non sia una prigione necessaria, ma un mezzo di emancipazione e di dignità, dentro e fuori da esso. Un lavoro a misura d’essere umano, che permetta di lavorare meno per lavorare tutti, rispettando i tempi e i bisogni di ciascuno. 

Dobbiamo smettere di credere che questo sia l’unico mondo possibile, l’unico lavoro possibile. Dobbiamo tornare a immaginare — e a lottare — per qualcosa di diverso. Perché se ci muoviamo insieme, se insieme rifiutiamo la falsa promessa che per secoli ci ha spinti a sfruttarci a vicenda, allora il cambiamento diventa possibile. 

Non è il singolo a poter rovesciare un sistema bugiardo, ma la collettività che smette di credergli. Quando il “non ci sto” diventa plurale, il lavoro può tornare a essere uno strumento per vivere, non ciò che ci divora la vita. 



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Basta lavorare così

di Silvia Zanella

07 Novembre 2025


Il lavoro non è mai stato così centrale nelle nostre vite, e allo stesso tempo così invadente. Nell’estratto che segue (pp 35-36), Silvia Zanella mostra come l’idea di identificarci totalmente con il nostro ruolo professionale sia diventata insostenibile, soprattutto dopo la pandemia, quando il confine tra vita privata e lavoro è definitivamente esploso. Burnout, smarrimento, ma anche nuove possibilità di libertà: tutto nasce da un cambiamento profondo nella natura stessa del lavoro.


L’idea che il lavoro costituisca un mezzo di realizzazione personale è un paradigma ampiamente accettato, radicato in noi prima ancora del nostro ingresso nel mondo lavorativo e che si manifesta in un senso di identificazione con il nostro “io professionale” indipendentemente dal nostro ruolo occupazionale.


Questo concetto persiste nonostante le profonde trasformazioni del lavoro, e diventa ancora più complesso da gestire stante le sue esondazioni nell’identità privata. Se negli ultimi tempi ci sentiamo sopraffatti, se fatichiamo a mettere ordine tra nostre le priorità private e professionali, se non riusciamo a trovare un senso a quel che facciamo otto (o più) ore al giorno, c’è un motivo. Ma anche se siamo euforici, se sperimentiamo una libertà mai vista prima, se adesso ci è cristallino cosa ci piace fare e cosa no, c’è un motivo.


Se infine gestiamo un team, o un’intera organizzazione, e non sappiamo se mettere la retromarcia o spingere forte il pedale dell’innovazione, anche per questo c’è un motivo. Il motivo è che il lavoro è cambiato, in maniera radicale: il lavoro è diventato sconfinato ed è entrato prepotentemente in competizione per prenderci non solo i nostri tempi e i nostri spazi, ma anche le nostre priorità.


La pandemia è stata la cartina al tornasole. Che il lavoro fosse diventato troppo invadente rispetto al nostro privato e che al tempo stesso tentasse di soffocare ogni nostro moto di autonomia era chiarissimo ben prima del 2020. Ma la tempesta perfetta di emergenza sanitaria, crisi economica mondiale, conflitti inimmaginabili ha spinto moltissime persone a chiedersi se fosse veramente quella l’esistenza che volevano condurre: guidando ore nel traffico, o stando ammassati in metropolitana tutti i giorni tutti insieme alla stessa ora, vedendo i figli o il cane alle otto di sera, trascurando la propria salute e in totale distonia con quello che stava succedendo nell’intero pianeta. Con un malessere crescente, specie in presenza di un capo controllante, poche opportunità di crescita, zero formazione, una busta paga leggera.


Un primo pensiero che fa male, quindi, è pensare che noi equivaliamo al nostro ruolo all’interno dell’azienda o del mercato del lavoro. Ma tu non sei il tuo lavoro. Letteralmente. E questa è una buona notizia, sia per te che per chi lavora con te. Innanzitutto, significa togliere di mezzo un’equazione che risulta molto onerosa da sopportare nel quotidiano. Ovvero che il nostro valore sia direttamente ed esclusivamente commisurabile a cosa c’è scritto in calce alle nostre email o nel biglietto da visita, o a quanto dichiaravamo all’ufficio anagrafe quando rinnovavamo la carta di identità.


Ognuno di noi è caratterizzato da tanti tratti distintivi e ruoli: oltre a quello strettamente professionale, siamo anche figlie, padri, sorelle, nonni, volontari alla biblioteca scolastica, appassionati di gin, collezioniste di giochi da costruzione, cinefili, migliori amici, mentori, affetti da una patologia invalidante, caregiver, con un dato orientamento sessuale, atei o catechisti, nativi o stranieri, vecchi o giovani. Se non si considerano le persone a tutto tondo si possono solo prospettare grandi perdite, a livello soggettivo e sul piano aziendale. Le parole non ci aiutano, perché segmentano una realtà, quella del lavoro, in definizioni perentorie che non ci appartengono, o che ci appartengono solo in parte. O che, in alcuni casi, sono fuori tempo massimo. E l’incasellamento in una targhetta fuori dall’ufficio o in un rettangolino dell’organigramma davvero non basta più a determinare chi siamo.



Fonti: FONDAZIONE FELTRINELLI - Pubblico Newsletter #58, 7 novembre 2025

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