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LUCA CASARINI. L'apocalisse e noi / FRANCESCO PIOBBICHI. Meno male che ci siamo

🌹 LE MALETESTE 🌹

16 mar 2025

"Non ci rassegniamo all’unico mondo possibile, quello dell’Apocalisse come promessa e dell’Apocalisse come minaccia…” - LUCA CASARINI / "Non solo contro la guerra e il riarmo globale scendiamo in piazza, ma con l'idea di tornare ad essere di nuovo vento che cambia il mondo..." - FRANCESCO PIOBBICHI

L'apocalisse e noi

di Luca Casarini

15 marzo 2025


Le due guerre mondiali, che insieme a rivoluzioni, cultura, scienza e tecnica, sono anch’esse nate dall’Europa e costituiscono insieme la più grande carneficina umana mai accaduta nel pianeta terra, hanno avuto come anticipo protezionismo, sovranismi, spinte alla guerra commerciale e di accaparramento di risorse. La presidenza statunitense, per tentare di reagire a un indebitamento colossale e seri problemi di competizione con altre potenze della scena globale, ha ricreato attraverso i “dazi”, il clima di guerra. Tutti contro tutti, intanto, perché gli interessi sono quelli della nazione, che non coincide con chi abita e lavora entro i suoi confini. Il clima di guerra dei dazi, è stato accompagnato dal clima di guerra interno, istituito con ordini esecutivi, che ha innanzitutto lo scopo di “governare” la guerra civile interna, che è il vero timore di ogni Stato (Machiavelli).


Il clima di guerra esterno, il tutti contro tutti rappresentato dai dazi, deve però essere governato anch’esso: il maggior rischio è quello che si percepisca nelle opinioni pubbliche, ciò che probabilmente va più vicino alla realtà che stiamo vivendo, e cioè che non vi è alcuna idea, da parte di nessuno dei comandanti in capo, in primis quello statunitense, di come possa andare a finire. Non si può dire, ma si vive alla giornata anche dallo studio ovale, seduti su una polveriera, cercando di fare attenzione che qualcuno non butti un mozzicone acceso mentre fa finta di saper governare il mondo.


La guerra dei dazi, che serve a far percepire il mondo in guerra anche dove non risuonano i colpi di artiglieria pesante, ha come antidoto al contraccolpo interno che potrebbe portare alla guerra civile, il rifinanziamento dell’economia tramite la vendita di armi a tutti coloro che nel clima di guerra, che spinge a proseguire e non a concludere anche le guerre in corso, si lanciano nel riarmo degli Stati e dei volonterosi club di candidati a guidare nuove alleanze. Il 64 per cento di tutte le armi che serviranno al riarmo, le venderanno gli Stati Uniti a tutti gli altri, al di là del luogo di produzione. Sono infatti i brevetti e i dispositivi tecnologici più avanzati all’interno delle macchine di morte, il vero valore, non le carcasse degli strumenti. Dunque, la guerra civile interna, con la quale il comandante in capo ha a che fare, viene dapprima “orientata”, mettendosene a capo e indicando nello “straniero interno” il nemico sul quale scagliarsi, e poi “governata” attraverso un rifinanziamento dell’economia individuato nei tre assi strategici: AI, energia, armi di distruzione di massa.


Questo tentativo di “governo della guerra civile”, si comprende bene se si osserva come è stato trattato Capitol Hill, un assalto con morti e feriti, con bombe pronte ad esplodere etc, da Trump: un atto eroico, di guerra civile assunta come legittima dal presidente in carica, e con la grazia agli “ostaggi” finiti nel frattempo in galera per averla praticata. Non è radicalismo questo, di una destra golpista vecchia maniera: è una strategia politica del tempo nel quale gli Stati dovranno fare i conti con la guerra civile come ipotesi concreta, spinta dall’aumento della povertà e dal taglio del welfare, che fanno da corollario in ogni angolo dell’Occidente, a questa nuova fase del capitalismo globale finanziarizzato.


Tornando agli insegnamenti del passato, la guerra contro altri Stati e altri poteri, è sempre stata un antidoto insostituibile al pericolo della guerra civile interna. Oggi mi sembra che il tentativo da parte dei comandanti in capo, sia quello di assumere la prospettiva di guerra civile interna, come una cosa con la quale non solo saper convivere, ma addirittura governare con essa, domandola, direzionando la sua furia perché aumenti gli elementi di controllo e comando invece che metterli in discussione. Altri hanno scritto sulla tendenza alla guerra civile globale, a me sembra non solo che abbiano ragione, ma che ci siamo già. Il laboratorio statunitense e anche quello europeo che si sta formando dall’alto in questa situazione, andrebbero considerati proprio per il tentativo di introduzione nello schema imperiale e nazionalistico insieme, globale e protezionistico allo stesso tempo, del “governo della guerra civile”, scatenata da diseguaglianze e compressione dei diritti che possono solo crescere in Occidente nel prossimo futuro.


Il rifinanziamento dell’economia Usa tramite la vendita dei sistemi di distruzione di massa, non sarebbe potuto avvenire senza che tutti si riarmassero. La guerra in Ucraina, dovuta all’invasione di un esercito di un altro impero, è stata inserita anch’essa in questo schema: è uno dei simboli, maledettamente tragici e concreti per milioni di esseri umani, della guerra globale permanente e dei suoi attori. Il “negoziato” di Trump e in particolare l’imposizione della spartizione come bottino di guerra -territori a Putin, terre rare agli Usa – mostra chiaramente, senza l’ipocrisia “democratica“, che la guerra è innanzitutto un business. Putin mandando a farsi massacrare mezzo milione di soldati che ha prelevato da regioni come la Siberia, mica da Mosca o da San Pietroburgo, ha ottenuto quella sedia al tavolo con Trump.


Ora è chiaro che tutto questo accade con noi dentro, e anche se volessimo fuggire su Marte, non ci riusciremo (anche perché nemmeno Marte come sappiamo, sarà un luogo tranquillo e disponibile fra non molto). A diverse distanze, il “popolo”, quello che sta in basso, che vive all’ultimo livello sottoterra e respira finché quelli dei piani alti non chiudono gli areatori, e quello che via via abita più su, verso la superficie, è dentro tutto questo. E se gli attaccano la casa sparando da un carro armato, come in Ucraina, magari prova a resistere. Ma se la sua resistenza viene inghiottita dalla guerra fra Stati, non vi è più verso di salvarla, di preservarne il senso profondo di giustizia che ogni resistenza a un esercito invasore che colpisce i civili per imporre con la forza brutale il suo dominio, possiede. La lettera di Ocalan, con la quale chiede ai suoi la fine della resistenza armata “contro un altro Stato”, a questo proposito rappresenta un enorme contributo politico e culturale.


L’Italia, come riporta il Sole 24 ore, ha aumentato dal 2023, del 138% l’esportazione di armi, diventando il primo paese al mondo per livello di incremento di questo business di morte. Pensavo prima di leggere l’articolo, che fosse per l’Ucraina. Manco per sogno. Abbiamo riempito il Medioriente, abbiamo armato fino ai denti l’Egitto ad esempio, che è una dittatura militare. Come noi, un po’ meno bravi ma sempre ad alto livello, tutti gli altri nostri alleati. Dunque noi riempiamo il mondo di armi, e poi ci riarmiamo perché la situazione diventa “pericolosa“. Il riarmo tedesco, è l’ultima volta che è successo non è andata molto bene, deve recuperare la crisi del gas (perché con Putin, fino all’altro ieri, nonostante la Georgia, nonostante la Cecenia, nonostante Aleppo, ci facevamo altro che affari) e dell’industria in generale, a partire da quella dell’auto. “Bisogna produrle qui le armi”, ragionano quelli della Spd. Il riarmo nazione per nazione, non ha una alternativa: non esiste una Europa politica, in grado di avere una politica estera comune. “È la volta buona”, dicono gli entusiasti del ReArm. Quindi, dopo aver provato ad usare il commercio e la moneta come possibili volani per una Unione politica, adesso è il turno della guerra. È per difendersi ripetono gli entusiasti. I nostri valori, le nostre democrazie. Non a caso, il giorno del primo annuncio di Ursula sugli ottocento miliardi in cannoni e missili, è stato anche quello dell’approvazione del piano per deportare migranti in campi di detenzione fuori dai confini europei (che brava Giorgia Meloni, dice il capo dei volonterosi, il democratico Sturmer). Come Trump con quel curioso rituale della firma con il pennarello su un foglio che sarà bianco, vai con il nemico interno, straniero. Guerra civile da governare, e indirizzare, anche qui.


Quindi valori? L’Spd prima di lanciarsi al sostegno del progetto di costruzione del “più grande esercito europeo”, ha fatto deportare con la forza, mentre era al governo, 132 persone rifugiate afghane: li hanno riconsegnati ai talebani. I valori europei, galleggiano vicino ad un relitto nel Mediterraneo centrale, o si mescolano al puzzo dei cadaveri delle fosse comuni in Libia. Sono impressi nei polpacci delle donne e dei bambini della rotta balcanica, morsi dai cani della polizia croata o ungherese. Oppure giacciono lì, nella terra di mezzo tra il muro polacco e il filo spinato bielorusso, dove muoiono di fame e di freddo le famiglie che sono rimaste intrappolate, davanti agli occhi dei militari.


Dovremmo davvero riflettere su come recuperarli, i valori europei, la civiltà. Non credo che si possa fare sulla punta non del fucile, ma di un missile a testata nucleare tattica. Forse, invece di pensare a come fare a sconfiggere i potenti che opprimono altri popoli, dovremmo provare a lottare contro i nostri di governanti, che i valori europei li usano come zerbino per pulirsi le scarpe.


La variabile, non prevista, non calcolabile, che può fare irruzione e scompaginare le carte già preparate di questo gioco truccato dalla macchina dell’accumulazione capitalistica, siamo noi. Donne, uomini, che abitano in basso o più in alto nei livelli, ma che non si rassegnano all’unico mondo possibile, quello dell’Apocalisse come promessa e dell’Apocalisse come minaccia. Le due varianti non mi interessano. Meglio Blade Runner.


fonte: comune-info.net - 15 mar. 2025

 

Meno male che ci siamo

di Francesco Piobbichi

15 marzo 2025, 7.15


Nulla sarà come prima lo dicono in molti. La crisi multipla del capitalismo accellera, è così avanzata che per comprenderne la velocità occorre guardare l'estremismo dei concetti e delle parole usate da parte delle classi dominanti della nazione guida a livello globale dopo l'avvento di Trump.


L'occidente e la sua oligarchia questa crisi la sentono, la fiutano, hanno più informazioni di noi, e hanno la necessità di allargare lo spazio di dominio su cui ampliare il margine di profitto. Lo fanno con la guerra e con la pace sotto ricatto. Lo fanno con i dazi, espandendo la produzione militare. Ma questo spazio è sempre piu stretto, già il termine "terre rare" entrato nel lessico politico descrive il senso di questa limitatezza.

Al tempo stesso le merci prodotte non possono essere tutte vendute, c'è una crisi di accumulazione, e una gran parte dell'umanità, rimarrà disoccupata. Costretta a vivere nel recinto della miseria globale, dove nascono intere prigioni a cielo aperto, deportazioni e confinamenti.

C'è chi decide di rischiare la vita attraversando le frontiere nella speranza di collocarsi nel segmento più basso del mercato del lavoro, o di restare nelle miseria. Questo avviene mentre si accumulano in poche mani così tanti profitti come mai successo nella storia umana.


Si polarizza la società, tra oligarchie e umanità eccedente. Ricchezze smisurate, costruite su una bolla finanziaria che potrebbe esplodere in ogni momento, ricchezze smisurate che le élite non sanno nemmeno dove investire se non nel circuito finanziario che quella bolla la fa crescere ancora. Il riarmo. Non bastasse questo, la delegittimazione degli stati-nazione e la loro tendenza oligarchica, assieme alla catastrofe climatica chiudono il cerchio aggiungendo alla crisi economica quella democratica ed ecologica.


Il bisogno di uno stato autoritario si sviluppa in questo quadro, per gestire una crisi senza possibilità di essere risolta. Il nichilismo capitalista assume i contorni delle sue frontiere omicide. Siamo entrati nel governo puro del capitale. La sua fame di profitto è talmente elevata che non gli basta più semplicemente affermarsi nella dimensione egemonica, deve assumere una forma più esplicita, più violenta.

Con il governo puro del capitale, lo stato-nazione autoritario torna in tutto il suo splendore dopo la parentesi dello stato sociale.


In questo momento l'attore che fa sobbalzare le pedine dalla scacchiera sono gli Stati Uniti di Trump che sputano sul mondo e sull'Unione Europea in particolare la loro crisi interna come mai avvenuto. L'assetto degli Usa si basa su una visione di parte, tra chi sta dentro il confine occidentale e chi sta fuori. Lo hanno sempre fatto, ora però non hanno più vergogna di nasconderlo. Vogliono essere grandi nel loro privilegio, nel loro stile di vita che nessuno deve mettere in discussione. Ed è per questo che sempre più la linea delle frontiere si integra ai processi di guerra e alle trattative geopolitiche.

Basta leggere il libro bianco sulla Difesa Comune Europea approvato ieri l'altro. Armi e frontiere armate rispondono alla stessa logica.


Siamo dentro un processo verticale agito dalle classi dominanti, sempre più bonapartista, che sposta la decisione lontano dai parlamenti. Il genocidio del mediterraneo ha anticipato quello di Gaza, questi sono avvenuti con complicità bipartisan. Tutto appare più chiaro, nitido e feroce. Il collasso della prospettiva liberal democratica toglie la cipria agli stati-nazione occidentali, le classi dominanti scelgono la politica dell'armamento, e tutti gli stati imperiali si apprestano a vivere e contrattare in questo nuovo equilibrio. Ucraina, Palestina, Siria, Africa.


È un Risiko fatto di caselle, confini, guerre e processi estrattivi che non trova una visione alternativa all'interno dello schema degli stati nazione. Fronte interno e fronte esterno girano su se stessi.


Nella realtà dei fatti però una forza che incontrano esiste, ed è la società umana, la sua resistenza ecosociale che si vede in molti punti. Una costellazione di resistenze. Il rifiuto della politica degli armamenti è una di queste.

Manca una visione radicale organizzata, una teoria economica da contrapporre, una forma di governo da contrapporre agli stati-nazione. Manca lo sviluppo di una filosofia morale da contrapporre al nichilismo capitalista. Manca direzione politica.


Manca ancora tutto, ma esistiamo. Esistiamo però solo se resistiamo. Esistiamo se ci organizziamo.

Il tema della rivoluzione come processo che si oppone al nichilismo capitalista ed alla sua guerra genocida è davanti a noi. La scelta non è più tra alternative dentro lo stato, ma al di fuori da esso.

La fratellanza come scelta, ed una teoria economica che non metta al centro il tema della crescita del Pil in una società senza sfruttamento dell'uomo e della natura sono i valori su cui ricostruire una visione di mondo. Lo sono anche la democrazia di base nelle città e nei luoghi di lavoro, la lotta alla violenza di genere e le pratiche di economia solidale. Il mutuo aiuto che si allarga negli spazi vuoti che lascia lo stato sociale.


Non possiamo pensare oggi al rifiuto della guerra senza produrre questa discussione tra noi.


Manca, e lo sappiamo, uno spazio organizzativo in cui ragionare tra le differenze, manca un metodo, manca una descrizione su come intervenire sulle fratture della crisi capitalista nel qui ed ora.

Non c'è più tempo da perdere, è chiaro, questo spazio va costruito, ma per farlo occorre tempo.

Va Costruito, da oggi e nei tempi che verranno, partendo dal rifiuto della politica del riarmo. Ma, senza una visione ed una direzione politica chiara, senza comprendere la necessità dell'impegno per definire una organizzazione internazionale della resistenza, noi saremo sconfitti molte volte.

Questo vuol dire avere la capacità morale di costruire una forma di attivismo sociale che non abbia in mente la carriera politica dentro le strutture elettorali ma nella capacità di produrre impresa del bene comune. Resistenza, e conflitto generoso per la comunità con la quale condividiamo un orizzonte.


Non c'è una ricetta, nè una linea, semmai un metodo, un approccio per capire di volta in volta come allargare lo spazio della cooperazione sociale senza essere inglobati dallo Stato o nel mercato. Resistendo ai processi estrattivi diventiamo realtà costituente territorio per territorio.


La guerra non è solo quella degli eserciti che distruggono le città, ma anche quella delle multinazionali che devastano i territori, degli uomini che uccidono le donne. Non è andata mai bene quando i movimenti rivoluzionari hanno prodotto lo scontro diretto con lo stato per "prendere il potere" senza sciogliere questi nodi contemporaneamente; nel migliore dei casi sono diventati Stato riproducendo gli stessi meccanismi di dominio, nel peggiore sono stati sconfitti in un bagno di sangue che ha finito per distruggere la società.


Questa è in sintesi la storia che ci precede, gloriosa storia, nella quale i tentativi fatti per un mondo migliore, sono falliti, miseramente uno dietro l'altro. Questo fallimento è parte di noi, è un fallimento che ci guida a non ripetere gli stessi errori. Ma dentro questo fallimento c'è anche la forza nel dire che le cose possono cambiare. C'è il pane in comune, la solidarietà partigiana. Di questa straordinaria resistenza che l'umanità ha sempre avuto contro il dominio del Dio del profitto, contro le guerre, contro il Patriarca e il Sovrano della proprietà, di questa storia che vede l'evoluzione dello stato nazione come flagello dell'umanità e della natura occorre fare memoria, per romperla.


Il processo di confronto con lo Stato si nutre anche della capacità di democratizzarlo, di erodere gli spazi, di riempire quelli che lascia. Vuol dire frammentarne il potere a partire dai luoghi più vicini alla comunità con processi di democrazia diretta.

Per evitare di finirci dentro mani e piedi, come già avvenuto troppe volte, è importante definirci, definire una filosofia politica che riconosca i limiti del nostro agire, in un percorso dialettico di verifica concreta.

Un conto è confrontarsi con la democratizzazione dello Stato, un altro con la costruzione del potere popolare in un municipalismo da praticare nel concreto. Un altro conto ancora, è diventare integrati nel sistema del dominio. Va fatto senza farsi integrare, e facile non è.


Altrettanto difficile è discutere tra noi di come il potere, la presa del potere del popolo rimanga un orizzonte che si misura con la sua frammentazione.

Nel qui ed ora, ritengo che sia venuto il tempo di immaginare concretamente, la praticabilità di proposte territoriali in grado di misurarsi sul tema del rifiuto della guerra e delle politiche del riarmo, della democrazia diretta, della produzione di welfare, di percorsi dal basso e mutualità. Sono le periferie e le aree interne il nostro spazio di azione principale; i punti di resistenza non mancano, l'Italia ne è piena. Costruire un patto tra i margini sarebbe già un buon punto di partenza.


(...) Non solo contro la guerra e il riarmo globale scendiamo in piazza oggi, ma con l'idea di tornare ad essere di nuovo vento che cambia il mondo.

Meno male che ci siamo.


fonte: https://www.facebook.com/profile.php?id=100008283164755 - 15 mar. 2025, 7.15

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