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4 dic 2024

Un meccanismo nuovo è intervenuto nel riconfigurare l’urbano: il meccanismo della rimozione, del rimodellamento della memoria, delle attuali forme di agire e praticare le città - di TIZIANA VILLANI

di Tiziana Villani

1 dicembre 2024


Il modo in cui abitiamo le città, l’urbano, le metropoli, dipende da molti fattori che in ogni caso escludono la possibilità di restituire una visione omogenea. Il “mondo nuovo” evocato da Joe Benjamin nella sua progettazione dei Passages, è un mondo che solo i bambini sono capaci di integrare “Ogni infanzia scopre nuove immagini per poi incorporarle nel patrimonio di immagini dell’umanità”.


Le nostre realtà urbane, a seguito dei recenti eventi pandemici, appaiono, nel loro essere, trasfigurate nelle loro funzioni, soprattutto le metropoli finanziarie, chiamate a ripensarsi alla luce di un’accelerata modificazione delle loro funzioni, delle forme dell’abitare, del consumare, del transitare.


Molti sono i motivi che in parte spiegano questo cambiamento, un cambiamento in realtà già in corso da diversi anni.


Nel suo diventare principalmente luogo del consumo e della mercificazione una città può divenire opaca, omologata nei suoi rituali, nelle sue cadenze, nelle sue abitudini; anche coloro che sono ai margini, che non hanno i mezzi, che fanno lavori alienanti tendono verso questi stessi riti, narrazioni.


Quartieri spesso privi di identità, svuotati come nei film catastrofisti, mentre nelle periferie in qualche modo la vita continuava, certo sospesa, certo interrotta.


Vale dunque la pena di interrogarsi sul ruolo e le funzioni di contesti urbani pensati come futuribili, simbolo delle funzioni direzionali con vaste e sempre più espanse aree periferiche diverse nei loro insediamenti e nelle loro configurazioni.


Tuttavia occorre considerare che un meccanismo nuovo è intervenuto nel riconfigurare l’urbano: il meccanismo della rimozione, del rimodellamento della memoria, delle attuali forme di agire e praticare le città.


Lo “stare per sé” del nostro presente rende la città difficilmente condivisibile, abitazioni come prigioni, isolamento e tempo cristallizzato, ripetitivo, congelato nell’attesa di disposizioni, aperture brecce possibili in un presente collassato.


Le città fantasma che viviamo perimetrano le nostre vite negli appartamenti, nei pochi itinerari consueti, nelle file d’attesa, sui tavoli del telelavoro, ma anche del lavoro operaio e della logistica, che invece non si ferma al pari di tanti lavori oscurati.


Le immagini delle città odierne ci restituiscono restituito al contempo un incanto, una bellezza struggente. Nei rari momenti di assenza dei rituali di lavoro, consumo, pendolarismo, affanno, ecco che il ritrovare la materialità “nuda” dei territori urbani offre un racconto inedito al quale non si era più abituati. Città in cui “fare deriva” per riprendere Debord in cui l’esplorazione si era trasformata solo in un compito, una possibilità affidata allo sguardo.


Nelle grandi metropoli finanziarie, le “città globali” secondo la definizione di S. Sassen, i centri direzionali all’improvviso si sono trasmutati in testimonianze di un tempo diverso in cui il telelavoro, il costo elevato degli affitti svuotava la funzione vetrina dei grattacieli griffati rendendoli desueti in un lasso di tempo davvero rapido, gli skyline disegnavano solo “i deserti luoghi”.


La pelle delle città è comunque capace di grande performatività, l’idea che piccole località, città di ridotta dimensione potessero invertire la tendenza all’inurbamento su scala globale, si è rivelata fragile se non a costo di trasformare questi “altri” centri in nuove periferie, solo più diluite riguardo alla versione più classica delle periferie storicamente intese.


Dunque più che di un collasso della dimensione metropolitana è più corretto parlare di una sua ennesima riconfigurazione non solo spaziale, ma anche lavorativa, sociale, materiale.


Le maglie urbane si sono riarticolate su scala più vasta riguardo ai processi produttivi e insediativi già da tempo largamente delocalizzati, ma la dispersione urbana soggiace a un duplice movimento, da un lato la tendenza all’omologazione e dall’altro l’innervarsi di “pieghe” che ne indicano lo smottamento, i collassi più o meno grandi, le micropolitiche di modificazione.


Colin Ward aveva già individuato negli anni Settanta, la peculiarità di alcune zone periferiche di Londra, impiegando come approccio lo sguardo e i modi d’uso dei bambini che quei territori abitavano e in un certo senso inventavano.

Forse serve, nel “presente sospeso” che attraversiamo, uno sguardo simile: “Il concetto di spazio di gioco e d’avventura si è nutrito di ciò che i bambini fanno effettivamente nelle particelle degli spazi abbandonati e bombardati.


Joe Benjamin, un pioniere infaticabile in questo campo, si lamenta del fatto che lo stesso concetto di terreno di gioco ha preso il posto dell’imbracatura e della corda dei meccanici […] Gli urbanisti che concepiscono dei parchi e degli spazi di gioco usurpano la capacità creativa dei bambini, si domanda loro di dissertare sul genere di chiusura da utilizzare e di costruire delle strutture prefabbricate, mentre il loro ruolo dovrebbe essere solo quello di fornire dei materiali disponibili per i bambini che costruiscono da soli i propri giochi”.


Tornare a creare l’urbano in una dimensione che sia di maggior agio, di migliore vita può partire da questa intuizione, fabbricare a partire da ciò che è disponibile e inventare come se i territori a nostra disposizione fossero ancora da scrivere, da immaginare.


Il recente dibattito sulla “rigenerazione urbana” compie l’errore degli ingegneri evocati da Ward, si precostituisce il progetto e lo si inserisce in un contesto, prescindendo dai modi e dalle forme d’uso di coloro che quegli spazi li abitano, magari in modo non sempre agevole e non sempre felice.


L’altro movimento interessante che può derivare da queste considerazioni riguarda l’emancipazione dallo stigma di cui sono oggetto taluni spazi: periferie degradate, coree, dormitori, fabbriche dismesse, la possibilità di ripensare e magari anche di abbattere e trasformare questi manufatti, queste infrastrutture richiede certo molto impegno, ma al contempo restituisce lo slancio e l’energia di qualcosa che nasce da un desiderio che non sia limitato al puro abitare, transitare, lavorare, consumare.


Infine, possiamo considerare ancora, come indicava David Harvey, le configurazioni urbane come spazi in cui si produce il “plusprodotto” o l’“economia parassitaria”?

Fin dal suo libro Giustizia sociale e città, Harvey assegnava al ruolo della reciprocità nei contesti urbani una valenza fondamentale, una capacità di resistenza ai processi di mercificazione, capace di mettere in crisi gli stessi.


Per quanto in declino, la reciprocità oggi sembra ancora poter offrire la possibilità di intrecciare relazioni positive e necessarie; tuttavia la velocità di trasformazione dei contesti urbani, i cambiamenti delle forme d’uso e consumo, unitamente ai meccanismi di una economia sempre più votata alla produzione di scarto in funzione del mantenimento di gerarchie tecno- finanziarie sempre più ciniche, richiede un ripensamento anche delle forme di condivisione e di alleanza.


Si tratta di ripensare “linee di fuga” permanenti, ossia capaci di reinventarsi ogni qual volta i processi di espulsione, marginalizzazione operino in modo pervasivo.


Ripartire da ciò che si ha a disposizione diviene così un compito, un impegno ininterrotto in cui diverse sono le soggettività chiamate ad allearsi, “alleanze” per dirla con Guattari, soggettive, sociali e mentali che operino sul terreno delle micropolitiche che però hanno sempre ben presente la dimensione della macropolitica, cui riferirsi, e dei suoi dispositivi.


Tali alleanze si realizzano attraverso concatenamenti tra specie e forme articolate non solo del vivente, ma anche delle sue creazioni, dei materiali, dei manufatti che necessitano di essere altrimenti inventati, usati, destinati.


Fonte: effimera.org - 1 dic. 2024

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