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Mickaël Correia. La transizione energetica è un mito, ciò di cui abbiamo bisogno è una rottura di civiltà

🌐 LE MALETESTE 🌐

4 mar 2024

Ciò di cui abbiamo bisogno è un’ecologia che smantelli le strutture di potere e le relazioni di dominio sociale, patriarcale e razzista che sono alla radice del caos climatico.
di MICKAEL CORREIA (ESP)

di Mickaël Correia

2 marzo 2024


Dal 1988, un centinaio di aziende sono responsabili del 71% delle emissioni. Tutte provenienti dall'industria fossile. Nel 2023, le tre principali compagnie petrolifere del pianeta, Saudi Aramco (Arabia Saudita), Gazprom (Russia) e China Energy (Cina), continuano ad aumentare profitti ed emissioni.


I gruppi imprenditoriali dei combustibili fossili affermano che stanno semplicemente rispondendo alla domanda. Ma la domanda in sé non legittima ciò che viene scambiato. Le nostre società richiedono armi, farmaci e medicinali. E ci sembra normale legiferare al riguardo per imporre quote o addirittura vietarne l’uso. Quando una compagnia petrolifera afferma di rispondere solo alla domanda, nasconde tutti gli strumenti politici che già esistono e che potrebbero essere discussi per tirarci fuori dal disastro attuale.


Ma noi abbiamo strumenti di limitazione e regolamentazione (due parole tabù nella logica neoliberale che è alla base del nostro mondo attuale) che possiamo mobilitare. Innanzitutto su scala internazionale. Dalla prima COP del 1995, le emissioni globali hanno continuato ad aumentare in modo irrimediabile. L’utilità stessa di questi incontri deve essere messa in discussione. Lo abbiamo visto alla COP28 di Dubai che non è questo il luogo adatto per porre fine ai combustibili fossili.


Le COP non mettono in discussione le regole della globalizzazione economica e finanziaria sfrenata che sono all’origine della catastrofe climatica. Al contrario, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Banca Mondiale e altri accordi bilaterali impongono regole e sanzioni vincolanti che proteggono l’economia globalizzata. In breve, negli ultimi 30 anni, le leggi sul commercio internazionale e sugli investimenti hanno avuto la precedenza sull’emergenza climatica.


La soluzione urgente sarebbe quella di iniziare smantellando e rinnovando democraticamente queste istituzioni neoliberiste e le regole che governano la globalizzazione per costringere i paesi e i giganti del petrolio, del gas e del carbone a rispettare i loro impegni climatici, pena le sanzioni.


Poi, a livello nazionale, si potrebbero applicare altri strumenti normativi per organizzare la sobrietà in modo equo senza colpire i più vulnerabili: imporre quote di emissione e produzione alle aziende sotto pena di sanzioni economiche, imporre piani climatici convalidati dalle autorità ambientali e dalla società civile, nazionalizzare le parti di esplorazione di petrolio e gas delle multinazionali per realizzare la transizione energetica che queste società non vogliono fare.


Gli strumenti non mancano, quello che manca è la volontà politica...

Le fonti energetiche non sono state sostituite una dopo l'altra, sono state (semplicemente) aggiunte. La transizione energetica è un mito, ciò di cui abbiamo veramente bisogno è una rottura di civiltà.


(...) Inoltre, questa struttura di potere è sostenuta dalle più grandi banche del mondo. Negli ultimi sette anni, i 60 maggiori gruppi bancari hanno investito 5,5 trilioni di dollari nel settore dei combustibili fossili.

Questo capitalismo globalizzato dei combustibili fossili è quindi un triangolo delle Bermuda – governi, aziende, banche – che sta fagocitando ogni tentativo di combattere il caos climatico.


Negli Stati Uniti è in corso un importante ciclo di contenziosi contro le grandi compagnie petrolifere americane, simili a quelli contro l’industria del tabacco. Una delle accuse è che queste aziende sanno da più di 50 anni che la loro attività sta distruggendo l’abitabilità del pianeta.

Negli ultimi mesi è stata intrapresa un'azione legale anche in Francia contro TotalEnergies per greenwashing e per chiedere risarcimenti per megaprogetti petroliferi in Uganda e Yemen. Lo stesso vale per Eni in Italia. Quindi il cappio legale si sta stringendo contro questi industriali dei combustibili fossili, ed è in corso una battaglia legale sulla questione dei danni e della responsabilità per il disastro.


Non si tratta di sapere quale sia la strategia più adeguata, ma di rendersi conto che, di fronte a questi giganti, è necessario adottare tutta una serie di misure pratiche per metterli in ginocchio una volta per tutte.


Se siamo a questo punto, è dovuto ad una narrazione dominante da più di 30 anni, che insiste sull’idea che risolvere la crisi climatica è una questione di disciplina individuale. Che devi cambiare te stesso per cambiare il mondo. Ciò che cerco di dimostrare nel mio libro è che il cambiamento climatico non è la conseguenza fatale della nostra individualità. Credo che questa ecologia dei piccoli passi e dei piccoli gesti, anche se per alcuni può fungere da porta d’ingresso verso la politicizzazione, oggi ci distrae dai veri motori della conflagrazione climatica. La violenza climatica è una questione sociale, proprio come la violenza sessuale e la violenza della polizia. Non è questione di pochi individui cattivi.


La crisi climatica è il risultato del capitalismo dei combustibili fossili che è stato deliberatamente creato e mantenuto dai governi e dalle grandi imprese. Ciò che dobbiamo fare oggi è adottare l’approccio opposto a questa ecologia senza nemici, ed evidenziare le relazioni di dominio e l’intera struttura sociale che ha creato e continua ad alimentare la catastrofe climatica.


La crisi climatica colpisce molto di più sia le popolazioni con minori risorse, sia le nazioni più povere.


Dal movimento operaio arriva l'idea che siamo soggetti a violenza diretta da parte dei datori di lavoro e nei nostri luoghi di lavoro. Dobbiamo quindi lottare contro questa violenza in fabbrica, in magazzino o in ufficio, anche se oggi è molto difficile organizzarsi, perché il mondo del lavoro è diventato molto frammentato.

La catastrofe climatica è strutturalmente razzista

Pensando alle emissioni di carbonio, che sono una forma di violenza industriale, queste sono prodotte indirettamente attraverso l’atmosfera. E questa violenza crea una condizione comune: le ondate di caldo, la siccità e le inondazioni alimentate dalla crisi climatica che stiamo vivendo in Europa vengono subite anche nel loro territorio da pakistani, brasiliani, somali... La lotta contro questa violenza climatica può creare internazionalismo .


Dato che i più poveri hanno anche maggiori probabilità di non essere bianchi, la catastrofe climatica è strutturalmente razzista. L’eredità dell’estrattivismo coloniale e del saccheggio da parte dei paesi ricchi ha lasciato il Sud del mondo senza risorse sufficienti per affrontare il cambiamento climatico. Da più di trent’anni, il 97% di tutte le persone colpite dalle conseguenze delle catastrofi climatiche si trova nei paesi del Sud. Anche nel Nord industriale, le infrastrutture del petrolio e del gas colpiscono maggiormente la popolazione non bianca. Negli Stati Uniti gli afroamericani sono 1,54 volte più esposti all’inquinamento da combustibili fossili rispetto alla popolazione complessiva.


Di fronte all’aumento delle temperature e al fascismo, ciò di cui abbiamo bisogno non è una “ecologia trasparente”, ma un’ecologia delle relazioni di potere. Un’ecologia che smantelli le strutture di potere e le relazioni di dominio sociale, patriarcale e razzista che sono alla radice del caos climatico.


Mickaël Correia*

fonte: (ESP) elsaltodiario.com - 2 mar. 2024

traduzione: LE MALETESTE


* giornalista francese specializzato nella crisi climatica, autore del libro "Climate Criminals - Le multinazionali che devastano il pianeta" ( Altamarea , 2024)

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