
LE MALETESTE
14 lug 2025
1 - I modi attraverso i quali in tutto il mondo donne e uomini lottano ogni giorno per sopravvivere possono creare dei sentieri verso l’emancipazione collettiva - STAVROS STAVRIDES / 2 - Per gli zapatisti il “Comune” è una parola che riguarda il concetto di lotta e che implica un campo aperto di discussione; il Comune è qualcosa di organizzato in basso. Nella loro idea di cambiare il mondo in profondità c’è il rifiuto convinto di categorie di dominio quali egemonia e identità; tutto ciò implica una critica delle forme di potere del capitale, a cominciare dallo Stato - SERGIO TISCHLER e RAUL ZIBECHI
Imparare da coloro che sopravvivono tenacemente
10 Luglio 2025
L’unico motivo per cui quelli che lottano contro il capitalismo e il patriarcato scrivono, parlano e agiscono è per dimostrare che la catastrofe attuale non è inevitabile. Inoltre, per esprimere con le parole e sperimentare con fatti che dimostrano che un altro mondo è possibile, hanno bisogno di imparare dalle concrete resistenze all’olocausto capitalista che oggi emergono dentro, contro e oltre il suo perimetro asfissiante.
Ma che significa veramente imparare? Imitare, adattarsi a modelli basati su generalizzazioni affrettate, utilizzare diciture tecniche o etiche che cercano di afferrare il significato delle azioni degli altri?
Forse possiamo partire dal fatto che i segnali della catastrofe sono tanto imminenti che la maggior parte della gente li attendono senza esitare, a meno che si realizzino cambiamenti radicali. Il problema è che, per molti, questa consapevolezza alimenta una specie di edonismo pessimista: “consumiamo tutto ciò che è possibile”, “sfruttiamo tutto ciò che possiamo”, consoliamoci guardando come altri già vivono in questa catastrofe con la speranza di poterle sfuggire”.
È cruciale imparare da quelli che hanno già sperimentato una catastrofe nei loro mondi e sono sopravvissuti. Come riuscirono i popoli colonizzati a mantenersi vivi dal punto di vista culturale, etico e letterario? Come riescono gli afroamericani – quelli che siamo abituati a descrivere come i discendenti degli schiavi, come se questa descrizione già non implicasse una naturalizzazione di un’identità brutalmente forzata – a manifestare nella pratica la propria volontà di continuare a essere differenti e liberi per conferire forma al loro proprio mondo?
Abbiamo la necessità di connettere le resistenze al capitalismo con le espressioni collettive di una volontà tenace di sopravvivere. In molti, casi, questa volontà collettiva viene sottovalutata: parliamo di “mera sopravvivenza”. Tuttavia, questi atti portano con sé i germogli di una inventiva collettiva, necessaria per qualsiasi sforzo di emancipazione.
La collaborazione nei compiti che favoriscono le opportunità della sussistenza collettiva – come coltivare la terra, pescare o costruire case – è un processo che potenzialmente trasforma la necessità in etica. E le ricreazioni rituali della collaborazione possono trasformarla in una sorgente di valori sociali e principi fondamentali.
Solo per fare un esempio: il Mutirão in Brasile (parola con radici nella lingua tupí guaraní) è un processo di comune aiuto che si è sviluppato nelle zone rurali e che si basa sul lavoro comunitario. Fu recuperato dai movimenti delle persone senza terra e senza casa (MST e MTST) come una forma di cooperazione nella lotta che produce nuovi modelli di vita collettiva. Non è un caso che il Mutirão venga ritualizzato anche nelle rappresentazioni mistiche del MST, che sono atti che celebrano il cooperativismo e il potere della Madre Terra. Le diverse rappresentazioni mistiche corroborano un’etica di condivisione e una relazione di cura con la terra (Stavrides, 2024).
Nelle pratiche di condividere e della cooperazione, nelle quali la prima (condividere) è sia la condizione iniziale che il risultato della seconda, emerge una potenzialità di emancipazione: la creazione di relazioni sociali basate sulla fiducia e sul reciproco appoggio. Ma questa potenzialità deve essere realizzata, sviluppata e inventata attraverso la pratica. Possiamo usare il verbo “rendere comune (comunizar)” per descrivere i processi di cooperazione che comprendono diverse aree della vita sociale nelle quali si pone la questione dell’accesso equo e della distribuzione del potere, questione inevitabile oltre al come la ricerca della sopravvivenza collettiva affronti questa questione.
Se la catastrofe smaschera le differenze spesso accuratamente nascoste, gli sforzi della sopravvivenza collettiva fanno emergere forme di convivenza basate sulla mutua dipendenza. Gli sforzi individuali, specialmente tra coloro che sono i più vulnerabili e ignorati (a meno che non li si consideri dall’esterno come inutili) si rivelano ogni volta più sterili.
Gli sforzi della sopravvivenza devono adattarsi mediante tattiche collettive e le tattiche si sviluppano nella pratica. I modelli della pratica nascono nella intersezione delle traiettorie precostruite della riproduzione sociale.
Forse in un contesto sociale gli atti si convertono unicamente in esempi delle regole predominanti? Magari possiamo riscoprire la potenzialità degli atti che apparentemente seguono le tipologie predominanti del comportamento se distinguiamo con attenzione tra il paradigma e il modello. Questa possibilità la suggerisce Giorgio Agamben:
“… un paradigma implica un movimento che passa di singolarità in singolarità e, senza mai abbandonare la singolarità, trasforma ogni caso singolare in un esempio di una regola generale che non può mai enunciarsi a priori” (2009:22).
Il modo dominante di una tale conoscenza è l’analogia e non necessariamente la generalizzazione. In altre parole, il paradigma non è semplicemente il mezzo per presentare e confermare una regola, bensì forse per iniziare una comparazione analogica.
I monaci, dice Agamben, potrebbero prendere ad esempio la vita del fondatore dell’ordine al quale appartengono e vivere le proprie vite, uniche come la sua, in forma analoga. Non ci affretteremo a chiamare questa pratica imitazione: l’analogia presuppone la singolarità degli aspetti comparati. La base di una comparazione si costruisce senza che l’uno si integri nell’altro.
La creazione di una regola di condotta monastica è, per Agamben, qualcosa di molto diverso dal paradigma della vita del fondatore dell’ordine. Il paradigma, come manifestazione di una regola, presuppone una peculiare sospensione della propria specificità del suo significato. La sua singolarità, in un certo senso, rimane tra parentesi (come quando utilizziamo la coniugazione del verbo “amare” per mostrare la regola della coniugazione di verbi simili). Un gesto paradossale, di fatto, perché si suppone che la regola si formi a partire da tutti i casi che contiene (tutti i verbi simili). E l’esempio è certamente uno di quelli. Agamben conclude:
“Il caso paradigmatico si converte in ciò: nel sospendere e, allo stesso tempo, nell’esprimere la sua appartenenza al gruppo, in modo che non sia mai possibile separare il suo modello dalla sua singolarità” (ibid. 31).
Un modo per valutare l’importanza di questa osservazione è formularla in questa maniera: ogni regola contiene un insieme di singolarità (istanze) solo perché identifica un elemento comune per tutte. Pertanto, è un errore ridurre l’unicità dei casi a una regola. L’unicità si capisce perché è l’intersezione di differenti regole. Così, di fronte al falso dilemma per il quale “le azioni delle persone sono tutte uniche” e “le azioni sono plasmate sulla base di schemi dominanti”, possiamo rispondere: in ogni singola azione si intrecciano regole che plasmano le pratiche (sequenze di atti) nell’applicare determinati schemi. In questo senso, ogni azione è un esempio.
In maniera analoga, possiamo parlare del controesempio. Un atto differente o un insieme di pratiche differenti possono considerarsi controesempi se li paragoniamo a una norma alla quale si contrappongono. Non come un’eccezione: l’eccezione appartiene alla regola. Si trova all’interno di essa come un verbo “irregolare” appartiene alla coniugazione dei verbi che si assomigliano nel non seguirlo. Agamben ha ragione quando insiste nel dire che l’eccezione non sta al di fuori della regola, bensì ne è solo la sua sospensione. Per questo, le eccezioni rilevano gli elementi costitutivi della regola dalla quale si separa ogni eccezione particolare. Il detto popolare che recita che l’eccezione conferma la regola sembra rivelare più di quanto appare in un primo momento.
Le imprese eccezionali possono essere (viste) come atti eroici che sfidano esplicitamente le norme imposte. Sono (atti) necessari e utili per esporre la norma alla quale si contrappongono. Tuttavia, la loro forza diminuisce quando si trovano limitati a un confronto specifico con una norma specifica. I controesempi forse possono evitare questo trabocchetto, dato che possono arrivare più in là di un confronto specifico con la norma specifica di cui servono come esempio. Come succede di solito con gli esempi, possiedono le caratteristiche unica della loro specificità. Pertanto, possono trasformarsi in incroci di possibili pratiche, invece che in punti di rottura di una norma specifica.
Le pratiche quotidiane possono essere portatrici di controesempi. Non dovrebbero descriversi semplicemente come non eccezioni, affermazioni di regole dominanti o espressioni di sottomissione reticente ma accettata. Questa è una delle maniere di ribadire che la riproduzione sociale è un campo di battaglia, più che una condizione stabilita con forza. Per questo, le tattiche di sopravvivenza quotidiana, specialmente di coloro che sono esposti ai pericoli immediati della catastrofe generata dal capitalismo, possono creare dei sentieri verso l’emancipazione collettiva, anche se una tale prospettiva non è necessariamente integrata in queste tattiche.
Non è necessario che atti divergenti o dissidenti siano coscientemente proiettati da quelli che li realizzano in qualità di controesempi. La loro forza risiede nel fatto che offrono le opportunità per sperimentare mondi sociali organizzati in modo diverso. In questi mondi, attraverso gli atti, ma anche grazie al loro significato, si sviluppano controesempi. Considerare questi atti come modelli di sforzi emancipatori risulta utile per costruire delle teorie di emancipazione sociale, però forse trascura qualcosa di molto importante: il ragionamento analogico che permette alla teoria di mettere a confronto una molteplicità di casi senza ridurli a una regola generale. In altre parole, l’emancipazione sociale viene esplorata da persone reali in circostanze specifiche, e pertanto può adottare forme differenti. Nel rispettare il carattere distintivo e particolare di ogni pratica realizzata, abbiamo quindi la necessità di considerare l’emancipazione sociale come il trionfo dell’inventiva collettiva. Solo gli artigiani capaci e dotati di inventiva possono emancipare sé stessi.
Fonte: comune-info.net - 10 luglio 2025
* Stavros Stavrides
è professore alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene,
si occupa di reti urbani di solidarietà e mutuo sostegno.
Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista
(intitolato Crítica Anticapitalista 3 –
La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar.

Nota sul Comune
13 Luglio 2025
Cosa si intende per “Comune”, di cui gli zapatisti parlano oggi con particolare enfasi? Qual è il suo concetto e la sua incarnazione pratica? Questo non mi è sufficientemente chiaro e, poiché sono molto interessato all’argomento, mi sono concesso la seguente riflessione, a rischio di un’alta probabilità di errore. Ma è un rischio necessario. Perché seguendo il metodo o la via zapatista, possiamo basarci sulla prospettiva che “Comune” non è una verità consolidata, ma piuttosto una parola che implica un campo aperto di discussione. E questo perché quella parola, per come la intendo io, è un modo di nominare diverse lotte che nascono dall’antagonismo della forma capitalista delle relazioni sociali.
In questo senso, diamo per scontato che “Comune” sia parte di un processo in costruzione “dal basso e verso sinistra”; come detto sopra, è qualcosa di aperto, e non qualcosa di dato, definito e cristallizzato in una forma sociale già evoluta.
Di certo, sappiamo che il Comune è una parte fondamentale delle lotte zapatiste, nella cui esperienza la critica della proprietà in ogni sua forma (il tema della non-proprietà) è un asse centrale. Tuttavia, non è difficile rendersi conto che ciò che nomina va oltre quella particolare esperienza, e che al suo interno esiste un livello più generale che ci interpella ed è legato al concetto stesso di lotta. Questa domanda appare più chiara quando ci poniamo la domanda sul comune del Comune.
Qual è il comune del Comune? L’essenza della domanda ci spinge verso una risposta affermativa e una definizione (è questo, è quello, ecc.). Tuttavia, dovremmo piuttosto sottolineare la negatività manifestata in particolari lotte: la forza di ciò che viene negato nella forma di classe delle relazioni sociali; il traboccamento di quella forma da parte di ciò che viene negato; la crisi di quella forma dovuta a questo traboccamento. In questo senso, ciò che ci interessa sottolineare è che il tema del Comune apre la possibilità di una discussione attorno all’idea di lotta di classe, con una particolarità: non sussumerla in un campo già teoricamente cristallizzato, ma aprirne criticamente il concetto.
Sviluppare un’argomentazione ampia e approfondita su questo tema esula dallo scopo di questa breve nota, che mira solo a esprimere intuitivamente un approccio personale all’argomento.
Tenendo presente ciò, ci interessa sottolineare che l’idea di lotta di classe ha una sua storia, e che non è stata univoca, ma piuttosto un campo di disputa teorica con conseguenze pratiche. Un tratto che va evidenziato in questa storia è la positivizzazione e la reificazione del concetto. In questo spostamento, l’idea di lotta di classe ha gradualmente perso il suo contenuto critico-dialettico.
La caduta dell’URSS ci ha rimandati al 1917, questa volta per interrogarci su una sconfitta storica. La domanda ci perseguita, ed è parte del nostro sogno anticapitalista. In questo senso, come possiamo mettere in relazione il Comune con una controlettura dell’idea reificata di lotta di classe?
Per un approccio, è necessario considerare l’idea di rivoluzione che gli zapatisti hanno dispiegato nelle loro dichiarazioni e nella loro pratica. Come è noto, questa idea rifiuta la lotta come soluzione pratica ed epistemica, espressa in categorie di dominio come egemonia, omogeneità, identità e altre; ciò implica una critica delle forme di potere del capitale, in particolare dello Stato. Hanno sostenuto che lo Stato non è una soluzione ma un problema (ciò non implica un rifiuto astratto del soggetto, ma piuttosto la necessità di sviluppare, dal basso, un’altra politica, coerente con la critica di questa forma).
Il Comune dello zapatismo non va confuso con l’idea di una comunità particolare; e, in generale, con una politica epistemicamente fondata su una chiusura identitaria. In questo senso, si può dire che il Comune designa qualcosa che non può essere afferrato con categorie di totalità, ma piuttosto in termini di crisi della totalità e della sua critica, fondata sulla necessità di abolire il lavoro astratto come nucleo della forma di classe delle relazioni sociali. In altre parole, il Comune può essere inteso come categoria critica solo in termini negativi (non identitari).
Perché ciò che chiamiamo beni comuni è ciò che viene negato nella classe come forma di dominio del capitale; ma è anche il negativo della classe e, in quanto tale, la testimonianza di una possibilità storica, quella della dissoluzione della classe e di un universale che si riproduce in e attraverso quella forma. In questo senso, sarebbe necessario dire che la classe è una categoria contraddittoria. Da un lato, è una forma di relazioni sociali e, in quanto tale, condensa il dominio del sistema, dell’universale; dall’altro, è la possibilità oggettiva di creare un mondo liberato dalla forma di classe delle relazioni sociali. Vale la pena parlare, quindi, di “Comune” come un modo per dare un nome alla lotta per quest’altro mondo.
A volte questo viene presentato come un’atmosfera, come un’aria, come qualcosa che va oltre definizioni specifiche e dimensioni operative; tuttavia, il Comune è qualcosa di organizzato dal basso, dal cuore della lotta, che è anche un’idea. Ogni lotta ha il suo linguaggio specifico. Il linguaggio comune della lotta non è l’imposizione di un linguaggio generale dall’astrazione del pensiero, ma emerge piuttosto dalla comunicazione delle lotte.
Fonte: comune-info.net - 13 luglio 2025
*Sergio Tischler, sociologo e storico guatemalteco,
insegna all’Università di Puebla, in Messico, dove vive da molti anni.
Alcuni suoi saggi sono stati tradotti in più lingue.
Con John Holloway e Fernando Matamoros è autore di
Negativity and Revolution. Adorno and Political Activism (Pluto press).
In Italia, nel 2010 è apparso un volume di cui è tra gli autori: Zapatismo: tracce di ricerca (editpress).

L’orizzonte strategico non è più a sinistra
di Raúl Zibechi
11 Luglio 2025
Di tanto in tanto, la sinistra si entusiasma per le ultime novità mediatiche che promettono tempi felici, solo per vedere questo fervore svanire senza conseguenze, poiché raramente si guarda indietro per valutarne i risultati. In questi giorni, i nomi del socialista Zohran Mamdani, come possibile sindaco di New York, e di Jeanette Jara, come candidata alla presidenza per i progressisti cileni, sono motivo di gioia e speranza.
(...) La sinistra assomiglia sempre più ai media mainstream che tanto critica. Un entusiasmo enorme, espresso in titoli di giornale, produce effetti immediati ma di breve durata. Una volta esaurito l’effetto, non si chiedono che fine abbiano fatto quelle speranze che erano riuscite a entusiasmare i loro seguaci. Credo sia necessario ricordare le esplosioni di passione che hanno caratterizzato l’ascesa di Podemos in Spagna e l’ascesa al potere di Syriza in Grecia.
Sono solo fuochi d’artificio destinati a tenere a galla una sinistra traballante, che ha perso ogni spessore strategico, incapace di andare oltre effimere manovre tattiche che non cambiano nulla e vengono presto dimenticate.
(...) Lo scorso fine settimana, tre compagni brasiliani vicini alla Teia dos Povos (la straordinaria Rete brasiliane dei Popoli riunisce comunità, popoli e organizzazioni politiche rurali e urbane che promuovono percorsi di emancipazione collettiva per costruire un’alleanza nera, indigena e popolare, “il nostro obiettivo non è essere un movimento sociale che abbracci gli altri, vogliamo camminare insieme, non produrre un’unità monolitica…”, ndr) hanno visitato una mezza dozzina di riappropriazioni (bonifiche territoriali) del popolo Guarani Kaiowá nello stato del Mato Grosso do Sul, vicino al confine con il Paraguay.
Negli scambi che abbiamo avuto, hanno descritto la potenza di questi spazi, uno dei quali occupa seicento ettari, la diversità delle colture e la forza delle comunità riterritorializzate. Uno degli insediamenti sta contestando 11.000 ettari di terreno con l’agroindustria, sebbene “si trovino in una situazione di grande vulnerabilità, con attacchi notturni da parte di uomini armati dei proprietari terrieri con cui si contendono il territorio ancestrale, che passano a bordo di camion 4×4 e sparano alla comunità. Sono riusciti a rimanere nella zona a intermittenza per 47 anni di riappropriazione”, dice la compagna Silvia Adoue.
Riguardo a quello spazio, Pakurity, compa Esteban del Cerro scrive su Quilombo Invisível che dalla riconquista del 1986, “ci sono stati decenni di permanenza e movimento a Pakurity attraverso altri mezzi: lavori temporanei nell’azienda, utilizzo della foresta vicina per l’estrazione di piante medicinali, erbe, radici e frutta, caccia e pesca; spostamenti di famiglie nella regione; memoria dei defunti e degli antenati”. Il testo conclude:
“Da nord a sud del continente, i popoli indigeni si fanno portavoce del grido zapatista per i beni comuni e la non-proprietà, e le riconquiste continuano a chiarire che la via dell’insurrezione è la via per la vittoria. L’insurrezione dimostra anche che il recupero delle terre ci dà speranza, anche in mezzo alle trincee, per un nuovo modo di relazionarci con gli esseri viventi“. La terra trasformata in territorio apre orizzonti di vita.
Le riappropriazioni territoriali in tutto il continente, sostenute da attori collettivi nelle aree rurali e urbane, possiedono la profondità strategica che la sinistra ha perso assestandosi nella zona di comfort dello Stato e delle istituzioni. Non sorprende più che coloro che celebrano minime “vittorie” elettorali stiano voltando le spalle alle lotte che stanno ricostruendo il movimento popolare, impegnandosi per la sopravvivenza collettiva durante la tempesta sistemica che ci sta colpendo.
Fonte: comune-info.net - 11 luglio 2025