📢 LE MALETESTE 📢
22 mag 2023
Una riflessione sul metodo operaista dell’analisi della composizione di classe e il problema dell’organizzazione di fronte alla crisi ecologica.
di LORENZO FELTRIN, EMANUELE LEONARDI
Operaismo e composizione di classe
L’operaismo è una tradizione teorica altamente diversificata al proprio interno, caratterizzata da innumerevoli ambiguità e punti ciechi, come lo stesso pensiero femminista da esso influenzato ha dimostrato con forza già dai primi anni ’70. Noi che siamo cresciuti con questo approccio, lo consideriamo come una posizionalità di partenza da cui tessere trame con altre tradizioni, provenienti da persone e luoghi diverse dalle fabbriche, i territori e le università italiane degli anni ’60 a cui risalgono le origini dell’operaismo.
Nell’ambito di questa premessa, riteniamo che uno dei contributi operaisti ancora utili sia il principio secondo cui le forme organizzative devono essere costantemente aggiornate per stare al passo con le trasformazioni della composizione della classe lavoratrice in diversi tempi e luoghi. Di conseguenza, l’operaismo non è inerentemente “anti-sindacato” o “anti-partito” come certe superficiali caricature di moda oggi vorrebbero. Per come lo intendiamo, si tratta piuttosto di un approccio flessibile in cui molte formule diverse – e anche contrastanti – sono state sperimentate nel corso della storia degli interventi politici che a esso si richiamano. Il classico metodo è quello di condurre “inchieste operaie” sulla composizione di classe propria di ogni determinato contesto, formulando su queste basi proposte politiche e organizzative e testando la loro efficacia nella pratica. Si tratta dunque di un processo di scambio continuo tra produzione di sapere e intervento politico.
Nella griglia interpretativa classica, le modalità in cui la forza lavoro viene organizzata e stratificata nel luogo di lavoro attraverso processi produttivi, livelli tecnologici, differenze salariali, catene del valore, ecc. costituisce la composizione tecnica della classe, il suo versante “oggettivo”. La composizione politica, invece, è data dalla misura in cui lavoratrici e lavoratori superano (o meno) le divisioni interne alla classe per imporre al capitale i propri comuni interessi. Si tratta del versante “soggettivo”, costituito da forme di coscienza, lotta e organizzazione.
Tuttavia, sulla base delle elaborazioni teoriche di autrici femministe come Mariarosa Dalla Costa, Silvia Federici e Selma James, Seth Wheeler e Jessica Thorne hanno opportunamente proposto di aggiornare questa griglia interpretativa aggiungendovi la composizione sociale della classe, ovvero le modalità in cui chi lavora si riproduce sul territorio, attraverso strutture residenziali, relazioni familiari, accesso al welfare, ecc. Il versante oggettivo della composizione di classe risulta dunque biforcato tra composizione tecnica (relativa al luogo di lavoro) e composizione sociale (relativa al territorio). Da questa prospettiva, è possibile analizzare come la classe lavoratrice sia segmentata anche rispetto al degrado ambientale.
Lotta di classe, sviluppo della tecnologia, crisi ecologica
Le tensioni tra luoghi di lavoro e territori rispetto alla produzione nociva non sono una costante storica. Per esempio, durante il Lungo ‘68 italiano, lotte innovative come quelle ai reparti verniciatura della Fiat, o negli stabilimenti chimici della Montedison, convertirono il tema della salubrità dell’ambiente – prima in fabbrica, poi su tutto il territorio – da questione tecnica riguardante i siti produttivi a posta in gioco politica della pratica antagonista sindacale e di movimento. Tali luoghi di lavoro diventarono un tipo particolare di ecosistema. La classe lavoratrice ne faceva il suo habitat “naturale” e finiva per conoscerlo meglio di chiunque altro.
Non è un caso che i conflitti contro la nocività industriale – che hanno prodotto figure chiave come Ivar Oddone a Torino o Augusto Finzi a Porto Marghera – furono pioneristici nel sottoporre a una critica feroce la cosiddetta “monetizzazione della salute”, l’idea cioè che un aumento salariale o uno scatto di livello potessero “compensare” l’esposizione a sostanze inquinanti, talvolta letali. Così facendo, esercitarono scientemente una pressione antagonista verso una produzione meno impattante, oltre l’imperativo del profitto.
Per capire che cos’è cambiato da allora, dobbiamo ricordare che l’analisi della composizione di classe nacque come “inversione” dell’analisi marxiana della composizione del capitale, ovvero la relazione tra mezzi di produzione e lavoro vivo. Secondo la “legge generale dell’accumulazione capitalistica” di Marx, nel capitalismo si dà una tendenza – sospinta dalla competizione orizzontale tra i capitalisti e dalla lotta verticale tra le classi – all’aumento della produttività del lavoro attraverso lo sviluppo tecnologico, fenomeno che a sua volta tende ad accrescere la precarietà lavorativa. Come riassunto da Marx, “quanto più alta è la forza produttiva del lavoro, tanto più grande è la pressione dei lavoratori sui mezzi della loro occupazione, e quindi tanto più precaria diventa la loro condizione di esistenza”. Tale “legge” può essere controbilanciata da diversi fattori più o meno contingenti. Resta tuttavia una forza costante nel capitalismo, i cui effetti si manifestano in assenza di controtendenze sufficientemente potenti. Ad ogni modo, possiamo vederla come avente due facce dialetticamente interrelate, poiché si riferisce alla coevoluzione della composizione del capitale da un lato (la produzione tende a diventare in media più intensiva a capitale) e della composizione di classe dall’altro (l’aumento della proporzione “eccedente” della classe lavoratrice).
È però necessario aggiungere immediatamente che la codificazione e incorporazione nelle macchine del sapere previamente “clandestino” del lavoro vivo (l’espressione è di Romano Alquati, ma si pensi alle odierne tecnologie d’intelligenza artificiale) determina non solo un aumento quantitativo della proporzione tra “capitale costante” (l’investimento in mezzi di produzione) e “capitale variabile” (la massa salariale) ma anche un’intensificazione qualitativa del controllo capitalista sul processo lavorativo e sulla forza lavoro. Le concrete traiettorie di sviluppo tecnologico che prendono così forma sono tutt’altro che neutrali. Da un lato sono concessioni dirette alle lotte, per esempio modifiche agli impianti che riducono la fatica, le emissioni, lo stress, insomma la nocività in tutti i suoi aspetti. Tuttavia, un’innovazione che proceda solo su questo versante minerebbe la competitività delle imprese che l’adottano. Dall’altro lato, dunque, l’innovazione deve ristabilire il controllo sulla forza lavoro a un nuovo livello di sviluppo tecnologico. Ogni tecnologia capitalista è insomma una sintesi contraddittoria e provvisoria di questa dualità conflittuale, ma dev’essere in ogni caso compatibile con l’imperativo del profitto per potersi generalizzare.
Come Raniero Panzieri osservava già nel 1961: “Lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione, di forme sempre più raffinate di integrazione ecc., un aumento crescente del controllo capitalistico. [...] [I]l rovesciamento operaio del sistema è negazione dell’intera organizzazione in cui si esprime lo sviluppo capitalistico, e in primo luogo della tecnologia in quanto legata alla produttività”. In questo senso, possiamo parlare della crescente composizione politica del capitale per designare la sua spinta, che incontra sempre una certa misura di resistenza, a elevare il proprio potere sul processo lavorativo.
Gli esempi della dialettica tra lotta di classe e innovazione tecnologica sono molteplici, dalla catena di montaggio Taylor-Fordista al controllo numerico, la containerizzazione o – più recentemente – il management algoritmico. Tuttavia, rispetto alla crisi ecologica, quello energetico è forse il settore più significativo. Infatti, secondo Andreas Malm, il carbone rimpiazzò i corsi d’acqua come la fonte d’energia industriale più diffusa a causa del bisogno di mobilità del capitale nella sua ricerca di forza lavoro a basso costo, in un contesto marcato da forti mobilitazioni operaie: “La lotta contro il movimento operaio necessitava di macchinari, che necessitavano di motori a vapore, che necessitavano di carbone, che da quel momento accompagnò la crescita dell’industria”. (È però opportuno notare che la narrazione di Malm, per quanto utile, sottovaluta il colonialismo come condizione della produzione industriale su grande scala in Gran Bretagna.) In modo simile a Malm, Timothy Mitchell spiega la (parziale) sostituzione del carbone con i più fluidi petrolio e gas come uno sviluppo tecnologico volto a disinnescare il “potere vulnerante” del movimento operaio, minimizzando le strettoie nel flusso di energia. La pipeline è così diventata un dispositivo per aggirare la rigidità della classe lavoratrice.
Composizione e organizzazione, tra luogo di lavoro e territorio
Le ristrutturazioni tecnologiche e organizzative che hanno avuto luogo nella grande industria durante i decenni che ci separano oggi dall’ambientalismo operaio del Lungo ’68 hanno generato molteplici trasformazioni. Ne poniamo qui in evidenza tre, che non sono in nessun modo universali ma si danno in molti casi. Primo, l’approfondirsi dell’automatizzazione ha ridotto la proporzione della forza lavoro impiegata nella grande industria, relativamente all’output e alla magnitudine della classe lavoratrice globale nel suo complesso. Secondo, dei rimanenti posti di lavoro nelle fabbriche, i più qualificati restano all’interno dell’azienda committente ma tendono a richiedere titoli formali, cosa che costituisce un incentivo alle assunzioni di lungo raggio. Terzo, le mansioni “meno qualificate” sono esternalizzate a una forza lavoro parzialmente fluttuante tramite appalti, agenzie interinali, ecc. L’effetto complessivo è spesso quello di una relativa “deterritorializzazione” della forza lavoro della grande industria, che tende a essere meno radicata nelle comunità adiacenti alle fabbriche rispetto alla situazione prevalente prima della ristrutturazione neoliberista. Tendenze simili sono ancora più accentuate nei territori caratterizzati dalla presenza di attività estrattive, come miniere o pozzi di gas e petrolio, che usano tecnologie avanzate.
Qual è l’impatto di tali trasformazioni sui territori adiacenti a grandi installazioni produttive inquinanti, noti in inglese come “fenceline communities”? Per rispondere alla domanda, dobbiamo prima chiarire le linee di politicizzazione che attraversano questi spazi. Le lotte per la giustizia ambientale hanno più potenziale di emergere in quartieri collocati nei pressi di siti produttivi che li colpiscono direttamente con emissioni chimiche, traffico, inquinamento sonoro, luminoso e olfattivo, ecc. Queste popolazioni sono esposte ad alti livelli di tossicità e degrado ambientale, nonché a rischi d’incidenti gravi come esplosioni e incendi. Inoltre, tali “zone di sacrificio” sono in molti casi più che proporzionalmente abitate dai segmenti più precari – e spesso anche razzializzati – della classe lavoratrice, perché chi percepisce un reddito più elevato può trasferirsi con maggiore facilità a zone più salubri. Parliamo qui di classe lavoratrice in senso ampio, includendo i disoccupati e coloro che svolgono lavoro riproduttivo, informale o non salariato in tutti i settori economici.
Le tendenze deterritorializzanti sopra descritte fanno sì che gli abitanti delle fenceline communities restino esposti a livelli significativi di nocività industriale (nonostante le migliorie apportate dagli aggiustamenti tecnologici) ricevendo però meno benefici in termini d’impiego nelle fabbriche inquinanti. Questo fenomeno aumenta le probabilità di tensioni interne alla classe lavoratrice, tra chi lavora in tali fabbriche ma vive lontano da esse e chi vive vicino ma lavora in altri settori. Si allarga così la biforcazione tra luoghi di lavoro e territori, tra composizione tecnica e sociale.
Queste segmentazioni hanno anche un impatto sulle forme organizzative. Per gli operai e le operaie della grande industria e, più in generale, per la forza lavoro direttamente e stabilmente assunta dalle aziende intensive a capitale, i grandi sindacati sono ancora – in tempi normali – un veicolo efficace di rappresentanza degli interessi, attraverso la negoziazione di condizioni e salari relativamente buoni (rispetto a quelli di altri segmenti della classe) tramite contratti collettivi esigibili. I grandi sindacati in genere hanno anche un ruolo importante nel settore pubblico. Tuttavia, più ci si sposta verso il polo precario della classe e più diventa difficile per i grandi sindacati organizzare una forza lavoro altamente frammentata e dispersa, con poche possibilità di bloccare i colli di bottiglia della produzione dall’interno del luogo di lavoro. I diversi segmenti della popolazione eccedente adottano così una grande varietà di forme organizzative: sindacati più piccoli e radicali, organizzazioni di movimento, associazioni di quartiere, comitati per la direzione dei blocchi stradali che fermano la produzione dall’esterno del luogo di lavoro, ecc. La forma partito, essa stessa una categoria assai ampia che contiene al proprio interno molteplici possibilità, si trova ancora in tutti i segmenti della classe, ha però una prominenza minore rispetto a epoche passate.
Per una transizione ecologica dal basso
La sfida dell’ambientalismo di classe oggi è quella di generare una ricomposizione, una convergenza, tra luoghi di lavoro e territori attraverso piattaforme politiche comuni in grado di rompere il ricatto occupazionale (“reddito o salute”). Da un lato, il territorio inteso come la sfera della riproduzione è l’ambito in cui le lavoratrici e i lavoratori fanno l’esperienza più diretta del proprio interesse a combattere la crisi ecologica. Dall’altro lato, i luoghi di lavoro ad alta intensità di capitale sono l’ambito in cui c’è più potenziale per trasformare la produzione alla radice della crisi ecologica stessa. Si tratta dunque di una sfida anche per la convergenza tra diverse forme organizzative, dove convergenza non significa però né fondersi né diventare simili. Piuttosto, convergenza è cooperazione dalla base tra organizzazioni diverse, mantenendo però le specificità che permettono loro di funzionare efficacemente per i rispettivi segmenti di classe.
Questo, tuttavia, non può accadere per fiat del teorico predicare. Infatti, l’oggettiva frammentazione della composizione tecnica e sociale della classe fa sì che le opportunità per la convergenza tendano a emergere in situazioni di crisi, dove e quando le strutture che separano diversi segmenti della classe vengono scosse. È per questo che tali opportunità devono essere colte rapidamente, prima che tali strutture si ossifichino di nuovo. Per esempio, la convergenza tra lotta sul posto di lavoro e movimento climatico guidata con successo dal Collettivo di Fabbrica GKN Firenze (i cui lavoratori sono per lo più membri ribelli della CGIL) è diventata possibile solo quando l’azienda ha annunciato la chiusura della fabbrica.
A nostro modo di vedere, il punto della vertenza ex-GKN non è la difesa dell’industria europea per sé, tantomeno della sua storia e natura coloniale. Dobbiamo infatti affrontare il fatto che, se desideriamo veramente una divisione internazionale del lavoro più egualitaria, la produzione industriale nel Nord Globale deve decrescere. Il Collettivo di Fabbrica GKN ha piuttosto portato avanti una battaglia per la trasformazione sia della produzione che delle relazioni sociali che le danno forma. In questo caso, si tratta più specificamente di una trasformazione e demercificazione del trasporto, che avrebbe così bisogno alla base di meno materie prime. In ultima istanza, ciò significa anche contrapporsi alla corsa ai “minerali critici” del Sud Globale che sta venendo attualmente portata avanti dalle forze della transizione ecologica “dall’alto”, rafforzando invece i collegamenti internazionali tra le forze della transizione ecologica “ dal basso”, come in certa misura è successo anche tra l’esperienza ex-GKN e il movimento delle fabbriche recuperate in Argentina.
Per concludere, torniamo alla dialettica tra lotta di classe e sviluppo di tecnologie alimentate a combustibili fossili. Parafrasando Aristotele, Tronti vide “la classe operaia come motore mobile del capitale”. In questo senso, la lotta di classe è il motore primo dello sviluppo capitalista a un livello molto più profondo dell’energia fossile bruciata per mantenere l’energia viva della classe all’interno dei parametri dell’accumulazione di capitale. Senza dubbio, scrivendo nel 1965, Tronti non pensava alla crisi ecologica. Oggi, tuttavia, vediamo come il potere della classe lavoratrice – nel sospingere lo sviluppo di tecnologie in grado di mantenerne il controllo – è divenuto, in forma perversa, benzina nel motore della crisi ecologica. Eppure, è proprio nella convergenza tra diverse forme di lotta di classe che si trovano molteplici possibilità di riformare ulteriormente la tecnologia capitalista, come anche la speranza di raggiungere il tasto “off” per gettare le basi di una produzione della ricchezza attraverso relazioni sociali e tecnologie alternative.
LORENZO FELTRIN, EMANUELE LEONARDI
fonte: globalproject.info - 17 maggio 2023